Maddalena Bergamin, mi pare, è un poeta che diffida del presente — senza per questo disertarlo però, anzi. Tra quelli comparsi quest’anno nel quaderno Marcos y Marcos mi sembra la meno interessata a esistere, oggi, nel modo in cui oggi si esiste in quanto poeti (o a rifiutare quel modo, che è la stessa cosa). Parlando con lei, malgrado ci intendessimo con ogni evidenza, io che tendo romanamente al rituale e all’aggregazione ho avuto l’impressione di non potermi affidare a nessuna implicita comunione di partenza, come quando si incontra uno che ha letto i tuoi libri preferiti in un’altra lingua o che ha vissuto nel tuo quartiere in un altro tempo. Mi aspettavo certe risposte, pensavo che avrei indovinato alcune cose. Sono rimasto deluso da me stesso e incantato dalla serenità di Maddalena, che come interlocutrice somiglia poco all’io nervoso e pensieroso della sua silloge. Quasi trentenne, dottoranda in letteratura alla Sorbona, Maddalena Bergamin ha esordito nel 2007 con Comunque la pioggia e ha continuato a stampare versi in rivista e online prima di essere inclusa nel dodicesimo quaderno. Abbiamo conversato tra Parigi e Santa Marinella durante lo scorso luglio, per mail, a proposito del passaggio tra la sua prima plaquette e la nuova silloge, di come si è poeti, di cosa e come si legge prima di scrivere, di numero genere e identità nella parola che informa Scoppieranno anche queste stagioni.


Alessandro Giammei: La tua silloge è quella che più di tutte nel Quaderno mi ha dato un’impressione di Novecento. Non perché manchi di temi e forme nuove, ma perché mi sembra di distinguervi con chiarezza dei personaggi. In particolare mi interessa il triangolo — ma ovviamente correggimi se leggo male — tra un io femminile, un tu femminile, e un terzo oggetto (a volte vagheggiato come possibile soggetto) femminile, che è la poesia. Non sono gli unici personaggi, ma sono quelli senza i quali (mi pare) la silloge non esisterebbe. Ti va di iniziare ragionando su questi personaggi, e magari anche sul noi clamorosamente neutro che compare nell’ultimo componimento (quello eponimo) dopo aver fatto appena capolino nel primo liminare (il primo in corsivo)? Sono io che riduco le tue sezioni a uno schema debenedettiano, in cui persino il simbolismo astratto è abitato da personaggi da cui si può partire, o è bene riscontrarla la traccia di queste persone — nessuna peraltro confondibile con il tertium-poesia come magari avrebbe voluto la tradizione maschile/petrarchesca? 

Maddalena Bergamin: La riflessione sui personaggi della mia poesia credo vada inserita nel ragionamento più ampio della funzione della parola, del suo ruolo ambiguo altalenante tra rivelazione e coercizione, topos direi classico del contemporaneo e già del Novecento. Ora io credo che, nell’ economia testuale della silloge, la parola, non solo la parola poetica ma anche la parola tout court, prenda appunto il posto di un vero e proprio personaggio, talvolta quasi di un maître che regge le fila dei rapporti tra il soggetto e gli altri eventuali personaggi. In questo senso, il linguaggio non è più soltanto terreno di scontro adolescenziale dove si svolge il dramma della non-corrispondenza tra cosa e parola (come poteva essere principalmente nella mia prima raccolta). Il linguaggio è ormai assunto come incarnazione della realtà, il linguaggio è l’unica realtà possibile ed è il linguaggio che determina la vita, ivi compresi i rapporti del soggetto con gli altri soggetti. Chiaramente, bisogna poi fare i conti con lo scarto che dal linguaggio resta fuori. L’uso del tu è variegato. Se possiamo effettivamente riconoscere un personaggio femminile pressoché univoco nell’ultima sezione, non si tratta dello stesso tu della prima parte della silloge. Vi è infatti un tu che scivola nell’io, vi è un tu materno, vi è un tu che rimanda a tu distinti e molteplici (mai, credo, un voi, ma sempre un insieme di tu). Lo stesso noi è rarissimamente (o forse mai) connotato come collettività, ma sempre come insieme misto di singoli io e di singoli tu. Potrei azzardare che la scelta delle indicazioni di prima persona plurale (declinata principalmente nel possessivo nostro/a) si giustifichi in virtù di quanto dicevo all’inizio e cioè della comune sudditanza alla lingua. Nell’ultimo testo vi è la compresenza di un noi neutro e di un tu, che davvero pare un “uno di due”, vista l’intimità della situazione descritta (tornerò per vedere che tremi / con dell’acqua da metterti in fronte). Il plurale neutro, che compare all’inizio e alla fine del testo, fa da cornice, da scrigno a questo tu. Ma di che tu si tratta? È lo stesso dell’ultima sezione, o è uno dei precedenti? O un altro ancora? E dunque, allo stesso modo, di che plurale si tratta? Nota che in questo testo torna anche il problema linguistico (il freddo è un argomento).

