Gastone Novelli, Senza titolo, 1961


Compare anzitutto come un nome. Un nome come un riferimento, tra i tantissimi che cadono incidentali, ma mai per caso, nella rete di discorso indiretto intessuta dal professor Austerlitz. A un certo punto del romanzo Austerlitz di W.G. Sebald, il personaggio principale si imbatte nella «frammentaria biografia di un certo Gastone Novelli». Il nome del pittore italiano – nato però a Vienna nel 1925 da madre austriaca e padre militare trasferito, e morto giovanissimo nel 1968 – diventa così una delle tappe che consentono a Sebald di svolgere e di scandire, attraverso la scrittura, i tracciati della memoria.

Austerlitz incontra il pittore indirettamente, tramite un libro sui giardini, che a sua volta è servito per una ricerca sulle fortificazioni; riesce però a inquadrarlo da un punto di vista particolare e – si vedrà – decisivo. Austerlitz dice infatti del periodo trascorso da Novelli in Brasile tra il 1948 e il 1950 quando, già un intellettuale ma non ancora un artista, fuggì in Sudamerica soffocato dall’ambiente culturale italiano. Lì, visse a stretto contatto con popolazioni indigene: «Egli ne assunse le abitudini e compilò, alla bell’e meglio, un dizionario della loro lingua fatta esclusivamente di vocali e, soprattutto, del suono A sottolineato e accentuato in infinite variazioni; una lingua […] della quale […] non è registrata una sola parola».

A riportare attenzione sul nome di quel «certo» Novelli sta contribuendo, in questi mesi, una raccolta che comprende tutti gli scritti dell’artista, recentemente pubblicata da Nero con la cura scrupolosa di Paola Bonani (G. Novelli, Scritti ’43-’68, Nero Editions, Roma 2019). Il volume mette per la prima volta a disposizione del lettore italiano tutto ciò che Novelli scrisse in vita: ciò che pubblicò su riviste d’avanguardia (come L’esperienza moderna o Grammatica), cataloghi e libri d’artista, ma anche inediti, bozze e dattiloscritti privati.

Il merito dell’operazione non sta soltanto nel rigore filologico (ogni testo è accompagnato da un cappello introduttivo che ne ricostruisce la storia), che riconosce finalmente a Novelli un vero e proprio corpus compatto di scritti, seppur eterogenei, ma soprattutto nello sforzo di risaltare, attraverso la collezione di testi, il rapporto esclusivo che un artista visivo ha intrattenuto, lungo tutto il suo itinerario creativo, con la scrittura. Leggendo il libro d’un fiato si ha infatti l’impressione che la scrittura sia stata per Novelli uno strumento indispensabile per calibrare qualsiasi attività, tra cui spicca – ma non è l’unica – quella pittorica; ovvero una pratica di verbalizzazione come naturale prolungamento del pensiero e dunque dell’azione, non come una marca per imprimere a posteriori etichette alle proprie opere. Le opere, apprendiamo, nascono insieme alla scrittura, e non è un caso né che Novelli se ne sia servito ben prima di cominciare a dipingere, e nemmeno che le prime, di converso, ambiscano a trasformarsi, nella fase matura del pittore, da quadri, proprio in scritture.

Si chiarisce, per esempio, che gli esordi di Novelli nell’ambito della pittura concreta sono fin da subito sganciati dalle premesse razionalistiche e geometrizzanti dell’ortodossia concretista; negli anni Cinquanta, egli crede ancora all’astrazione, pur rifuggendo ogni formalismo. Pone anzi dapprincipio l’accento sulla componente linguistica di ogni raffigurazione, e manifesta un interesse spiccato per l’incidenza della parola nella concezione dell’immagine astratta. Ricerca, dipingendo, un nuovo tipo di immagine non figurativa, con una approccio che chiama «nuovo oggettivismo» (p. 75) appunto perché impegnato a «eliminare l’abitudine di immaginare le parole [tanto quanto le immagini, aggiungiamo] come ricordo plastico abitudinario» (p. 68); qualsiasi segno raffigurato deve essere spogliato di ogni senso e forma precostituiti. Solo essendo pienamente autonomo un quadro può arrivare, paradossalmente, a significare.

