Ho incontrato Patrizia Valduga per Primavera dei Teatri, a Castrovillari, un avamposto di drammaturgia ai piedi del Pollino. Evento nell’evento, in dubbio fino all’ultimo minuto, Valduga arriva piuccheperfetta, incollata ai suoi versi e ai suoi incredibili vestiti. E non smentisce l’aspettativa per la poesia a teatro: un meteorite che atterri con consapevole garbo.

Ai tavolini vintage di un bar, ospitato in uno dei chiostri gemelli del Protoconvento francescano, da una nuvola di tulle nero, la poetessa fulmina con gli occhi chi, ingolfando un complimento, scambia il suo copricapo anni ’20 per un travestimento da ‘principessa longobarda’. Accetta champagne e chiede – per carità – di dirle istantaneamente il nome di quella montagna a forma di cono che ha contemplato poco fa dall’autostrada, nel tramonto calabrese. Non posso non sintonizzarmi: avevo notato la stessa montagna. Ma lei afferma di avere un immediato bisogno di conoscere la parola: i poeti vogliono possedere il nome. Quello non salta fuori e occorre rimandare, bisogna andare in scena.

La poesia a teatro non è più così rara, ma questa sì: un’interessante proposta di Donna di dolori, in corso di studio, a cura di Antonio Calbi, con l’incontenibile energia di Daniela Piperno e, per la prima volta in scena, Patrizia Valduga. Tuttavia, non è un debutto – guai a dire ‘attrice’. Guai pure, in effetti, a usare espressioni come ‘la sua opera’, per quanto appropriate: la magniloquenza non è poetica, figurarsi in bocca ai critici. Ho faticato a convincerla che non sono una sua fan: si intuisce il motivato timore di essere assediata da giovani gotiche e suffragette in ritardo, che non agganciano la sua simpatia.  

Ci ritiriamo, l’indomani, una mattina di giugno, al piano superiore dello stesso edificio, nel silenzio imbottito dai libri della biblioteca Caldora, per iniziare la nostra conversazione. ‘Studio – assicuro – provo a scrivere un lavoro sulla poesia contemporanea e i suoi rapporti con l’oralità’. Questo sì, le piace: sa bene di essere anche uno dei centri del ‘problema’ orale in Italia.

Consumata metricista, voce distintissima, presenza di assoluta e meritata notorietà: dal punto in cui si rappresenta, la Valduga vuol sottolineare la forza centrifuga della sua produzione, generatrice, forse, suo malgrado, di quel cerchio di istrioni dal quale si spinge fuori, quasi sicura, tuttavia, di aver contribuito a crearlo. Tra un amante del ‘2D-pagina’ e un apprezzatore del ‘3D-poeta declamante’, lei chi preferisce? Non ho voluto chiederlo: la risposta sarebbe chiara, se si sommassero le altre che mi ha dato, ma forse sarebbe sbagliata. Sbagliata apposta, si intende… Diretta quanto evasiva, a imitazione della letteratura. 

D’altra parte, si confonderebbe chi volesse studiare i suoi versi senza considerare il fenomeno di costume e quella performatività che ci avvolge come un sistema – l’ineludibile e affascinante sistema orale – che impone autoconsapevolezza a studiato e studiante.  Lei, in particolare, è una donna che studia, si studia, ti studia. Onesta e surreale come le parolacce dette da principesse – venete– che preferiscono si ceda loro la sinistra. 

Forse la drammaturgia non è il suo primo mestiere, tuttavia a sdrammatizzare la Valduga è eccezionale. Eppure, chi cogliesse autoironia in queste risposte si ingannerebbe. Autoironia è parola troppo moderna per descrivere una qualità così mobile. Quello che lo specchio di una domanda può far dire a una conclamata signora della parola è una cosa sfuggente quasi quanto la risposta che la poesia dà all’esistenza comune. 

Lasciamo il paese insieme a Daniela Piperno, Antonio Calbi, accompagnate dall’organizzazione gentile su una sorta di carovana allegra che comprende altri attori e bambini.  La Valduga ci sale persino divertita e striscia gli occhi sulle montagne, le confronta a voce con quelle della sua Belluno. Il nome di quella che sembrava un cono non siamo riusciti a trovarlo e ora non serve più: notiamo che, dalla prospettiva del ritorno, la montagna non disegna quel triangolo perfetto che ci si aspetterebbe sulla pagina del cielo, il 2D su cui la poesia, pure quella orale, continua spesso ad avvertire il bisogno di fissarsi. Sono quasi sicura che di quella montagna, senza il suo nome, non scriverà nulla. Questo che segue, invece, è il frutto scritto e sintetico di una conversazione che è proseguita, con mia gratitudine, nei mesi successivi alla sua apparizione tra le alture del Sud. 