Hai ragione quando dici che nessuno dei personaggi è confondibile con il tertium-poesia, che rimane sempre a sé. Non potrei dire che la silloge non esisterebbe senza il tu femminile dell’ultima sezione, quello cioè più precisamente connotato come ‘persona’ (e che pure rappresenta in qualche modo il punto più alto di una climax), ma potrei confermare che anche tutti gli altri tu possono riconoscersi come femminili. Il destinatario della mia parola è insomma sempre femminile. Attenzione però, perché non di anatomia si tratta e nemmeno di genere, ma piuttosto di quel manque à être di cui parla Lacan.

Mi sembra che proprio il modo in cui poni la questione della parola/personaggio/maître impedisca di sbagliarsi su quest’ultimo punto. Prima di tornare alla questione del femminile — del genere cui si accordano le parole in Scoppieranno anche queste stagioni — vorrei però chiederti, in base a quanto mi hai appena rivelato, se c’è una forma di rassegnazione, di disincanto in questo tuo assumere (non in partenza, ma a seguito del conflitto di Comunque, la pioggia) che il linguaggio sia infine l’unica realtà possibile. Pusterla, nell’introduzione alla raccolta, sembra individuare dei dati di realtà come sfondo di un dialogo lirico, ma forse nel nostro discorso funziona meglio l’impressione di Frabotta, che in una recensione su «Nuovi Argomenti» parla di fiero e dignitoso manierismo post-pasoliniano (forse anche, paradossalmente, post-fortiniano) e di un «macroscopico dire» da attraversare in lungo e in largo in cerca di una soluzione tutta linguistica, di una «parola giusta». D’altronde è vero che la parola dentro cui sta l’io del passaggio di vetro è una parola che non solo si taglia sull’eventualmente simbolico e letterario vetro, ma che anche aggredisce materialmente gli ontologicamente realissimi mobili Ikea.

Più che rassegnazione, c’è certamente disincanto ed è un disincanto ironico e, talvolta, felice. In questo senso possiamo sì parlare, con Frabotta, di «fiero manierismo». Anche in Comunque, la pioggia il disincanto era già presente, ma credo che Pusterla abbia individuato benissimo lo scarto che si è prodotto nella nuova silloge, quando dice «senza conciliazione possibile, ma senza neppure la tragica bellezza della lotta: un’inerzia, un’usura che inghiotte». Il discorso dello sfondo credo possa funzionare nei termini di quello “scarto” fuori linguaggio cui accennavo. Le osservazioni di Frabotta sulla lingua e sulla parola sono molto pertinenti.

Se ti sembra utile (a me sì) a questo punto vorrei chiederti di parlarmi delle tue autorità. Pusterla ti assegna intertestualità tutte maschili salvo quella con Rosselli. Ho avuto anch’io l’impressione di riconoscere quel magistero (in generale, ma specie nei dolori piccoli) quando la sintassi si fa irrisolvibile ma restano forti i rigori non banalmente geometrici della struttura (anche inter-componimenti) e del ritmo. Mi sembra però che non ostenti mai particolari ascendenze, che tu non abbia ansie di affiliazione in Scoppieranno anche queste stagioni. Ti senti erede di qualcosa, allieva di qualcuno? 

Quando è stato fatto il censimento dei giovani poeti da Pordenonelegge (pur in sé, se si vuole, criticabile), con quell’intervista fatta ai poeti, qualcuno si è scandalizzato dicendo che la maggior parte di noi è ferma a Montale, Ungaretti, Sereni, Eliot, ecc. e che i poeti sarebbero quindi bloccati ad una conoscenza scolastica della poesia. Ora, la domanda che si poneva nel questionario era la seguente: “Quali sono i poeti della tradizione novecentesca che ritieni essenziali per la tua formazione poetica? Per quali motivi?” Io ho risposto, addirittura, Leopardi. Quello che voglio dire è che si dovrebbe riflettere sul significato della parola “formazione”, sulla quale legittimamene ognuno può avere la sua idea. Quindi, parlo per me. Intanto faccio un distinguo. In primo luogo, c’è una formazione in senso stretto, che ha certamente a che vedere con l’educazione scolastica. Più che con la scuola in sé, ha precisamente a che vedere con “gli anni della scuola”: parliamo quindi degli anni dell’infanzia e, soprattutto, dell’adolescenza. Ebbene, io credo che non vi sia periodo di maggiore assorbimento. Quello che voglio dire è che le letture di quegli anni, le scelte poetiche di quegli anni (che a quell’età si configurano semplicemente come scelte di gusto ma al contempo come scelte di vita, perché si ha da decidere, tormentosamente, chi si vuole essere, chi si è) hanno un peso psicologico ed emotivo che difficilmente si ritroverà nelle successive. Mi accorgo di usare l’impersonale, ma sto parlando di quello che è per me, può anche darsi che la criticità etimologica che ha contraddistinto la mia adolescenza sia un momento per altri posteriore o, chissà, persino anteriore. Dunque, alla medesima domanda,  risponderò sempre Leopardi (prima di tutti), Montale, Eliot, poco più tardi Rosselli e Magrelli.