Novelli nasce come un pittore astratto, ma non si accontenta di linea piano colore quando rimangono fermi, ancorati alla propria forma-funzione; è significativo in questo senso che sia ricorso, e a più riprese, a una metafora organicistica di Paul Klee, secondo cui l’artista «è come un albero che ha delle radici che assorbono certi nutrimenti dalla terra e poi produce certi frutti» (p. 70). Ancor più significativo il fatto che poi contesti a Giulio Carlo Argan (nell’ambito del dibattito acceso suscitato dal Convegno di Verucchio, nel 1963) l’utilizzo del lemma «ghestaltica [sic]» (p. 145) per parlare dell’arte d’avanguardia, deformando e stravolgendo il senso dell’originale tedesco Gestaltung, di cui l’artista coglie invece tutta la valenza morfologica. Ogni opera d’arte è precisamente una Gestaltung: non forma o figura ma, alla lettera, formazione, cioè un processo perennemente in divenire, di cui le immagini sono il corpo vivente: «Possa la pittura, eppur pensosa, calcolata e pura, rimanere dipinta e sentita!» (p. 77).

Proprio la consapevolezza di sé e dell’autonomia sia rispetto all’arte concreta, sia verso i percorsi dell’informale, consentono a Novelli una maturazione piena. L’impostazione del libro lo rimarca a dovere, perché si avverte che gli scritti, in un torno di tempo breve ma ben preciso (a partire dal 1964, anno di fondazione della rivista Grammatica con Achille Perilli, Alfredo Giuliani e Giorgio Manganelli), subiscono una curvatura e si fanno particolarmente densi, coincidendo con il momento apicale della produzione di Novelli.

Anche attraverso i suggerimenti della parola, egli prende atto della debolezza dell’immagine, e cerca dunque nuovi strumenti per dipingere. Capisce che il pittore, per creare effettivamente, deve attingere a un livello che precede ciò che si dice, ciò che si scrive e ciò che si vede. Perché un quadro sia effettivo – Novelli lo ribadisce più volte – deve essere un «universo», che abbia un senso di per sé, senza dipendere da ulteriori configurazioni semantiche. Ecco allora che ci si trova a dipingere non con le forme, non con le parole, ma al massimo con i grafemi di un alfabeto; in sostanza, con i segni: «I segni sono concreti quanto le immagini (le lettere quanto le parole), ma hanno un loro potere referenziale per cui, anche essendo essenzialmente relativi soltanto a se stessi, possono fare le veci di qualche cosa d’altro. Per questo motivo mi interessa procedere dai segni e dalle lettere, e non dalle immagini o dalle parole» (p. 152).

Questo programma sostiene perciò i grandi quadri di Novelli degli anni Sessanta, le cui tele non sono più pure superfici da ricoprire di forme, ma pagine squadernate in cui coabitano tutti i tipi di segno, in una felice confusione tra iconico e linguistico. Il quadro è il luogo dove immagine e parola possono perdere referenzialità e diventare, letteralmente, quelle tracce quasi graffite di cui Rosalind Krauss ha rimarcato una volta per tutte la natura indessicale, il potere di presentificazione (cfr. R. Krauss, L’inconscio ottico, Bruno Mondadori, Milano 2008). Lo stesso Novelli afferma che continuerà sempre «a scrivere delle parole, a fare macchie e a graffiarle con le unghie, fino a quando le unghie si romperanno del tutto e rifiuteranno di ricrescere» (p. 123). La pittura diventa infine lingua non ancora scritta e sempre da scrivere, come quella che andava elaborando in quegli stessi anni Manganelli con Hilarotragoedia (licenziato nello stesso 1964, e che sarà non a caso illustrato successivamente da Novelli stesso) rovistando tra le macerie del romanzo e costruendo, dice il pittore a Enrico Crispolti, «una lingua perfettamente necessaria e nuova» (p. 171).

