Teresa è nata a Favignana, questo è sicuro, ma non ricorda quanti anni ha. Novanta o forse novantuno, potrebbero essere persino novantadue. Mica improvvisa i numeri per dissimulare d’invecchiare, è che proprio non lo ricorda. Figurarsi chiedere l’età che ha raggiunto ai figli o ai nipoti. Una volta la buonanima di suo marito borbottò dei dolori all’inguine e lo obbligarono a urinare. Una scena tremenda che Teresa non dimentica: era bloccato e doveva farla, solitamente calmo ed educato urlò in italiano (il che fece ancora più effetto) «vedete che sto a pisciarmi il pisello?». Chiedesse loro la sua stessa età la prenderebbero per rimbambita, rincoglionita come le ha detto una volta l’amico di un nipote pensando fosse pure sorda.

Non segue tempistica (la misura odierna del tempo) o soffre tentennamento quando decide di aprirsi, e forse per questa sua immediatezza mi sono affezionato a Teresa. Mi sono incuneato nella sua curiosità con la cucina: un giorno mi ha preparato la frittata con le patate e l’indomani le ho portato la tortilla che ho imparato a fare a Madrid (spiegandole il legame fra Sicilia e Spagna); un altro giorno le ho regalato un lingottino di bottarga di tonno e le ho mostrato come rivisitare la sua mafalda, imbottita di tranci di ventresca in scatola, con un panino al latte, una fetta di bottarga e una di limone («Chi si chic» mi ha schernito).

Abita nel centro del paese, a pochi passi da piazza Europa dove non va mai («Chi ci a jiri a fari?») e dalla chiesetta di Sant’Antonio da Padova dove andava sempre («U core me vinìa»). Vicino c’è anche Palazzo Florio, con una vetrata di misurato liberty e un balcone inagibile sul mare, che fu, come la chiesetta, progettato da Giuseppe Damiani Almeyda e fatto costruire da Ignazio Florio dopo avere acquistato l’arcipelago delle Egadi nel 1874, compresi mari e tonnare per nemmeno tre milioni di lire. In quel palazzo, ora del Comune, Teresa ci dovrebbe immaginare grossolanamente ballare Angelica e Tancredi, magari nei signorili panni di Claudia Cardinale e Alain Delon come trasogna la sua vicina, invece Il gattopardo, la prima cosa che mi chiese di leggerle, non le piacque: s’innervosì presto e m’interruppi. È sorprendente Teresa; apprezza la tortilla, alta e quasi cruda, il contrasto del limone col tonno, si è appassionata a certi miei compiaciuti paragoni fra le isole serigrafate da Keizo Morishita e le Egadi, e perfino ha amato Minchia di Re, romanzo ambientato a Favignana, incentrato sulla storia d’amore fra due ragazze di cui una, per buona creanza, si traveste da ragazzo (il titolo riprende il nome al maschile che qualcuno dà al pesce ermafrodita che qui chiamiamo al femminile viola di mare). Leggevo le pagine di Pilati e Teresa non batteva ciglio, seduta composta come al solito, con le braccia lungo il corpo e sulle gambe, a certe scene o parole assottigliava le labbra e con le dita stringeva il grembiule (è così che si commuove).

Favignana

Teresa trascorre l’inverno sulla poltrona a guardare fuori dalla finestra e sta zitta. Parla solo con me, mentre mangio pane e panelle che prendo più su in paese prima di arrivare da lei. Io, però, a Favignana ci torno solo occasionalmente in primavera e per tutta l’estate. L’isola mi piace intera: il tonno che qui è tutto; le api dei pescatori, i cestelli dei panettieri; la granita al limone che al mattino prendi con la brioscia (col tuppu) e alla sera corretta di vodka (lo sgroppino), i gamberi crudi, il pesce fresco, le fritture sul momento e tutte le meraviglie che mangi (al Bar Mazzini, alla trattoria La Bettola, alle Cave Bianche); i giri in barca o in centro la sera; i falò che da ragazzino organizzi in mezz’ora e che, superati i trent’anni, fai saltare perché è già l’una o perché, magari, hai lasciato a casa lo spray contro le zanzare; il castello di Santa Caterina che domina l’isola e sbuca negli scorci, quello che ti riprometti di salirci ma non ci sali mai; soprattutto mi piacciono gli scenari di Cala Rossa e del Bue Marino, con le loro cave di tufo che ti riempie di polvere i piedi quando ci cammini in mezzo e di bucherelli le mani se ti appoggi per più di un attimo, rischiando fra l’altro di far franare queste pile di Jenga malferme, questi fondali d’opera lirica; l’isola del Previto che si raggiunge con una lunga nuotata solleticati dalla posidonia, l’acqua bassa e la sabbia abbagliante di Cala Azzurra e i tuffi da Grotta Perciata, e poi tutte le punte, dalla Lunga alla Sottile, da Fanfalo a Marsala; l’assenza di spiagge attrezzate e di discoteche; l’approdo albino a Levanzo e il profilo di Marettimo che taglia il tramonto; le teste di moro con piante grasse a mo’ di rasta; le ville con gli eritrini e le amache nel giardino; le agavi, i fichi d’India e i gatti che vivono l’isola come andrebbe vissuta, perché Favignana è felina (bisognerebbe solo dormire, vagare, mangiare pesce, sdraiarsi all’ombra, tenere gli occhi socchiusi per la luce comunque accecante e chiuderli fino ad addormentarsi di nuovo). E poi mi piacciono le vestaglie a fiori, le ciabatte col platò e le macchie sui volti delle anziane; i loro racconti, quelli di Teresa. La mappa migliore per muoversi qui.

