Come nei classici romanzi di formazione all’esuberanza giovanile si contrappone l’avveduta saggezza degli adulti, così, anche qui a Mantova, dopo i vagabondaggi, gli abbandoni e le fantasticherie di ieri è bene affidarsi alle parole di chi ormai da tempo è assurto al rango di «maestro» della nostra cultura. Gli impegni saranno pochi, ma intensi, densi, al limite della noia, va detto. Ma il discorso sull’uomo e sulla sua civiltà non può sempre far ricorso all’umorismo, alla messa in scena, alla semplificazione divulgativa. Ci sono momenti in cui si deve tornare a interrogare i «grandi vecchi» per chiedere loro un insegnamento, un ammonimento, un conforto autorevole: un’eredità.

Zygmunt Bauman e Cesare Segre con Daniele Giglioli: Dove va la cultura europea?

In tempi di crisi come questi sembra che si possa parlare di Europa solo in termini di spread, di BCE, di unione monetaria, politica quando va bene. E invece un festival internazionale come questo ha il compito di ricordare che un ideale comunitario europeo trova le proprie radici, prima ancora che nell’economia e nella politica, nel campo delle idee, del pensiero filosofico e letterario. L’Europa come comunità è prima di tutto un fattore culturale. E quali migliori interpreti di Zygmunt Bauman e Cesare Segre, intellettuali di rango internazionale, per affrontare un tema simile? Loro possono provare a rispondere alla domanda che suggerisce il titolo alla conversazione (moderata dal brillante Daniele Giglioli): dove va la cultura europea?

Bauman, la cui veneranda età (87 anni!!) non ha intaccato la lucidità della favella, non ha dubbi: non si può pensare a una cultura unitaria e autonoma, distinta; bisogna invece accettare la molteplicità e la varietà culturali dell’Europa come valore aggiunto, potenzialità da rendere feconde. È inoltre più interessante concentrarsi su un passaggio precedente del ragionamento e intendersi sul significato che ha assunto oggi la parola «cultura». Ed è il più giovane Segre (solo 84 anni…) a ricordare come questa nozione subisca delle variazioni significative non solo nello spazio, ma soprattutto nel tempo: il significato della parola è in continua evoluzione. All’idea di matrice illuminista a cui si rifacevano gli intellettuali che, nel secondo dopoguerra, erano chiamati a ricostruire la civiltà occidentale dopo le devastazioni delle dittature e del conflitto bellico, si sostituisce oggi un concetto – manco a dirlo, alla presenza di Bauman! – più liquido, in cui rientrano le arti, le discipline umanistiche, le conoscenze scientifiche, ma anche l’attualità, il discorso politico, come manifestano quelle paradigmatiche summae che sono gli inserti di cultura dei nostri quotidiani. Dal punto di vista sociologico, prediletto dal pensatore polacco, si è passati da una civiltà dei produttori, in cui l’identità si determina in base a ciò che si fa e si produce, a una civiltà dei consumi e dei consumatori. Lo stesso passaggio si è avvertito nel campo della cultura, dove anche gli intellettuali sono «entrati nel mercato» per promuovere la propria merce. La cultura da elemento di distinzione sociale (ce lo diceva Pierre Bourdieu nel 1980) si è fatta «onnivora»: mescola alto e basso in un medesimo ideale e mira a lasciare insoddisfatti i propri «fruitori», per far nascere nuove esigenze, come una qualsiasi merce.

La prospettiva è inquietante, il paesaggio desolato. Ma la parola di Bauman e Segre non è quella di chi vuole smuovere le folle con una facile arringa, piuttosto di chi sa che per convincere bisogna guidare l’ascoltatore tra i passaggi di un ragionamento pacato ma ferreo. È il discorso di chi vuole mostrare che quello che abbiamo davanti agli occhi quotidianamente è un mondo retto da una logica stretta e sovradeterminata, che lascia tuttavia l’illusione della libertà. C’è inoltre da segnalare una differenza tra i due intellettuali: alla sicurezza di Bauman, amareggiata ma stringente, si contrappone la malinconica rassegnazione di Segre, che si accorge, di fronte all’evolversi vorticoso della realtà, che gli strumenti in proprio possesso non servono più a fornire le risposte necessarie, a suggerire i futuri orientamenti.

Sembra un canto del cigno.

