Al risveglio splende il sole su Mantova; questo vuol dire che si preannuncia una giornata di afa e zanzare (in pieno stile Bassa Padana). Il programma di incontri previsto per oggi è tutto dedicato alla letteratura, osservata secondo le diverse prospettive di chi la fa e di chi la studia e la interpreta.

Il primo appuntamento è un ritorno dietro i banchi dell’università: il professor Umberto Curi (professore di storia della filosofia, emerito all’Università di Padova) propone una lettura rapida ma molto significativa di un passo tratto dalla Nascita della tragedia (1872) di Friederich Nietzsche. Si tratta del racconto dell’incontro tra il re Mida, emblema della ricchezza, della potenza, ma anche della sete di conoscenza, e il Sileno, modello del pedagogo, depositario di ogni conoscenza. La domanda al centro dell’incontro è: «cos’è la cosa più desiderabile per l’uomo?». Mida si inserisce nella schiera delle grandi figure della tradizione occidentale che hanno sfidato la sorte e il destino per il proprio desiderio di sapere: gli fanno compagnia eroi tragici come Ulisse, Narciso ed Edipo. Essi sono i rappresentanti di quella componente umana che spinge a forzare i confini per raggiungere nuove terre, per scoprire regioni inesplorate. La risposta del Sileno infatti non fa che ricordare l’importanza del senso del limite: meglio sarebbe per l’uomo non conoscere ciò che è più desiderabile, perché meglio per l’uomo sarebbe non esser mai nato, e quindi in definitiva morire. È questo un ammonimento che trova le proprie radici nella cultura popolare, ma che ha riscontri anche nella tradizione giudaico-cristiana: per lo meno prima che faccia la propria comparsa la figura di Cristo, portatore di salvezza e in grado di redimere l’uomo dal destino di sofferenza e fatica. Con la sua venuta, al destino di morte si sostituisce per l’uomo una prospettiva di vita redenta.

Umberto Curi

Certo questo non è il modo più semplice per incominciare una giornata di festival; tuttavia il professor Curi, attraverso una parlata pacata e attenta a scandire tutti i passaggi del discorso, riesce a rivelare al pubblico (a dire il vero molto preparato) come l’eterno confronto tra la parola filosofica, che cerca di rendere ragione della condizione umana, e la parola della fede, che interviene nel momento in cui la razionalità fa difetto, sia radicata fin nelle origini del pensiero occidentale, e arrivi sostanzialmente immutata ai giorni nostri.

Fatto il pieno di erudizione La Balena Bianca può rinunciare a cuor leggero all’affollatissima intervista collettiva a Stephen Greenblatt, coltissimo critico americano; per il momento è meglio prendere in direzione Aula Magna dell’Università per sentire finalmente la parola di una narratrice. E che narratrice: Aimee Bender!

 La recente nuova edizione del suo The Girl in the Flammable Skirt (già uscito presso Einaudi nel 1998, con il titolo Grida il mio nome) tradotto da Martina Testa con il titolo La ragazza con la gonna in fiamme è l’occasione per parlare con la giovane scrittrice americana della sua scrittura e dei suoi bizzarri personaggi. Come sempre quando a tenere le redini della situazione è l’équipe di Minimum fax i risultati si vedono, eccome: la fila all’ingresso della sala annuncia una piccola folla di lettori appassionati pronti a pendere dalle labbra dell’autrice. E ne hanno ben donde, vien da dire. La Bender, come tanti narratori suoi compatrioti, mostra una grande capacità di coinvolgimento: sollecitata dalle domande a un tempo provocatorie e dolci di un’emozionatissima Chiara Valerio, la scrittrice mette al centro la propria esperienza autobiografica e la pone al livello del lettore comune, mostra la propria intimità, eccentrica come tutte. È dalla sua esperienza infantile infatti che nasce la passione per le storie, e per quelle brevi in particolare: la forma racconto (definito dalla Valerio «cartone preparatorio» per una scrittura più matura) diventa la naturale dimensione in cui esprimere un’immaginazione che attinge ai campi della favola e del surreale. La lezione del Calvino «cosmicomico» e di Flannery O’Connor sembra aver dato i suoi frutti: la narrazione breve (quanto celebrata oggi nella produzione di casa nostra – e basterebbe leggere l’introduzione di Cortellessa al volume Narratori degli anni zero) mette in mostra il movimento rapido delle azioni, disegna chiaramente la catena che lega cause ed effetti, ma conserva anche la potenza di un modello universale, arrivando quasi alla potenza di un mito moderno.