La “seconda formazione” è, invece, quella successiva ed è, come si ama dire in francese, una “formazione continua”, che non avrà mai fine. È fatta, banalmente, di tutte le altre letture. Avviene però che il gusto e la scelta (la scelta di “essere”) non coincidano più come un tempo. Per limitarmi all’Italia, ho amato Anedda e Pusterla, Cavalli, Riviello (padre e figlia), alcuni coetanei, ho riscoperto qualcuno che avevo lasciato per strada (Marino Moretti ad esempio), ma l’elenco sarebbe interminabile e, credo, poco utile. C’è peraltro molta poesia che detesto. E qui rimaniamo nel dominio del “gusto”, che certo non è un gusto ingenuo, bensì rispondente a criteri intellettuali e tuttavia, pur sempre, gusto. Parlando di scelta, invece, laddove scelta significhi appunto, da una parte “richiamo, rivendicazione di magistero e di ascendenza, ansia di affiliazione”, dall’altra “essere come”, questo, come giustamente noti, non c’è. Poi, sicuramente, se si volesse andare a vedere con precisione qualcuno potrebbe smentirmi, ma allora si tratterebbe di qualche cosa di inconscio che va oltre le mie intenzioni. A dire il vero, ho orrore di essere un’epigona di chicchessia.

Lasciando fuori l’estremo dell’epigonalità e il problema dell’angoscia dell’influenza, in fondo tutti i nomi che hai fatto sono legati, nella loro originalità, a virtuose ascendenze senza esserne appendici imitative — Pusterla risponde a Sereni (e non altrettanto, per dire, a Sanguineti o a Pasolini), Anedda soprattutto, anche se ovviamente non solo, a poeti come Celan e Rosselli, e così via. A te, come individuo della tua generazione, sembra possibile e/o utile pensarti anche come risultato non neutro dei passaggi formativi di cui hai parlato, e dunque parte di una storia, espressione di alcune scelte (magari non rivendicative ma certo non prive di significato)?. E, orizzontalmente, ti sembra che qualcun altro (in Italia o all’estero) ti somigli nella ricerca poetica? 

Certamente la mia poesia è il risultato dei vari passaggi formativi di cui ti ho scritto. Non ho fatto riferimento all’estero, ma alcuni degli incontri più importanti sono stati quelli con la poesia di Dickinson e di Plath, poi di Ginsberg, Cvetaeva, Achmatova, Szymborska. Continuando a pensarci, devo ribadire che un debito significativo ce l’ho nei confronti di Patrizia Cavalli. Forse, a partire da questo breve e incompleto florilegio di nomi posso risponderti in qualche modo sulle scelte. Quello che mi interessa perseguire, su questo sì continuando sul solco di quanti e quante si sono mossi in questo senso, è un certo rapporto con la soggettività, non direi nemmeno con l’ io. L’ io in sé non è un vero problema, si tratta semplicemente di una scelta grammaticale.

Prima hai detto giustamente che c’è anche molta poesia che detesti. 

Il problema è appunto quando il pronome è sostenuto da tutto un apparato di nostalgie (talvolta pregresse) e di narcisismo che, a quel punto sì, fanno danno alla poesia. È questa, in sintesi, la poesia che detesto, per intenderci con un esempio potrei parlare della miriade di epigoni di Milo De Angelis. Altro elemento che vedo ricorrere e che mi turba è l’emergenza di scritture pseudo-erotiche soprattutto femminili (ma non solo), cui soggiace la presunzione che il particolarissimo dato biografico buttato lì a mo’ di exemplum (la marca dei jeans, il dettaglio scabroso, la toponomastica) possa avere un qualche interesse per il lettore. La linea in cui mi colloco (o vorrei collocarmi) è quella di una poesia in cui il Soggetto si dà completamente, senza sconti, e così facendo si scarnifica, si spoglia dei suoi apparati biografico-sentimentali, perché solo così, a mio parere, si rispetta il mezzo poetico e il lettore. Come si arrivi a ciò è una questione di stile e di registro, se vogliamo secondaria. Dove reperisco questo lavoro, lì vedo i miei simili, per esempio nel lavoro originalissimo di Silvia Salvagnini o in alcune poetesse russe che ho scoperto qualche anno fa grazie al volume curato da Annelisa Alleva.

