Pubblicato per Exòrma nel 2022, Ridondànze è l’ultimo libro di Paolo Morelli, una raccolta di scritti che si colloca nel solco tra il divertisment letterario e lo studio etnografico. Circa una decina di racconti di genere difficilmente incasellabile compone l’opera dell’autore romano, aperta da una dichiarazione poetica in forma di Excusatio, che, sin da principio, prepara il lettore al particolare esercizio socio-letterario con il quale avrà a che fare.

Come anticipa lo scritto preliminare, tutto il materiale narrativo che compone l’opera è attinto dal cuore della città capitolina, quartiere Testaccio, e si organizza in quella che si può ironicamente definire una letteratura rionale, imprescindibilmente legata al luogo dal quale si origina. Del rione i racconti riportano icone ed emblemi, la cui interpretazione è orientata nel senso di una ricostruzione mitica a partire dalle origini – quasi di una cosmogonia, grazie alle brevi sezioni che precedono alcuni dei racconti e che fanno esplicito riferimento alla genesi e all’evoluzione di quel microcosmo che è Testaccio. Già l’incipit si contraddistingue per il tono mitico che umoristicamente assume e che gli conferisce i caratteri della letteratura oralmente tramandata. Ne deriva una narratività leggera e scanzonata che, con piglio sardonico, riusa la ricostruzione leggendaria per incorniciare la rappresentazione dei suoi personaggi e del loro carattere. Così, il racconto delle origini primitive del rione, grottesche ed esilaranti, anticipa i riferimenti al mito classico, greco e romano, e all’età della Roma imperiale del primo racconto, addensando l’atmosfera di immutabilità che aleggia sui personaggi.

L’indefinitezza temporale è il segno nel quale si inscrive ogni sezione del complesso narrativo, effetto ottenuto innanzitutto grazie a uno stile che mima il corso di un pensiero linguistico nel suo farsi. Illuminato da questa luce, il rione romano si colloca in una posizione privilegiata, che lo protegge, lo isola e ne determina peculiarità e omogeneità interne. A tratti, l’opera sembra quasi tessere un’ode della lentezza, di una flemmaticità originaria e quasi ferina. Con il fuoco così calibrato, il gioco letterario e più che mai linguistico si concretizza nel tentativo di immortalare una particolare postura, tipicamente romana e rionale, furiosa e intensa quanto fragile e volatile, e perciò infantile, che è anche un gusto per il racconto in quanto tale, per la chiacchiera e per l’estro fantasioso. Allo stesso tempo, l’opera assume una sua evidente profondità nel proporsi lo scopo di sondare le scaturigini di questa postura, nel tentativo di illuminare i «nodi inesplicabili» (p. 8), le contraddizioni e le ragioni dell’agire umano (e romano). Il risultato più lampante di questo scavo è la scoperta della «ridondanza», della coazione a ripetere e della ricorsività del reale. Tuttavia, non è l’esito di questa ricerca che l’autore vuole rappresentare all’interno dello spazio narrativo, quanto piuttosto il corso della stessa, mentre le evidenze emergono alla superficie senza bisogno di ulteriori esplicitazioni. Per dare la misura del suo studio, Morelli costruisce intelaiature di storie plurime, oppure dà spazio a vicende ondivaghe, a strampalate riflessioni, a rappresentazioni di sviste, di destini che si scrivono per caso, ironici e crudeli, e che aspettano personaggi quasi ridicoli, bozzetti e macchiette tutti della medesima estrazione, ai quali narratore e narratario si accostano in una comunione esistenziale che non esclude nessun elemento interno alla diegesi.

In questo senso assume un valore fortemente paradigmatico il primo racconto, che si apre nel segno della fatalità, incarnata dai più emblematici rappresentanti del quartiere. Appaiono sulla scena i tre uomini protagonisti, reduci da un incidente che pur nella brutalità delle ferite li ha lasciati immortali rappresentanti di una certa sfortuna, dolorosa eppure impotente, e di una vitalità che si vuole mostrare come principale vessillo del carattere rionale. Subito l’ironia colpisce duramente i protagonisti, togliendo la parola al narratore, tale «Volume», e al personaggio che appare con evidenza come la voce designata del mito, «il poeta Pocaluce». L’attitudine che i personaggi mettono in mostra e che si vuole delineare è ben definita dall’autore nei termini di «un letargo della stravaganza, ci si spaparacchia e si lascia il giorno venire avanti in silenzio» (p. 15). È proprio secondo questa postura che l’autore si accinge all’attività letteraria, lasciando che siano i pensieri a fare il loro corso e a dare forma allo studio che ne deriva, mentre le narrazioni si susseguono e si incastrano, assecondando il caso.