Reportage Favignana 5

Teresa attende aprile, magari maggio. D’estate respira l’aria aperta, c’è più da vedere e ci sono i paesani e i turisti, che per lei sono meglio dei suoi figli, dei nipoti e degli amici di famiglia. Ina le racconta cosa cuce, il giovanotto che aiuta Mimmo al forno la saluta con una battuta. La gente di fuori passa, la vede sventagliarsi seduta sulla sedia impagliata vicino al gradino scalcinato e al portone spalancato, intravede il cucinino bianco a gas, la tv vecchia sul tavolino, i piatti dipinti alle pareti, e le sorride. Preferisce essere presa per una cartolina da inviare col cellulare, per una figurina siciliana d’altri tempi o per l’Italia quella vera in via d’estinzione che non per una morta in vita; meglio, ripete Teresa, essere compatita che canzonata, fotografata di nascosto che completamente ignorata.

Ha aspettato tutta la vita questa stagione. Da quando s’impiegò allo Stabilimento Florio delle tonnare di Favignana, quest’isola del favonio coi bordi frastagliati e la forma di una farfalla (come l’ha definita il pittore Salvatore Fiume) che è tutto il suo mondo, lungo meno di dieci chilometri e largo meno di cinque. Lo Stabilimento Florio, in cui si lavorava e conservava il pescato, ha chiuso i battenti negli anni Settanta e, abbandonato per decenni, nel 2010 ha riaperto come magnifico esempio di archeologia industriale. Teresa, che lì ha inscatolato tonno fino all’ultimo, non lo aveva visitato, ma una settimana fa mi ha chiamato («Ascuta curù») e mi ha chiesto di accompagnarla («Teresa, sei seria?»).

Ogni aprile venivano gettate in mare le reti (lunghe, a volte, quanto larga è l’isola) a formare un corridoio di camere per indurre i tonni rossi all’interno, dritti a quella della morte. A maggio partivano i tonnaroti che, come rais comandava, prendevano parte alla mattanza: si tiravano le reti per affiorare e arpionare i tonni, in una messa in scena tesa anche dalle cialome (capita che le canti ancora, gioioso e funereo, zu’ Peppe ai turisti della tonnara). Nel 2007 la mattanza è stata sospesa. Le voci di un ritorno ai tonni rossi si sono sempre sentite, ma quest’anno si sono fatte prima insistenti, poi affidabili e rivelatrici del vero e, in fin dei conti, di un nulla di fatto perché i costi per calare la tonnara sostenuti dall’azienda Castiglione sono troppo alti per le basse quote di tonni assegnate dal ministero “competente”. L’esatto contrario di un nulla di fatto per Teresa, tanto eccitata da tutto questo chiacchiericcio da invogliarsi d’improvviso a muovere verso lo Stabilmento Florio: «Vogghiu vìriri coi ùocchi mia, mi vogghiu séntiri viva ancùora apprima ri moriri».

Non solo sono rimasto spiazzato dalla richiesta di Teresa, ma ho dovuto accontentarla di nascosto e con la Vespa. Figurarsi andare in due, con un’ultranovantenne che non ho mai visto allontanarsi dalla soglia di casa. Tenevo il manubrio con le mani sudate e le gambe mi tremavano col motore acceso. Per fortuna che ci vuole poco, in un attimo abbiamo costeggiato la Praia (la spiaggetta del paese), superato i pallet con le mattonelle, le ancore arrugginite e aggrovigliate, e siamo arrivati alla tonnara dei Florio.