Torniamo un momento al destinatario della tua parola. Vorrei che me ne parlassi sia da una posizione interna che da fuori la silloge. C’è un elemento programmatico nel mettere l’io sempre in relazione lirica con un’alterità femmina? Ti sembra che la chiave lacaniana che mi hai offerto all’inizio, in questo senso, sia utile per tracciare il profilo del poeta che ha scritto (è che è scritto) in questa raccolta — la donna con le gambe accavallate che sembra una poetessa? E come autore, ti poni il problema di immaginare chi ti legge, chi ti leggerà? Senza romantiche esaltazioni, c’è una comunità specifica che vorresti ti leggesse? 

Sul pubblico non ho che risposte confuse. Posso solo dirti che spesso mi capita di immaginare un pubblico umile, qualunque: donne dalla parrucchiera, bambini curiosi, colf, badanti, anziani. È una fantasia, comunque quando scrivo ho l’impressione di scrivere per tutti, non mi interessa far colpo sul pubblico degli altri poeti, questo no. Per quanto riguarda il rapporto io-alterità femminile (che potremmo anche declinare in “io-alterità femminile dell’io”) non c’è una vera e propria programmatica. Direi che si tratti di una necessità psicologica, esistenziale, poetica. Non potrebbe, insomma, essere altrimenti. La mia poesia ha origine dalla questione femminile e attorno alla questione del femminile si costruisce, come indagine, come rabbia, come dolore e come gioia. Si tratta dunque di un io femminile che interroga il suo femminile e il femminile altrui. Puoi sostituire a tutti i “femminile” sopra la parola “mancanza” e tutto funziona ugualmente. Ti faccio solo un appunto: la donna con le gambe accavallate non è quella che dice “io”, la poetessa, ma quella che sta tra il pubblico ad ascoltare. Però è interessante questo cortocircuito che hai prodotto.

Ora rileggendo capisco che la mia era proprio una lectio difficilior un po’ assurda: leggevo “ho recitato fingendoti seduta” come se “fingendo te” potesse essere una descrizione della recita (“ho recitato fingendo di essere te seduta, interpretando te seduta in mezzo al pubblico con le gambe accavallate”). Tu invece intendevi “ho recitato fingendo che tu fossi seduta in mezzo al pubblico con le gambe accavallate”. Mi piace moltissimo quel componimento in limine alla sezione eponima, ti va di parlarne un po’? Non riesco a non pensare che la quartina finale in sostanza racconti una lunga storia implicita (la storia, ovviamente, di una donna che a lungo ha cercato di sembrare una poetessa). È la poesia che più di tutte mi ha fatto pensare (tematicamente, non formalmente) al fatto che Scoppieranno viene dopo il tuo libro d’esordio e che la tua storia di autore non comincia col quaderno. 

Certamente dietro l’ultima quartina c’è una storia relativamente lunga di interrogazioni sull’essere o meno poeta. C’è anche una presa di distanza ironica dall’auto-definizione, come se in fondo essere o non essere poeta non contasse granché. C’è la riduzione del personaggio io a macchietta, mentre invece ha più importanza il tu, che si rende praticamente condizione necessaria alla scrittura: posso scrivere solo figurandomi la spettatrice.

Prima hai detto che la tua poesia ha origine dalla questione femminile, intendi (anche) nel senso storico-politico che la locuzione ‘questione femminile’ implica? 

Il senso storico-politico della “questione femminile” diciamo che sta certamente sullo sfondo. È da tempo che penso di scrivere qualcosa che abbia direttamente a che vedere con i diritti delle donne, ma poi non so se davvero ci arriverò, se saprò trovare un buon modo. Posso dire che rincorro da sempre l’obiettivo di riparare alle piccole e grandi ingiustizie che si subiscono ancora, purtroppo, nascendo femmina.


quaderno di poesia

Qui si possono leggere le altre puntate del ciclo dedicato ai poeti del Quaderno di poesia Marcos y Marcos:

Tommaso Di Dio, Il crollo e il canto – per il XII Quaderno di poesia

Immagine di copertina: Homme écrivant reflète dans un miroir @Francis Bacon