Alla sua terza raccolta poetica Flaminia Cruciani, archeologa e storica dell’arte romana, fa di Semiotica del male un’attualissima riflessione sull’umanità e la profondità dell’abisso che la svela. Trenta componimenti pubblicati dall’editore Campanotto che spaziano dalla forma epigrammatica al passo più ampio dell’ode, della narrazione in versi, della preghiera. Il fulcro dell’ispirazione è il “male”, di cui emergono con forza due visioni antitetiche.

C’è un male che è male: la desolazione dell’orizzonte «immondo», fatto di «palcoscenico», «idiomi marginali», «stupidità di prima mano»; il dramma del tempo e, ancor più, del trucco per ingannarlo (ingannando in realtà se stessi); la ferita del distacco e dell’assenza (non meno lancinanti perché connaturati nel ciclo della vita); l’offesa della fede distorta e pietrificata, del Dio «di acquerello, fisso come un quadro». A questa vuota fissità, questa sterile indifferente onnipotenza, Flaminia Cruciani contrappone l’esuberanza vitale, «l’irriverenza ascetica», la consapevolezza che nasce da «virtù illecite».

 

Io l’ho posata la croce
l’ho smontata e con i suoi pezzi di legno
ho costruito strumenti musicali
per riempire di musica la vita.
Perché io sono Dioniso.

 

In questa prospettiva emerge l’altra, più essenziale, visione del male inteso come esperienza rivelatrice.

 

Quel male era necessario allora
a comprendere, a rivelare
il mondo, a difendersi.
Quel male era un diritto alla vita.

 

Discendendo nel male, esplorandolo, la poetessa si inizia a «leccare l’oscurità», «farsi sangue che bolle», vivere l’oggi e continuamente fecondarlo, come in un talamo, lisciare come fregi le «tracce della fiera lasciate sulla cera della pelle». Nessun abisso è precluso: la vertigine si spinge fino a sfiorare l’abbraccio della morte, l’annullamento che arruola «nelle schiere degli dei mani». E proprio in quel lembo estremo accede a una purezza libera, una fragilità feconda: il suo riscatto. «Solo chi attraversa la notte senza lucciole potrà domare l’esistenza».

Attivista della poesia, animatrice con Tommaso Kemeny del movimento “Poetry and discovery”, Flaminia Cruciani plasma una poesia piena di furori, di “mania” divina, nutrita di felici invenzioni, luminose metafore e costantemente pervasa da un’intensa passione filosofica. Una poesia intessuta degli arpeggi accattivanti di un Gibran, baciata dalla fantasia potente di un Dylan Thomas, impreziosita da un piccolo vocabolario di parole-visioni («pozzocielo», «calicicorpi») dalla sottile carica immaginifica. Una poesia, più di tutto, rivolta a una profonda ricerca spirituale, che fonde – richiami simbolici e insieme vie d’accesso al segreto del mondo – il cristianesimo e i riti pagani, gli echi della mitologia classica e le suggestioni dei culti orientali, misterici e “desertici”. Il punto d’approdo, il nocciolo di ogni religione dell’uomo è comune e incandescente. Un sincretismo maestoso e, dopotutto, semplice. Un’abbagliante «corazza eretica», di cui Flaminia Cruciani si veste orgogliosa, a un tempo inquieta e paga.

La sua Semiotica è in fin dei conti un complesso viaggio iniziatico, dal posto dove si muore credendo di vivere alla «foresta indaco dove il sole è un tuorlo di luce». Una scoperta di sé per sottrazione dall’apparenza e discesa negli inferi dolorosi e lucenti della realtà. Uno smascheramento dell’io che predispone all’incontro con l’altro, al silenzio profondissimo della condivisione.

 

Ho partorito l’umanità
nei boschi dell’indifferenza
quando rovistavo nella vertigine del cielo
come in un cassonetto.
Poi ci sorprese l’amore
e sotto quel cielo guasto
noi tacevamo nella stessa lingua.  


crucianiFlaminia Cruciani, Semiotica del male, Campanotto, Pasian di Prato (UD) 2016, 96pp. 12€