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Li ho attraversati spesso quei trentamila metri quadrati di stabilimento (le latte verdi e rosse, gli uffici e le officine, gli spogliatoi e i magazzini, la trizzana e il malfaraggio, i forni e le tre altissime ciminiere) dunque ho pensato di guidarla io a Teresa e lei, che aveva pestato ogni metro migliaia di volte, rimasticava con le labbra assottigliate quel che le dicevo, camminava stringendosi la gonna con le mani e dandomi la soddisfazione di sorprendersi e fidarsi. Io parlavo come se avessi cose nuove da dire e lei mi ascoltava come se lo fossero davvero. «È qui che hanno inventato il tonno sott’olio e le scatolette di latta con l’apertura a chiave» e le ho spiegato le intuizioni di Ignazio, la fortuna dei Florio, il fascino di Franca, i benefici per l’isola, il welfare per i dipendenti, il declino della famiglia, i passaggi di proprietà; le ho mostrato che lo stabilimento è il museo dell’isola quando abbiamo sostato nelle stanze con i reperti storici, fra i rostri di epoca romana ritrovati nelle acque delle Egadi a conferma che l’ultima battaglia della prima guerra punica si consumò a largo di Levanzo e che, dunque, Cala Rossa non si chiama così per il sangue.

Nel Padiglione Torino, Teresa ha provato le emozioni più spiazzanti e sincere; non sapeva dove dirigersi nel buio e a chi dar retta fra gli intervistati proiettati tramite delle specie di olografie, ombre di amici e compari. Presenze su lastre le cui voci fuoriescono da casse a campana: Ventrone Clemente, Provvidenza Campo, Salvatore Mastrobattista e altri. Nicolina Ania racconta quando un tonno, con un colpo di coda, tranciò il piede al padre: «Con l’ago bollito, con la tintura a olio, con lo spirito, col cotone disinfettante, gli ho cucito il piede, ci ho dato sei punti, a mio papà». Mentre un’altra signora, dietro, ripete fra sé e sé la frase «il tonno in testa», Gioacchino Ernandes, entrato nello stabilimento a undici anni, ribadisce che dalla mattanza e d’estate era tutto più bello: «Avevamo quell’ansia che aspettavamo che facevano le mattanze e che venivano i tonni a terra perché la lavorazione che si faceva era il tonno, poi tempo d’inverno si lavoravano magari sgombri, sardine, ma quello che a noi interessava era il tonno». E Gioacchino Cataldo, l’ultimo rais, che fino all’anno scorso ritrovavo in paese col volto arso, puntuale, imperiale e dolce su una seggia, nella video-intervista parla che pare ti culli nelle sue braccia massicce: «Non è che è una sfida, quella era una lotta della sopravvivenza […]. Noi ammazzavamo i tonni perché ci dava da vivere a noi e all’isola»; «io vorrei vedere uno che lavora in una fabbrica di cioccolato, vediamo se non mangiasse la cioccolata; io mangiavo il tonno»; «specialmente con i venti da sud-ovest e ovest il paese si riempiva di profumo di tonno»; «ricordo che le donne quando passavano vicino ci rimaneva quel puzzo che era di pesce […], che poi non avendo la doccia a casa, non era facile ogni giorno toglierselo di dosso, quel profumo-puzzo di pesce».

«Anche io aspettavo l’estate, poi profumavo-puzzavo di pesce e avevo sempre in testa il tonno» mi ha detto Teresa uscendo dal padiglione, davanti agli enormi pentoloni di rame. «Hai parlato in italiano» ho balbettato incredulo e lei, con voce sicura, ha ribattuto: «Te l’ho detto tante volte che i Florio mi fecero studiare». Io non ho saputo cosa dire, lei sì: «Vorrei essere ascoltata, capìta; sai che mia mamma mi disse che il mio nome in greco vuol dire estate o nata su un’isola?». Abbiamo raggiunto la Vespa in silenzio. Nell’interminabile rientro, di sensi sbagliati e svolte saltate, ho sentito esplodere la testa dentro il casco, le mani di Teresa afferrarmi più forte che all’andata. L’ho lasciata e salutata davanti al portone di casa sua, dove un gatto leccava una lisca, ma ha deviato ed è entrata nella chiesetta di Sant’Antonio.

Gli intrecci di piante e fiori, gli angeli su sentieri di gigli, i nastri e i grappoli d’uva, l’arancione accesso e il verde acido, rendono eccezionale quest’edificio religioso in stile liberty. Immagino la mia amica lì, immobile e commossa, seduta su una panca di legno, le pantofole sul pavimento a riquadri bianchi e neri, lo sguardo alle decorazioni che le paiono carta da parati. Teresa è in una casa più bella della sua, pur rovinata com’è dalla salsedine, dall’umidità e dall’incuria.

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