Il libro si conclude con le testimonianze delle tormentate vicende relative alla XXXIV Biennale di Venezia del 1968, una delle prime grandi occasioni in cui gli artisti d’avanguardia italiani dovettero confrontarsi non solo con il clima della contestazione, ma più in generale con il significato politico delle loro azioni. Novelli decise all’inizio di non protestare, per non allinearsi e non compromettersi con le pose dell’ambiente culturale italiano, borghese per definizione secondo il pittore. Cambia idea però a seguito dell’intervento delle forze dell’ordine sui manifestanti e – non potendo la sua natura essenzialmente anarchica sopportare alcun grado di coercizione militare, anche nel rispetto dell’antifascismo per cui partecipò attivamente alla Resistenza e del confronto con il marxismo che lo ha accompagnato per tutta la vita – rivolta significativamente i suoi quadri contro il muro. Non li rimuove dall’esposizione, ma ne impedisce la fruizione mostrandone il rovescio, con una scelta che «è politica poiché è il rifiuto del preesistente» (p. 275).

È tuttavia nel solco di questa cerniera tra arte e politica che si trovano le maggiori soprese del libro in questione. Un grande pregio della curatela sta infatti nell’avere incluso, in apertura al volume, gli scritti di Novelli antecedenti alla carriera artistica, che dimostrano invece la sua militanza politica e quanto la scrittura sia stata, anche in questo caso, determinante. Negli anni Quaranta subisce due incarcerazioni, e scrivere è per Novelli il mezzo più congeniale per vivere l’esperienza della prigionia e per riflettere sulle sue implicazioni. In queste occasioni, leggiamo descrizioni e analisi di come il corpo proprio cambia se imprigionato: «Ero curioso di sapere cosa sarebbe successo dopo la morte del mio corpo, cominciai a credere nella reincarnazione. Attendevo la fine con impazienza, come si può attendere l’alzarsi del sipario dal palco di un teatro. Non è un visione di terrore la morte, quando ogni speranza è persa, tutti i morti lo sanno. Credo che sia meglio morire di veder morire, il nostro corpo è meno caro a noi stessi di quanto si crede. Lo amiamo solo fino a quando speriamo di poterlo conservare poi lo abbandoniamo facilmente cercando qualche cosa di nuovo, così come si fa con un oggetto irrimediabilmente rotto» (p. 11).

La precocità non impedisce l’articolarsi di uno stile già eccezionalmente maturo, che consente alla scrittura di piegarsi alle eventualità della violenza e della rivolta, e che ricorda, per analogia, il modo con cui Nanni Balestrini avrebbe ricostruito sulla pagina, parecchi decenni più tardi, le agitazioni e il tumulto delle insurrezioni carcerarie negli Anni di Piombo, in libere lasse di prosa poetica sciolte dall’obbligo dell’interpunzione: «c’era insomma una situazione di progressivo allargamento degli spazi all’interno del carcere c’era una situazione di lotta continua che andava a incidere sulla struttura del controllo perché il carcere è questo è una struttura che elabora al massimo il controllo sul corpo» (N. Balestrini, Gli invisibili, Bompiani, Milano 1987).

Nero Editions ha quindi compiuto un atto encomiabile, perché pubblicando questo libro si è assunta il compito di ricostruire, attraverso la scrittura, tutti gli aspetti della poetica di Gastone Novelli, restituendola al lettore. Per usare ancora una volta le sue parole: salvandola; come cercò sempre, egli stesso, di fare: «Come potete, voi che torturate le cose, giudicare me che le salvo?» (p. 82).


 

cache_2479835074Gastone Novelli, Scritti ’43-’68, Nero Editions, Roma 2019, pp. 305 € 25