La sua poesia ha un rapporto significativo con il teatro. Il fare dell’autore e quello dell’attore sarebbero distinti alla radice: augere è dell’autore, agere dell’attore. Oltre che nella sua opera, è proprio nella sua persona che le due arti sembrerebbero sovrapporsi. È così? Possono convivere efficacemente autore e attore nella stessa persona? E in lei? 

Ma sta scherzando? Non sono un’attrice, e neanche una «fine dicitrice», come si diceva una volta. So leggere bene solo quello che mi piace; e non sopporterei di essere diretta da qualcuno, non ho né l’umiltà né il temperamento. Pensi che, quando devo fare delle letture all’estero, soffro moltissimo, perché posso leggere solo i testi tradotti; e a me, invece, piace decidere all’ultimo momento cosa leggere, a seconda del pubblico che c’è, di come mi ispira, di come respira… Potrei mai fare l’attrice?

L’assegnazione delle proprie opere a un genere non è ovvia, quando ci si colloca tra scrittura e oralità. Monologo, poemetto: alcuni suoi testi si potrebbero definire alternativamente l’uno o l’altro.  Ritiene che ci sia un legame diretto tra ispirazione di tipo poematico e vocazione performativa?

Per me non c’è nessun legame. Scrivo solo poemetti perché scrivo ogni sette-dieci anni per sette-dieci giorni filati. Per forza di cose, non può venir fuori una silloge… Ammetto che un monologo è teatrale per natura, se così si può dire, e confesso che cinquant’anni fa uno psicanalista – Elvio Fachinelli – mi ha definita «una persona costretta dall’angoscia a rappresentarsi». Ma rappresentarsi non significa avere una «vocazione performativa»: l’attore sa bene che a teatro vale la regola del bastone immerso nell’acqua che, se non lo si piega prima, sembra spezzato; sa che ogni gesto, ogni inflessione, per sembrare naturale, deve subire una lieve deformazione… Io non deformo, non piego un bel niente, e non immergo niente; non salgo su un palco immaginario a interpretare qualcosa di diverso da me: resto come sono, dico come sono… spezzata di mio, per l’appunto, come sono.

La forma chiusa caratterizza tutta la sua opera. La metrica è una gabbia, ma è anche ciò che rende memorizzabile, dicibile, divulgabile e memorabile un’opera: nasconde un’istanza di apertura. L’aristocrazia del verso può conciliarsi con la democrazia di una pubblica lettura? 

Ma andiamo… Semmai potrebbe esserci un’aristocrazia della conoscenza, e una democrazia dell’ignoranza… Non ci sono versi aristocratici e versi democratici: ci sono solo versi belli e versi brutti, versi che assimilati ci rendono migliori, e versi che ci lasciano come siamo, quando non ci rendono peggiori. La poesia è un linguaggio specializzato, per specialisti, e infatti ha pochi lettori. Molti lettori, e molto successo mediatico ha invece l’imitazione corriva e degradata della poesia.

Un’opera può dirsi chiusa nel senso di conclusa o è un continuo divenire secondo il principio di “opera aperta”? La sua dizione la apre o è una conferma della sua stabilità?

L’opera aperta è una sparata populista di Umberto Eco: nessuna opera è aperta, ci sono delle varianti di lettura individuali, certo; ma ci sono delle costanti di senso perentorie, e chi non le capisce, non capisce niente. L’opera è chiusissima, e una perfetta dizione deve lasciarla così.

Perché alcuni poeti sentono il bisogno di dire i propri versi agli altri?  L’oralità è indispensabile alla poesia, oppure le poesie possono anche rimanere ferme nei libri? 

Perché sono dei narcisi, degli esibizionisti. I versi si sentono prima di tutto mentalmente; a me piace più leggerli che sentirli leggere. Invece mi piace sentir leggere i poeti stranieri, e mi è indispensabile, se devo tradurlo, sentire come suona un testo nell’originale.

Cosa pensa della poesia orale contemporanea?  Ha qualcosa a che fare con la sua opera o con la sua persona, in Italia? È possibile individuare un’ascendenza? 

Non so cosa sia la poesia orale contemporanea… Si riferisce a qualcosa come «slam poetry»? Non mi interessa, sono troppo vecchia per queste cose. 

In particolare, cosa pensa della poesia che si rifà oggi a quella degli antichi aedi? Lei, invece, ha qualcosa a che fare con gli aedi, ovviamente in senso meno diretto e retorico? Il poeta parla per conto di un Dio che gli presta la voce? 