Così, nel prestarsi all’incanto della parola, la letteratura assume l’aspetto di un trastullo, di un gioco intellettuale con il quale intrattenersi e dare vita ad affreschi che l’uso dell’oralità sbiadisce, rende più confusi e al tempo stesso rivelatori. Proprio la presenza dell’affresco, di cui si vuole restituire l’immagine nel primo racconto, garantisce a quest’ultimo un ruolo emblematico. Come in una composizione di vasi cinesi, il racconto è costituito da molteplici incastonature narrative che distribuiscono la narrazione su più piani, intersecati e sovrapposti grazie ai confini sfumati di ognuno. Dopo aver dato voce a se stesso, il narratore ricostruisce ogni vicenda riportando i racconti di altri personaggi, secondo movimenti altalenanti che garantiscono dinamicità a una narrazione che pure rimane omogenea e coesa, perché gli echi delle scene e delle vicende risuonano in un sistema di coincidenze e ripetizioni che restituiscono la ridondanza del reale. La postura richiesta dalla soluzione di continuità con cui le varie vicende è quella di un completo abbandono da parte del lettore, che per avvicinarsi al testo deve assecondarne l’andamento rinunciando a ogni pretesa ordinatrice.

Nell’operazione linguistica e vocale che dà vita a questo risultato si trova il maggiore talento di Morelli, autore di una narratività al servizio della parola, di uno stile che informa il contenuto e la struttura dell’opera. Di conseguenza, lo stile assume un ruolo di primo piano all’interno della costruzione della raccolta, e anche a livello linguistico si leggono chiaramente i risultati dello studio alla base del testo. La ridondanza, oltre a determinare il contenuto dei racconti, evoca una retorica all’insegna dell’allitterazione e della ripetizione, innanzitutto di suoni, poi di termini e frasi, che cantilenando confondono il lettore rendendo la narrazione immersiva senza bisogno che sia la trama ad esserlo. In questo contesto si inserisce il gusto per il ritornello, che talvolta cadenza gli episodi, e all’uso sistematico della ripetizione si lega il debito dell’autore nei confronti dell’oralità, che si insinua nel lessico piegandolo verso forme dialettali o volgari, accostate talvolta a una terminologia più colta. Simili escursioni compongono una commistione linguistica ricca, tipica di una certa prosa italiana, – che da Gadda in poi ha affascinato molti fra i migliori autori della nostra letteratura contemporanea. Perciò, l’operazione dell’autore risulta tanto più valida proprio nell’accostamento delle strategie, orale e scritta, garantendo allo stile un carattere coerente ed efficace, che sfrutta abilmente il ricorso al sentito dire, al racconto popolare. Tale ricorso determina, all’interno dei singoli racconti, lo svolgersi di trame aneddotiche, quasi comiche, talvolta fondate su un ampio ricorso alla digressione. L’andamento del discorso struttura la narrazione favorendo la confusione fra metamorfosi e immobilità dei soggetti: il gioco del reale è influenzato da quello linguistico. Di conseguenza, è evidente come l’umorismo sia un elemento fondamentale della scrittura di Morelli. Esso si insinua nel corpo dei detti popolari e dei racconti orali e si rivela nell’accostamento tra l’enfasi del tono e la ridicolezza dei soggetti e delle descrizioni che vengono loro riservate.

Chiude circolarmente il percorso narrativo dentro e intorno a Testaccio l’ultimo racconto, che riprendendo i personaggi del primo si ricollega ad esso, come un’ennesima ripetizione di storie che non si concludono, ma si riproducono senza variazioni determinanti per i protagonisti. Nel primo racconto la cornice circonda una rappresentazione pittorica, troppo sbiadita per poter essere descritta direttamente, di cui si restituisce l’immagine tramite la descrizione del suo autore, allo stesso modo nell’ultimo ad essere riportata è la trama di un libro, anch’esso esistente solo nelle parole del suo autore. Di nuovo, l’arte del raccontare si fa protagonista delle vicende, la parola si fa garante dell’esistente e soltanto ad essa può affidarsi il lettore per interpretare l’opera nel suo complesso.

Consegnandoci una raccolta così abilmente calibrata, Morelli ci invita a partecipare al suo gioco fantastico, che apre uno scorcio da cui possiamo guardare al mistero del reale, concedendoci il piacere della risata sottile, ironizzando sulle apparenze e allo stesso tempo elevando la volatilità del pensiero e della parola a questione delle più serie.


P. Morelli, Ridondànze, 2022, Roma, Exòrma,189 pp., € 15,00.