Paz, Apaz, Andrenza, Spaz, Andrew Patience, Andrea Fazenda. Sono alcuni degli pseudonimi con cui Andrea Pazienza ha firmato le sue tavole. Continue variazioni sul nome, in linea con una poetica che vede il fumetto come qualcosa che deve mantenere un senso di movimento, un’entità che brulica sempre di vita. Una poetica traboccante, come allo stesso Pazienza piaceva definirla[1], spronata dalle esperienze fondamentali di riviste quali Alter Alter, Cannibale, Il Male, Frigidaire. E fin dal libro d’esordio, Le straordinarie avventure di Pentothal, il suo alter ego può affermare, citando Walt Whitman: «e ringrazia che ci sono io, che sono una moltitudine»[2].

Passaggio obbligato per chi disegna fumetti, il carattere imploso della sua opera ha però creato un disorientamento che trova testimonianza nei tanti tentativi fallaci di definirla. Molte accuse volontarie, molte inconsapevoli, e questo strano strappo che divide la fama da rock star che Paz detiene tra gli appassionati italiani del fumetto – Ratigher, nell’introduzione al catalogo della mostra romana del 2018, Trent’anni senza, lo definisce «il fumettista più famoso e amato del nostro Paese»[3] – e il pregiudizio o la dimenticanza di tutti gli altri.  Non per il suo nome, che galleggia, portandosi appresso le accuse. Pazienza era un tossico, dicono i nemici. Lo hai mai letto? No. E gli amici? A volte senza accorgersene fanno peggio.

È il caso della nuova edizione di Gli ultimi giorni di Pompeo, a cura della casa editrice Union Editions[4], che ha scelto di privare il fumetto della sua parte disegnata, evocata spettralmente da spazi vuoti incorniciati dai testi. L’intento è quello di mettere in rilievo la carica poetica e letteraria dell’opera; l’effetto è un angosciante senso di perdita, come se Pazienza e la sua arte stessero scomparendo senza lasciare traccia.

O quello della mostra Fino all’estremo [5] di Bologna, visitabile a Palazzo Albergati fino al 26 settembre. Nelle sale che accolgono più di cento opere originali dell’autore, accompagnate da pannelli introduttivi con gli scritti di Adriano Ercolani, Ratigher, Antonio Faeti e Silvia De Santis, si frappone un elemento stridente, come sottolinea Ivan Carozzi in un articolo uscito su Esquire:

sono stati appesi dei grandi adesivi murali con le foto del massacro del Circeo e poi la foto a torso nudo di Gabriele e Marco Bianchi, i due fratelli responsabili dell’omicidio di Willy Monteiro Duarte, il ventunenne ucciso a Colleferro in seguito a un pestaggio. Che c’entrano con Pazienza? L’allestimento intende suggerire un legame tra il personaggio di Zanardi, una specie di capobranco, e certi episodi di cronaca nera italiana, come se Pazienza avesse fotografato, nelle storie di Zanardi, una torsione inumana e violenta della società, che potrebbe avere avuto il suo principio con il massacro del Circeo, nel 1975, e una prosecuzione in tanti altri fatti di violenza (i vari Pietro Maso, Erika e Omar etc), fino ad arrivare al raccapricciante pestaggio di Willy, nel settembre 2020[6].

Sono tracce di pregiudizi consolidati che offuscano l’opera di Pazienza, opprimendone il valore artistico e di esperienza viva, impedendole di irraggiare la sua portata sul futuro. Prendendo in considerazione, per questioni di coerenza di analisi, i tre personaggi più compiuti dell’opera dell’autore, Pentothal, Zanardi e Pompeo, si nota fino a che punto i pregiudizi sono pericolosi, proprio perché non sono mai del tutto falsi. Sono contorsioni che affondano le proprie radici in referenti reali.

Il primo riguarda il senso condiviso secondo cui Paz è stato prima di tutto un testimone del suo tempo. Testimone del marzo bolognese del ‘77, la cui miccia fu colta in diretta, se non addirittura anticipata, sul quarto numero di Alter Alter, supplemento di Linus. Conteneva la prima puntata delle Straordinarie avventure di Pentothal, studente meridionale fuori sede che assiste all’inizio delle rivolte di cui Bologna fu protagonista, «una Bologna storica fantasticamente immaginata da Andrea Pazienza prima che la Storia accadesse, mentre la Storia si avviava ad essere»[7]; testimone dell’individualismo sfrenato e prevaricatore degli anni ’80, con la comparsa in un altro marzo, quello del 1981, sul quinto numero della rivista Frigidaire, di Giallo scolastico, prima puntata della serie che ha per protagonista il naso a becco rapace di Massimo Zanardi detto “Zanna”, ventunenne pluriripetente al liceo scientifico Fermi di Bologna, nichilista, amorale, dipendente da ogni tipo di droga, devoto al male a cui si prodiga accompagnato dai complici Colasanti e Petrilli; testimone infine del gorgo esperienziale dell’eroina, nell’opera che molti hanno letto come testamentaria di Pazienza, Gli ultimi giorni di Pompeo, un Pentothal invecchiato in una Bologna macilenta che corre incontro al suo destino mortifero.