Fortunatamente non la conosco. Il poeta parla per conto di sé, e testimonia di sé, attraverso due logiche, quella della razionalità e quella della follia.

Ha parlato della funzione erotica del linguaggio, affermando che la successione dei suoni, in poesia, dà un piacere fisico. L’erotismo percorre la sua opera in senso tanto tematico che formale. Dell’affermazione che le donne scriverebbero “col corpo” salva qualcosa? In che misura il corpo entra nel suo processo creativo? 

Mi viene in mente una battuta di Laura Betti, una delle donne linguisticamente più interessanti che abbia conosciuto. Tornando a Roma da Spoleto in auto, commentava con Raboni i monologhi di due attrici che avevamo visto la sera prima: «Però, Giovanni, tutto questo smonologare nella fregna…». Ecco una cosa che non vorrei si pensasse di me. Scrivo col cervello, non perché ho un cervello, ma perché sono il mio cervello.  

E la voce fa parte del corpo? 

Ah, i poeti vedono con le orecchie! E giudicano dalla voce. Ho tante di quelle citazioni al riguardo… Vuole sentirne qualcuna?

Sì.

Montaigne: «E Zenone aveva ragione di dire che la voce è il fiore della bellezza». Christopher Smart: «perché la voce di una figura è completa di tutte le parti della figura; perché un uomo parla con tutto se stesso dal sommo della testa alla pianta dei piedi; perché la voce viene dal corpo e dallo spirito – ed è un corpo e uno spirito; perché niente è così reale come quello che è spirituale». Tommaseo: «Non giudicate dell’uomo se non dopo sentito come pronunzia». Giacomo Lubrano: «si getta sempre fuor delle fauci l’impuro delle anime, conciossiaché ciascuno come parla così vive, e chi vive male parla peggio». Persino il marchese di Sade (la prego di scrivere «di» e non «de»), che è tutto occhi, dice che «le sensazioni comunicate dall’organo dell’udito sono quelle che più lusingano e le cui impressioni sono più vive». 

La sua voce è naturale, collegata alla sua identità, o è artificiale? Quando ha iniziato a percepirla ed eventualmente a lavorarla e come? Quando l’ha scoperta artisticamente, in relazione alla poesia?

Non l’ho «scoperta», la mia voce, non l’ho «lavorata», e non è «artificiale». La mia voce è così com’è, è sempre stata così. Che leggessi meglio degli altri alunni se ne sono accorti anche i maestri delle elementari: facevano leggere sempre a me, ogni anno, la poesia per la festa degli alberi…

La voce esprime perfettamente il proprio stile di scrittura?

Credo davvero che la voce sia il ritratto più fedele, l’espressione più pura dell’essenza di una persona: e se la poesia è, come dice Pascoli, «fatta di anima pura e di parole», voce e stile, poesia e stile devono essere una cosa sola. Sì, la voce si può impostare, lavorare; ma sono cose da attori, e se le fanno i poeti, si percepisce subito l’artificio. Lo sa che è colpa mia se i festival di poesia sono diventati un carrozzone di filodrammatici di provincia? Da quando hanno sentito me, convinti che io mi fossi addestrata per bene, quasi tutti i poeti hanno voluto piacere, emozionare, incantare: alcuni sono andati a scuola di dizione, altri a scuola di recitazione… Adesso si assomigliano tutti, è imbarazzante.

Qualcuno ha detto che, quando lei dice le sue poesie, “lancia missili”, “scaglia dardi”. Eppure, la sua voce appare anche soavemente esalante…  è la metrica a darle energia? 

Quando leggo i poeti che amo, sono loro i padroni della mia voce, e ne fanno quello che vogliono. Ma potrei anche dire: i poeti che amo li conosco bene, e mi viene del tutto naturale leggerli come li leggo. Quando leggo me, leggo come mi pare e piace.

Lei sente la sua voce intima che le “detta” una poesia? Può testimoniare il rapporto tra Raboni e il suo fantasma sonoro.

Raboni ha parlato di un fantasma sonoro, è vero. Ma io non gli ho chiesto nessuna spiegazione. Non gli ho mai fatto domande, purtroppo; per discrezione, per rispetto della sua riservatezza, e per non sembrare stupida. Adesso mi pento, adesso che avrei tantissime domande da fargli… E tantissime ne sento di voci, quando mi capita di scrivere. 

Ma in generale ha parlato del punto di sella del poeta. Quando si trova lì, quello che le arriva come ispirazione è un flusso sonoro o qualcosa di diverso?

