Non avevo mai visto mai visto un film di Kechiche. Poi accade che in coda al cinema incontri lei, ed è un sacco di tempo che non la senti. Che vai a vederti di bello? La vie d’Adèle? Ah, è proprio un film di Kechiche, dice, mentre dal catalogo sceglie un film kazako che dicono non sia il solito film kazako e Alice smettila di annusarti le unghie, sanno di smalto. Mi stringo nelle spalle. Alice mi fissa, bipede da un paio di mesi; si annusa le dita, sospetta non siano le sue, infila la nocca dell’indice in una narice, lecca la punta, la pancia del dito giù fino al palmo; finché il dito intero le cade tutto in bocca e io mi tolgo la sciarpa che mi sembra di stare in un racconto di Ammaniti. Sua madre no, il catalogo dei film la assorbe. Alice mi fissa, tossisce, estrae il dito impregnato di saliva dall’esofago, lo annusa e sorride. Hai visto? non mi dice, altro che smalto, ora il dito ha di nuovo il mio odore.

In sala, dopo pochi minuti, ho capito che cos’è un film di Kechiche. Alice ha davvero fatto di tutto per comunicarmelo, come una campionessa di Tabù che ha esaurito i sinonimi e comincia a barare. La telecamera insiste da subito sul volto di Adèle (Adèle Exarchopoulos), dimentica – lei, e la camera con lei – delle regole della prossemica e della buona educazione. Fai in tempo a levarti la felpa, la risvolti, e la camera è ancora là; ti chiedi dove hai già visto una bocca che gronda di sugo, o chi hai sentito respirare in quel modo. La risposta è che sei tu, quando nessuno ti guarda, a tirare su col naso, a sporcare il cuscino con la saliva della notte. È un naturalismo – quello di Kechiche – che disegna al buio i suoni sgraziati del corpo, e che del corpo si riappropria alla luce del sole, perché al buio tutto è così santo e falso. In sala si sente l’odore di quello che vedi: il blu dei capelli di Emma (Léa Seydoux), la ragazza di cui Adèle si innamora, è un pretesto dei sensi: non sono gli occhi ma è la bocca di entrambe che gode di un protagonismo raro; quella bocca che parla, sbava, mangia, ride, bacia, lecca, tace. La vista, in un film di Kechiche la usi mezz’ora. Poi cominci a sudare, a massaggiarti la nuca. Il tempo è quello del racconto, il fotomontaggio di una vita – quella di Adèle ed Emma – fatta di apogei emotivi mai assoluti, nel bene e nel male. La fame costante di una finitezza che non c’è: eppure deve essere là, da qualche parte, celata nel modo in cui l’altro ci guarda, perché al pensiero che possa mancare per sempre non possiamo resistere. Kechiche la cerca invano nel sesso, faticoso, liberatorio; per un attimo la raggiunge ma ecco che di nuovo la finitezza sfugge di mano. Lo smacco all’ineluttabile, la predestinazione che si fa prosaica convenzione, il grande amore che si lascia decostruire dal tempo, l’attrazione sessuale che sola, schiava dell’istinto, resiste alle macerie.

È a questo proposito che prende parola Julie Maroh autrice – lesbica e femminista – di Blu è un colore caldo, la graphic novel da cui Kechiche ha tratto lo script per il suo film. La storia di Julie ha le sue debolezze e il carattere episodico del fumetto a puntate: indugia felicemente sui sentimenti e glissa sui fatti, evidenzia le ostilità, non approfondisce le conseguenze dolorose di cambiamenti repentini, e si affretta a concludere con l’uscita di scena violenta di Clémentine (l’Adèle del film, che Kechiche vuole così vera da non cambiarle né nome né fidanzato). L’adattamento cinematografico operato dal regista e da Ghalia Lacroix è vincente: via tutto ciò che non è sentimento, lo spazio per amici, parenti e per il tempo che passa è ridotto all’osso. Resta l’amore eterno, certo, ma la vita è un’altra cosa.

Sul suo blog, la fumettista francese chiarisce che il film è un punto di vista sulla sua storia e non il fedele adattamento del soggetto originale. Proprio come il regista, anche Julie non ha mai avuto un’intenzione militante, nonostante questo sia ancora difficile da comprendere quando la storia ha come protagonista una qualsivoglia minoranza. Sono invece le scene di sesso del film a infastidirla: «le ho trovate dimostrative, fredde; hanno un che di pornografico che mi ha messo in imbarazzo». La stessa sacralizzazione della donna, attraverso la definizione dell’orgasmo femminile come qualcosa di mistico e superiore che Kechiche mette in bocca ad uno degli amici di Emma, è giudicata da Julie banale e pericolosa.

Dopo la Palma d’Oro a Cannes, La vie d’Adèle è rimasto sotto i riflettori per una querelle tutta parigina che ha visto l’attrice Léa Seydoux accusare Abdellatif Kechiche di essere un regista-tiranno, stacanovista e sadico. Roba da disputa medievale sugli universali. Per amor di gossip qui trovate la lettera aperta a Rue89 con cui il regista si è difeso e un’orda di commenti pro e contro la sua causa. Di questo Alice non ha fatto trapelare nulla, fai uno sforzo bellezza, leggi i giornali. Io ho abbassato la testa, ho contato quante piastrelle mancavano alla signorina che strappava i biglietti e ho messo la mano in tasca per controllare il cellulare. Ci ho trovato la mano umidiccia di Alice, che appesa alla mia giacca giocava a tenere la testa in equilibrio sul collo. Perché alla fine, un film di Kechiche non è altro che questo: la testa tonda, grossa e sgraziata di un bambino che per tutta la vita dovrà stare in equilibrio su quel maledetto collo. Solo ripresa da così vicino che il respiro si fa tempesta, il contesto accidente, l’uomo – la donna –  l’unico paesaggio che vale la pena di essere esplorato.