Nelo Risi, poeta e regista, è morto a Roma lo scorso 17 settembre. Lo ricordiamo con un racconto inedito di Roberto Amato (premio Viareggio-Répaci per la poesia nel 2003; il suo ultimo libro, Le città separate, è uscito per Elliot nel 2015).


Lui zoppicava leggermente, ma voleva accompagnarmi nel dedalo di strade intorno a Piazza di Spagna. Forse aveva paura che mi perdessi, o aveva voglia di camminare.

Diceva Edith: “è diventato così fragile… e se cade si incrina…”. Elegantissimo, levigato dagli anni e da quella sua rigorosa poesia che gli era cresciuta intorno come un abito permanente. Accanto a lui mi sentivo incorporeo. Lasciavo che mi attraversasse con la sua natura del tutto inafferrabile eppure nitidamente chiusa in quel profilo dagli occhi accigliati, dal naso breve, dagli zigomi alti e spessi come quelli di un pugile.
Era la prima volta che lo andavo a trovare nella sua casa in via del Babuino.
Ricordo molto bene il “luogo” dove lui scriveva. Uno studiolo interno, una stanza di mezzo con pochi libri e la macchina da scrivere su un tavolo scuro. Lì, quel pomeriggio di novembre, mi lesse alcune delle poesie ancora inedite di Né il giorno né l’ora.
Le poche volte che sono tornato a Roma sono sempre passato a salutarlo. Mi piaceva moltissimo ritrovare la casa che non sembrava quella di uno scrittore. Pochi libri. Poche cose ma belle, portate tutte dai viaggi. E Edith, questa donna che lui guardava con una delicata venerazione. Con un amore simile a quello rimasto segreto nelle sue poesie. Lei si sedeva nel centro di un divano bianco e rievocava, per noi, piccoli quadri della sua vita di ebrea ungherese sopravvissuta ad Auschwitz e a Dachau…

Risi lo scoprii da ragazzo. Mi capitò di leggere Di certe cose e rimase “il mio libro”. Mi pareva che raccogliesse in sé tutto quello che la poesia aveva il diritto e anche il dovere di dire. L’asciuttezza di un’ironia non ostentata, ma caparbia, modellava qualcosa di architettonico. Risi faceva in poesia quello che Burri aveva fatto in pittura. Definiva il rigore di un sentimento civile “assolutamente moderno”. Nessuna incertezza, nessuno sbandamento verso le incoerenze del postmoderno. Eppure sotto questo incrollabile rigore formale si sente sempre l’ondeggiare di un sentimento lirico, pudicissimo, che muove lo spazio e fa tremare l’orizzonte. Senza che nulla, però, si scomponga.
L’ultima volta che sono stato nella “stanza di mezzo”, lui preparava le bozze del grande Oscar Mondadori. Mi fece vedere il progetto di copertina. Avrebbe voluto mettere un acquerello di Sonia Delaunay, un dipinto rotondo dai colori purissimi. L’Editore preferì un bianco e nero di Capogrossi. Per il titolo Nelo aveva pensato a Polso Teso. Ma io gli dissi che non poteva non intitolarlo Di certe cose (… “che dette in versi suonano meglio che in prosa”, recitava nella Raccolta del ’70 il sottotitolo). E devo dire che lo convinsi perfino troppo facilmente. Disse subito sì.