È uscito a luglio di quest’anno strano l’ultimo libro di Marta Zura-Puntaroni, Noi non abbiamo colpa, edito da minimum fax. È il secondo romanzo della giovane autrice marchigiana, già molto seguita sui social (il suo profilo instagram unasnob conta oltre trentamila follower).

La protagonista, Marta, l’avevamo già conosciuta in Grande era onirica (sempre edito da minimum fax, nel 2018). Racconta qui il suo ritorno a casa, nelle Marche, per trascorrervi un periodo più lungo del solito a causa della malattia della terribile nonna Carlantonia. L’io a cui l’autrice dà voce è un riflesso, un alter ego che assume le sue stesse sembianze, la sua storia, il suo nome, secondo gli schemi ormai ultracollaudati dell’autofiction. Schemi arrivati alla loro declinazione più contemporanea, come dimostrano le polemiche intorno all’ultimo libro – ancora inedito in Italia – di Emmanuel Carrère, Yoga, alla cui accattivante e compiaciuta autonarrazione l’ex-moglie Helène Deyvinck ha opposto una lettera pubblica su «Vanity Fair» che ne smentisce la presunta sincerità[1]. Carrère ha dovuto ammettere che il “sempre sincero” che fa da comune denominatore alla sua scrittura non è stato poi sempre così sincero. Il rapporto della letteratura con la verità, lo sappiamo, è piuttosto ambiguo. Nel caso della storia di Marta Zura-Puntaroni non abbiamo lettere di smentita né relative correzioni: e forse non ci interessa averle.

Il romanzo si articola intorno al tema del ritorno al paese, alle ragioni di quel ritorno, allo strano sentimento che si prova quando si riaffonda nel luogo dove si è cresciuti, e dove tutto sembra immutato. Marta è ora più matura, una donna che vuole assumersi le sue responsabilità e aiutare la madre in questo difficile periodo di transizione. Il ritorno, quindi, non è solo un movimento nello spazio, ma anche un diagramma temporale, che va continuamente avanti e indietro, disegnando un personale rapporto tra passato e presente. Ne è l’esempio il personaggio della nonna di Marta, Carlantonia, che, afflitta dall’Alzheimer, vede passato, presente e futuro in un’incomprensibile compresenza. Allo stesso modo un turbine di ricordi si scatena nella testa di Marta, portando con sé dubbi, dolori, domande irrisolte:

Adesso voglio considerare Carlantonia una privilegiata e noi delle creature incomplete, limitate: considero lei una specie di arcangelo capace di viaggiare nel tempo, che più̀ si allontana dalle inutili minuzie della vita terrena più̀ apprezza l’universo nella sua interezza. Mentre io sono bloccata qui, in un mondo dove il tempo scorre un secondo al secondo, un minuto al minuto, dove ogni azione è irreversibile, ogni essere umano destinato a invecchiare e perire, nonna resuscita persone morte da anni, mi fa ritornare bambina di pochi mesi, mi trasforma in una delle sue sorelle o in sua madre, mi scambia per zia Cecilia o per Luigino o per Antea, sua figlia, mia madre.

Noi non abbiamo colpa è, tutto sommato, una storia famigliare: o meglio, una fotografia famigliare tutta femminile. Tre donne di tre diverse generazioni che collaborano, si accordano, si alleano per superare un momento duro. Il padre di Marta risulta una figura evanescente, del tutto disfunzionale alla risoluzione pratica dei problemi che via via si pongono al nucleo famigliare, i cui perni sono, evidentemente, le donne.

Carlantonia è una donna forte, ha vissuto la guerra, durante la quale ha gestito da sola il negozio di famiglia. L’ha fatto con passione e determinazione: quel negozio è stato tutta la sua vita. Nessuno credeva che avrebbe mai trovato l’amore, né lei sembrava avere particolare interesse a trovarlo. Ma quando incontrò il futuro marito, seppero riconoscersi: avevano in comune la capacità concreta di saper “fare le cose nel modo giusto”, di tenere sotto controllo e in ordine la vita materiale, la storia quotidiana:  

Il loro amore nacque sull’amore per le cose ben realizzate e ben tenute, per le cose ben organizzate, per i conti ben fatti. Ancora oggi ritrovo il loro amore nelle cartelline color senape con sopra la calligrafia di nonno Renato: conservano vecchie bollette e dichiarazioni dei redditi che da anni non è più necessario custodire, e che né io né mia madre abbiamo mai pensato di buttare.

Carlantonia fa scappare tutte le badanti che la mamma di Marta, Antea, assume per tenerle compagnia: e così ecco Marta, che concreta non lo è per niente, che fa un lavoro al computer, che torna nel suo paese «appiccicoso e confortevole». Ha un debito verso quella donna che l’ha cresciuta:

Mi diceva compiaciuta, Come farai quando sarai grande e la nonna non ci sarà più?
Forse voleva solo sentirsi dire che la amavo immensamente e non riuscivo a concepire una vita senza il suo ciambellone, senza i suoi vincisgrassi, senza le lenzuola ben tese che cambiava sul mio lettino.