A questo punto servirebbe qualcosa per distrarsi, o anche solo per tirare il fiato dopo un incontro che, per quanto breve, ha lasciato strascichi interiori non da poco. Ci si potrebbe allora concentrare sui «tic» da festival a cui non si è ancora accennato (visto che ormai si è «scollinato» e bisogna iniziare a tirare le fila, trarre conclusioni). Come le inestricabili resse scatenate dalla feticistica corsa all’autografo. È la manifestazione del desiderio di una traccia che sancisca materialmente la propria partecipazione all’incontro, e anche la momentanea assimilazione dei suoi contenuti. Che tuttavia potrebbero essere destinati a una breve memoria. Oppure l’ingenuo stupore continuamente rinnovato nel vedere che gli scrittori (non tutti però) si comportano normalmente, senza allure da divi (Giorgio Vasta e Maurizio Maggiani che mangiano in mensa con i volontari, per esempio…). O ancora si potrebbe dire degli applausi telecomandati che scattano ad ogni battuta facile e divertente di un autore (magari provocato da una domanda «pelosamente» maliziosa dell’intervistatore), ma anche della caccia al «personaggio», praticata sempre a mezza voce, per non farsi scoprire.

Raffaele La Capria con Silvio Perrella – * ovvero «le pretese del vecchio scrittore»

Arriva così l’ora del secondo e ultimo incontro giornaliero, nel quale dopo i discorsi dei «critici» (del testo o della società) – per rispetto al principio di alternanza osservato in questi giorni – si dà la parola a un narratore, Raffaele La Capria (intervistato da Silvio Perrella, abile «spalla»). Il rigore e la serietà che hanno caratterizzato l’incontro di questa mattina devono lasciare lo spazio a una fantastica joie de vivre del napoletanissimo (checché ne dica lui) La Capria, arzillo novantenne.

Il dialogo è informale e consente all’autore di liberare la sua vena più autentica, quella conversevole e incantata. Egli rievoca la sua esperienza e passione di tuffatore e ne individua delle assonanze con la scrittura romanzesca. La sprezzatura, ad esempio – per dirla con Baldesar Castiglione (ma La Capria lo definisce «stile dell’anatra») -, arte di non mostrare lo sforzo necessario alla realizzazione dell’impresa, fisica o intellettuale che sia; ma anche quel salto iniziale che serve a dare un tono, un valore alla performance. È l’intera parabola del tuffo a richiamare alla mente la struttura di un romanzo: per entrambi è necessario trovare la giusta calibratura tra incipit (slancio), svolgimento (le «capriole») e conclusione (ingresso in acqua). Legando l’arte della scrittura alla propria giovanile esperienza sportiva La Capria si sintonizza su una dimensione emotiva a tratti infantile; lo spirito divagante e affabulatorio non teme di cadere nella banalità e nel luogo comune. Anche, paradossalmente, quando pretenderebbe di smarcarsene. Con il passare dei minuti il discorso si sposta sulla città di Napoli, sull’immagine che lo scrittore ne ha conservato e che tenta di rinverdire, alla stregua di un paradiso perduto. La nostalgia dovrebbe essere un’arma da combattimento, e invece si fa matrice di un anacronismo che condanna lo scrittore. La Capria propone un repertorio di stereotipi che vorrebbero riscattare la memoria napoletana dallo sfregio che la civiltà televisiva (ma forse bisognerebbe avvertirlo che anche quella è stata superata…) ha operato negli ultimi decenni. L’esuberanza festosa, l’euforia approssimativa lasciano così il posto al lamento dello scrittore che rivendica un’originalità mai riconosciuta; sfiora il patetico nel pretendere attenzione per tutti i libri scritti e mai valorizzati, e associa pretestuosamente alla propria personale battaglia quella per il riscatto dell’immagine della propria città.

Raffaele La Capria

La delusione, ieri invocata a mezza voce, oggi è arrivata. Raffaele La Capria si dimostra perfetto emblema di un maestro mancato, incapace di assumere la responsabilità del fallimento perché troppo convinto che la buona fede basti a fare un buono scrittore. Non è di questi maestri minori che la nostra contemporaneità ha bisogno, soprattutto in Italia; non loro possono essere invocati come punti di riferimento (e forse è anche giusto che superati gli ottant’anni si lasci agli uomini il necessario riposo). Servono nuovi intellettuali, quelli nostalgicamente ricordati da Segre e Bauman, quelli che si assumevano l’onere e l’onore di essere maître à penser, espressione emblematicamente desueta ma significativa quant’altre mai.

La giornata è conclusa, almeno per La Balena Bianca. Anche se il programma potrebbe riservare sorprese (a tarda sera arriverà Ascanio Celestini), le domande e i problemi che il festival oggi ha portato all’attenzione necessitano una pausa. Sarà bene rifletterci attentamente (e andare a letto presto).

Un’altra buonanotte.

Achab