A me arrivano parole, soltanto parole… Quello che dico sul «punto di sella» in Per sguardi e per parole forse riguarda solo me, è quello che succede a me. 

Trovo interessante l’aspetto cognitivo dell’ispirazione: lei ha una formidabile memoria dei versi d’altri e suoi, affidata agli Zibaldoni, di cui ha parlato altrove, e soprattutto alla sua mente. Come agisce nel processo compositivo la memoria? È un serbatoio per le citazioni, certo, ma anche per lo stile? 

Quello che lei chiama processo compositivo è qualcosa di cui non so dire assolutamente niente. Come le ho già detto, per me l’ispirazione è l’irruzione improvvisa e imprevedibile della logica dell’inconscio.

Belluno è corredato di note. Lei apprezza che le sue citazioni vengano colte, non scompaiano nel fluire dei suoi versi, dove si alternano, in un miscuglio peculiare, frustoli di altri e ispirazione personale? 

«Frustoli»? Santo cielo! Sono reliquie sacre, che conservo nella mente, e adopero con «avvedimento e riverenza», come mi ha insegnato Daniello Bartoli. E non è ispirazione personale anche questa? 

Crede che sia corretto definire postmoderna la sua opera, per via dell’uso delle citazioni le lei fa? Bisogna essere colti per leggerla? Quanto contribuisce alla sua opera poetica la sua vasta opera di traduttrice?

Cosa vuole che m’importi alla mia età di come mi definiscono… Non bisogna essere colti – se non si capisce una parola, basta aprire un dizionario – bisogna avere il gusto, provare piacere… Quanto alle traduzioni, che peraltro godono del più grande disinteresse, non mi sono mai servite, non sono mai entrate delle mie «selve». 

Ha affermato che scrive a matita ed espunge parti, cancellandole completamente.  Il processo che precede la pubblicazione va oscurato? Perché rimuove le tracce del suo processo compositivo?

Sì, non lascerò niente da fare ai filologi. Perché conservare un verso che ho sostituito con uno migliore? 

Ha una collezione di voci di poeti. Quali preferisce? Perché? 

Potrei non averla, amando la poesia e la voce? Ho un 33 giri di Valéry, cassette o CD di Brecht, Joyce, Pound… Ho Berryman! E ne sono particolarmente fiera: me l’ha procurato Raboni quando è andato a New York. E in raccolte persino Hofmannsthal, Apollinaire…

Sugli eventi più recenti. Cosa comporta affidare il proprio testo a un attore? Ha appena introdotto un work in progress di Donna di dolori, diretto da Antonio Calbi e interpretato da Daniela Piperno. In questa prima messa in scena le voci si accostavano, si scontravano… Il testo è già stato portato sul palco, parecchi anni fa, con Franca Nuti, diretta da Ronconi. Cosa succede alla poesia quando entra a teatro? 

Diventa un’altra cosa, si adatta al nuovo spazio, si piega alla nuova voce. Ma resta sempre se stessa.

Lei ha amato il teatro. Quali registi ha apprezzato? Quanto l’esperienza del teatro è entrata nella sua opera?  

Il mio amore per il teatro è cominciato con il mio amore per Tadeuzs Kantor. Era il 1985… e nell’87 Raboni è diventato critico teatrale, e l’ho seguito dappertutto. Ho amato Strehler e ho amato Castri, perché mettevano il loro genio al servizio del testo. Ho amato meno Ronconi, perché metteva il testo al servizio del suo genio.

Di lei si coglie prima la patina del “personaggio” di cui qualcuno ha parlato? Si afferma che esiste una costruzione anche in questo senso. Che passa dal corpo, dal costume, dal gesto. Ritiene che questo sia importante? Che sia opportuno collegare i fili e cogliere tutto insieme: testi, voce, corpo, gesto per comprendere il suo lavoro? 

Chi mi conosce, sa bene che sono una persona, e non un personaggio. Una persona con una personalità forte, certo. Sa cosa ha detto Raboni in un’intervista a Gabriela Fantato? «Lo shock che è stato per me, oltre alla sua persona, la sua poesia…». E Raboni era un genio; le persone mediocri e senza immaginazione si limitano a pensare che mi atteggio, che mi esibisco, che sono una snob, che sono una stronza… Poverini, non ce la fanno proprio…

(Oltre a Patrizia Valduga, ringrazio Saverio La Ruina, Settimio Pisano, Chiara Palazzo, Antonio Calbi e Daniela Piperno, senza i quali questa conversazione non avrebbe avuto luogo).


(in copertina: foto di Renzo Chiesa)