In questo tempo che Marta le dedica sente l’eco delle ammonizioni che le faceva quando era bambina: «Vi ricascherà tutto addosso», «Se non le sai fare non le sai comandare». È vero, pensa Marta, lei e la madre non sono capaci di gestire questa situazione, non sanno “fare le cose”. La vita materiale ha delle leggi che loro non riescono a dominare. Le badanti si susseguono una dopo l’altra: con i loro caratteri, le loro storie. Il confronto tra la schiera di badanti e la famiglia della protagonista diventa il luogo di un crudo, non esplorato confronto di classe: un confronto tutto giocato sulle differenze tra chi, appunto, “le cose le sa fare” e chi invece non le sa fare. Il “non saperle fare” emerge come un privilegio di classe, l’incapacità pratica come il segno di una diversa condizione della donna. Le badanti le cose le sanno fare, sì, ma non vorrebbero farle. Tuttavia il tema è suggerito ma mai realmente affrontato: le badanti sono macchiette che vengono sbrigativamente sorpassate, anche quando si vorrebbe fare il tentativo di capire, e anche di “condannare” il sistema. È un procedimento, quello di suggerire temi senza attraversarli sino in fondo, che nel libro ritroviamo più volte: come se si volesse parlare un po’ di tutto, ma mai sino in fondo; come se ci trovassimo in un’ininterrotta conversazione. La protagonista mette fra lei e le cose una distanza, come se fosse in equilibrio.

La generazione di Marta è una generazione che le cose, più che farle, le sente – le analizza, e in ultima istanza le subisce. Lo scarto avvenuto in poco più di cinquant’anni è abissale. Marta passa dal raccontare esorcismi, malocchi e altri riti che caratterizzavano la vita di sua nonna al trascrivere le conversazioni che si svolgono fra le sue amiche su WhatsApp. Forse è questo uno dei nodi più interessanti nel libro: il passaggio indolore e allo stesso tempo traumatico da una generazione all’altra, da un modo di vita al successivo, radicato nel precedente e tuttavia completamente nuovo. Tutto questo è raccontato con una scrittura giovane e autentica: una lingua che a volte sfocia nell’arcaico, nel ritmo di un tempo passato per poi tornare improvvisa nella freddezza e nella lucidità del presente. Per coglierne le sfide o forse, semplicemente, per non farsene sovrastare.

Marta prova rancore: rancore verso il punto di partenza della sua vita. Da cui si è dovuta emancipare, e a cui ora sente il dovere di tornare. Il suo tornare non è però, come appare, un ritorno di necessità pratica, ma piuttosto un ritorno di urgenza metafisica. È facile rompere tutto, tagliare tutti i ponti e non guardarsi indietro. Ma farlo implica accettare un patto di disonestà con se stessi, di disonestà con la propria vita, che resta in quel punto, e per sempre, mutilata. Essere sopravvissuti continuando a portarsi dietro il peso della crescita, in una continuità fra presente e passato, è questo che rende, oltre ogni altra cosa, un essere umano compiuto. Marta emerge come una figura femminile moderna, che ha coraggio, che non si tira indietro, che guarda la vita in faccia, in tutta la sua ambigua e conflittuale miseria. Marta trova anche delle soluzioni: la resilienza, l’accettazione del destino umano come qualcosa che ha in nuce il terrore e la meraviglia:

Cerco di aiutare mia madre nell’unica maniera che conosco, fingendo che nulla dipenda veramente da noi, che nonostante le nostre decisioni, nonostante i nostri tentativi, la nostra illusione di indirizzare la vita verso il punto che vogliamo raggiungere attraverso le scelte che compiamo è tutto già scritto in maniera indelebile, non modificabile.

Così, anche Noi non abbiamo colpa, è una storia dell’io, una vicenda privata metabolizzata in letteratura, come tante che abbiamo letto ultimamente. Mette in gioco molti temi, e anche una certa autenticità di dolore. Ma nelle sue centonovanta pagine non si riesce a capire la direzione letteraria che l’autrice intende prendere: se ne intravede piuttosto la ragione personale, diaristica – appunto, privata. Tuttavia il libro resta generico: proprio perché nessuno dei problemi che lo percorrono gode di una vera tematizzazione; il fulcro della narrazione sfugge – resta sempre qualcosa di sfocato e di sommario. Non si tratta, è ovvio, di un vero e proprio difetto: quanto forse di una mancanza di messa a fuoco che rischia di confondere il lettore, e di privare il libro di quell’identità e di quella specificità che, paradossalmente, ci si aspetterebbe in massimo grado da un’operazione di autofiction, e dalla messa in campo di un linguaggio così energico, così dichiaratamente “giovane”.


[1] Sull’argomento è uscito un interessante articolo  per «Rivista Studio»: Emmanuel Carrère e il problema dell’onestà di Clara Mazzoleni.


Marta Zura-Puntaroni, Noi non abbiamo colpa, minimum fax 2020, 190 pp., 16€.