Esattamente cinquant’anni fa usciva nelle sale I pugni in tasca, film shock di un Bellocchio ventiseienne, militante e iconoclasta, che, attraverso le vicende di un’inquietante famiglia, denunciava l’immobilismo di un’intera società e l’approssimarsi di venti di rivolta. Oggi Bellocchio resta  uno dei maggiori esponenti di un cinema italiano politico e intransigente, incapace di adeguarsi a un’industria che predilige un estetizzante disimpegno alla funzione sociale. Come un invasato superstite, Bellocchio procede ormai solo nella sua battaglia contro il potere, la Chiesa e i Mali dell’Italia, senza mai scivolare nel retorico o nel didascalico, ma conservando un linguaggio visionario, purissimo nel suo lessico.  Sangue del mio sangue non fa eccezioni,  trattandosi quasi di una summa dei temi bellocchiani. Torna quindi la critica alla Chiesa quale forza opprimente e oscurantista e tornano i morti, quelli che, secondo il regista piacentino, regnano da sempre sui vivi, costringendo la nostra nazione a un incantato sonno (vedi Bella addormentata). Torna infine il tema della famiglia, la cellula su cui si fonda l’italico paese, quel legame di sangue alla base di vincoli e obblighi. Ma il sangue è anche simbolo di immortalità, di vita indomabile, capace di rigenerarsi e di ereditare il germe della ribellione. Quella ribellione incarnata nel film da una donna, il cui corpo diventa campo di battaglia tra forze antiche e da sempre contrapposte: la mortificazione cattolica e il vitalismo della carne.

La trama del film si divide in due episodi rigidamente separati: il primo si svolge nel ‘600, il secondo ai giorni nostri. A unire idealmente le due parti il convento di Bobbio, terra natia del regista. Nella prima storia assistiamo al processo di una suora, accusata di aver intrattenuto rapporti amorosi con un prete dello stesso istituto, conducendo questi al suicidio. Giunge al convento Federico Mai, il fratello del defunto, deciso a riabilitare il parente agli occhi della Chiesa che vieta  la sepoltura in campo santo. Ma il caso della suora finisce per coinvolgere più del dovuto Federico, tanto da condurlo allo stesso “errore” del fratello. Il secondo episodio del film vede invece protagonista il conte Basta, segreto abitante dello stesso convento in cui si svolse il processo alla “strega”. A capo di un oscuro consorzio di uomini che regnano indisturbati sulla città, il conte  manifesta tutti i caratteri del vampiro, entità elusiva eppure potente,  spettro che accresce la sua forza proprio dal suo non-essere. Attorno a lui si agitano parassiti e uomini in cerca di facili fortune: un caravan serraglio di poveri diavoli che accettano passivamente il suo oscuro governo.

Come spesso accade nelle pellicole di Bellocchio, fiaba  e realtà si confondono in un unico piano narrativo. I personaggi hanno tutti nomi parlanti, dal conte Basta all’avvocato Quantunque, come già accaduto con  Ernesto Picciafuoco ne L’ora di religione o il medico Pallido e la tossica Rossa in Bella addormenta del 2012. Ѐ un cinema corale in cui tutti gli elementi concorrono  a scandire quasi un ritmo musicale più che un chiaro intreccio. Il regista piacentino conferisce al suo lavoro un andamento fluttuante, affidando spesso il senso di una scena alla splendida fotografia di Daniele Ciprì e alle marcate scelte musicali. Il messaggio  giunge allo spettatore per vie indirette, cifrate, più per evocazioni che attraverso un vero discorso. I dialoghi, anzi, sembrano quasi essere una mistificazione, un velo da squarciare per cogliere il reale senso dell’opera. Il film rappresenta un capitolo difficilmente inquadrabile nella cinematografia italiana degli ultimi anni. Da un lato abbiamo la vicenda della suora impura, soggetto quasi da romanzo d’appendice o da fiction televisiva; dall’altro un tragicomico vampiro “obsoleto”, alle prese con l’inarrestabile avvento della modernità, protagonista di un episodio che, per stilizzazione e allegoria, ricorda le atmosfere di Uccellacci e uccellini di Pier Paolo Pasolini. Il fatto poi che Bellocchio abbia scelto come scenario la sua Bobbio, luogo in cui ambientò il già citato I pugni in tasca, donano a quest’opera il valore di chiusa al termine di un’indagine durata mezzo secolo. Ed è forse questo il limite di Sangue del mio sangue. L’ostinato rincorrere una tesi, ha condotto Bellocchio a un impoverimento della forma, a tratti ripetitiva. A impreziosire il film, non basta il talento di Alba Rohrwacher o di Filippo Timi, limitati tra l’altro a piccole parti per lasciare spazio al seppur bravo figlio Pier Giorgio Bellocchio e all’immancabile Roberto Herlizka, nei panni rispettivamente di Federico Mai e del vampiro di Bobbio. Il film risente di una certa stanchezza narrativa e di un procedere a tratti inaspettatamente insicuro, quasi scolastico. Si avverte una frammentarietà di fondo, come se  il lavoro fosse più il risultato di un insieme di spunti raccolti nel tempo piuttosto che il frutto di un’urgenza: siamo di fronte all’esercizio di stile dell’ultimo dei cineasti militanti.

I personaggi del resto non sono che versioni aggiornate e rivedute di figure già viste nel cinema di Bellocchio. Federico Mai, furente per il destino riservato al fratello gemello, sembra essere ricalcato sul modello di Ernesto Picciafuoco, protagonista del film L’ora di religione (interpretato da uno straordinario Sergio Castellitto). Entrambi i personaggi si contrappongono con il loro vitalismo disordinato alle ipocrisie della religione, finendo con l’essere ingannati o quantomeno provare un senso di impotenza di fronte a forze più grandi e antiche di loro. Il conte Basta, invece, potrebbe essere l’alter-ego grottesco del misterioso principe Ferdinando Gravina della pellicola il regista di matrimoni , con l’aggiunta di una componente massonica che lo avvicina a un altro personaggio bellocchiano: il conte Bulla, con il suo anacronistico desiderio di un ritorno alla monarchia. Tutte figure, queste, che incarnano un’autorità-ombra, sotterranea, che governa da morta sui vivi. Sangue del mio sangue è in definitiva un’opera visionaria e coerente, ma priva di nuovi argomenti, limitandosi a riproporre elementi già noti. Come se Bellocchio avesse voluto misurare la distanza che lo separa dai suoi esordi e, in un confronto ideale con il suo io ventiseienne, mettere nuovamente alla prova la resistenza delle sue convinzioni.