Ancora una volta dagli Stati Uniti ci arriva una lezione sull’importanza della narrazione come spazio di rappresentazione di un’azione, che trova negli elementi costitutivi e nei personaggi (ripresi anche di racconto in racconto), più che nelle formule espressive, la propria vera ragion d’essere.

Aimee bender, a sin.

Il ritmo con sui si susseguono gli incontri e le interviste è vertiginoso: abbiamo ancora nelle orecchie la squillante voce di Chiara Valerio che interroga una placida Aimee Bender quando entriamo nel cortile del Palazzo San Sebastiano per assistere al confronto tra Laura Boella e David Lodge, professore inglese di teoria delle letteratura e aspirante esperto scienze cognitive. Il tema, appunto, è quello della possibile complementarietà tra scienza e letteratura. Quest’ultima, secondo le teorie che Lodge mette abilmente in azione nelle proprie narrazioni (romanzi e pièces teatrali), sarebbe portatrice di una facoltà che alla scienza è preclusa: l’accesso alla coscienza dell’uomo. È proprio questo, infatti, lo scoglio contro cui si incagliano tutte le spedizioni scientifiche che mirino a conoscere e, perché no, a riprodurre il funzionamento del cervello umano. È una questione che coinvolge non solo la scienza, ma anche la filosofia, la morale, la religione. Il dialogo tra Lodge e Boella, tuttavia, complice anche un’incomunicabilità che costringe alla farraginosa mediazione del traduttore, ristagna: i due preferiscono affidarsi a monologhi distinti che finiscono con il mescolare eccessivamente le carte di un discorso che, soprattutto per un pubblico non necessariamente aggiornato, avrebbe bisogno di essere esplicitato in tutti i suoi elementi.

David Lodge

Una pausa di ristoro è quello che serve prima di affrontare l’ultimo e apparentemente più spigliato incontro della giornata: l’intervista a Michela Murgia da parte del gruppo Blurandevù. E invece l’ultimo appuntamento è quello che riserva le sorprese più gradite. I giovani volontari incaricati di condurre l’intera intervista mettono in scena un vero e proprio spettacolo, composto da musica, filmati, letture e immagini, oltre che dalle canoniche domande. Il pubblico e soprattutto la scrittrice sarda sono subito coinvolti: e questo è un bene, perché le risposte si fanno aperte e ponderate fin dall’inizio. Il momento più significativo arriva al momento di discutere del ruolo (ma anche dell’esistenza) della figura dell’intellettuale in Italia. Michela Murgia è lucida e sincera, non lascia spazio a fraintendimenti quando parla. Prima lusinga il festival e poi mette in guardia dai facili entusiasmi: oggi, infatti, i grandi appuntamenti della letteratura, come Mantova, Pordenone, Cuneo e Gavoi, rappresentano i nuovi «luoghi comuni», spazi d’incontro e di relazione, dove discutere superando i limiti abitualmente imposti al dialogo della stanca quotidianità. Tuttavia sono spazi già istituzionalizzati, dove è concesso che lo scrittore parli e «faccia» l’intellettuale, arringhi alla sua folla consenziente. Quel che importa è che la sua parola non raggiunga chi rimane fuori da quel cerchio.

Il compito degli scrittori (e sembra di sentire risuonare alcuni passi del libro Presente, di cui già avevamo parlato qui) è quello di tornare a «essere» intellettuali, e non soltanto a interpretarli sporadicamente. E perché questo avvenga è necessario che si creino spazi liberi di discorso, dove si creino nuove relazioni e nuove posizioni. Tutti i presenti applaudono e comprendono. L’avvertimento della Murgia lascia l’amaro in bocca, ma non chiude la porta a una fiducia che proprio da questi luoghi, oggi ancora marginalizzati, ma domani, chissà, liberi da regole, parta una riscossa intellettuale.

Michela Murgia con i ragazzi di Blurandevù

Mantova ti può far ricordare che la scrittura è il gesto quasi infantile di una donna che ha il dono di scrivere favole surreali in cui tutti si riconoscono (Aimee Bender). Ma ti riporta anche alla realtà delle cose, quella della crisi del lavoro, degli scioperi e delle occupazioni. Ricordandoti che la letteratura, anche in quei luoghi, può affermare la propria parola.

Stasera andiamo a letto stanchi, ma soddisfatti.

Achab