Il secondo pregiudizio è il marchio di incompiutezza che connota la sua opera, per un deragliamento costante dai canoni delle strutture narrative e della coesione stilistica del disegno; segni di un artista morto troppo giovane e in vita pigro, troppo drogato, troppo in rivolta.

Pregiudizi quindi, che vanno scardinati per capire l’artista e il contesto culturale in cui ha operato. Per farlo nostro come una canzone popolare, il cui ritornello fa sentire a casa anche quando le sue parole fanno male.  

Una chiave di lettura che ci permette di entrare nell’opera di Andrea Pazienza senza tradirla è una parola pronunciata proprio nel 1977, al Dams di Bologna, da un professore stravagante durante un seminario su Lewis Carroll: disambientato. Gianni Celati applica questo aggettivo al personaggio di Alice, che era stato preso a modello dalla controcultura americana e si era poi propagato anche in Italia come «idea d’un individuo nuovo, per lo più destabilizzato, coinvolto in continue mutazioni, ma liberato dai precetti del “come si deve essere”, e più avvertito sull’importanza del “come ci si sente”»[8]. Gli studenti che frequentano il corso partecipano attivamente alle lezioni, che diventano un vero e proprio tempo condiviso di riflessione: «discutevano seriamente sulle avventure di Alice, ma era come se parlassero sempre della loro situazione di studenti fuori casa, fuori dalla famiglia. La formula “Alice disambientata” è nata dal loro disambientamento»[9]. Tra i nomi noti c’è Roberto Freak Antoni, futuro fondatore degli Skiantos. Pazienza non c’è, ma seguirà altri corsi di Celati: quello «sul romanzo poliziesco americano, che si svolge nelle aule del Dams tra il 1975 e il 1976; ed è anche presente alle lezioni di Pietro Camporesi. Nel 1976 prepara un esame sul Morgante di Pulci disegnando in una serie di tavole la sceneggiatura del poema cavalleresco, tavole che anticipano le soluzioni grafiche di Pentothal, e di cui scrive Pier Vittorio Tondelli in un ricordo pubblicato in occasione della morte del disegnatore»[10].

In contrasto con la narrativa vittoriana per l’infanzia che ha come primo intento un fine educativo e ferocemente normativo, Carroll costruisce un personaggio che non è simbolo di niente ed è puro gesto, movimento che mantiene sempre una posizione laterale, anamorfica, che con il suo agire e il suo linguaggio spaesa la realtà e la mette in discussione. Alice recita le poesie didattiche apprese a memoria per la scuola ma le sbaglia tutte; Alice è un movimento destrutturato all’inseguimento del Coniglio Bianco, è la testa che parte via dal corpo e svela, con il suo disambientamento, le contraddizioni e le deviazioni del mondo degli adulti. È una fuga da fermi, la stessa dello studente disambientato Pentothal[11], che segue un doppio viaggio tra le strade di una Bologna in rivolta e l’onirico e immaginifico deserto di Napoli in cui gli influssi di Moebius, Magnus e Disney si mescolano dando esiti nuovi e fortemente personali. In entrambi i piani narrativi Pazienza-Pentothal vaga come un sonnambulo, incapace di sentirsi parte degli eventi, chiuso fuori dalla Storia e facendosi in questo espressione collettiva di un’intera generazione. La generazione del ’77, che ha provato a opporsi al linguaggio grigio, saturato della politica ufficiale mettendo in scena un carnevale culturale che è stato presto inghiottito dal rivolgimento di violenza la cui data di cesura è il 2 agosto 1980.

Allo spaesamento del protagonista aderisce la struttura delle puntate, che confluisce nel modello rizomatico teorizzato da Deleuze e Guattari in L’anti-Edipo: «un complesso di radici che non è soggetto alla giurisdizione di alcun modello strutturale. Pentothal è il laboratorio di Pazienza verso questa nuova concezione del libro, la sua applicazione al mondo dei fumetti»[12]. Anche il linguaggio di Pentothal è disambientato: riesce a trasporre con naturalezza l’oralità dello slang giovanile di inflessione meridionale, mescolandola a «un lessico aulico e letterario, intarsiando registri, dislocando parole, confondendo significati e sintassi, torcendo la lingua “in puro ritmo, cadenza, parole”»[13]. La distorsione ortografica e l’errore grammaticale prendono posto nei balloon e sono parte integrante della lingua viva e ipnotica che contraddistingue la voce narrativa di Pazienza.

Disambientato è Massimo Zanardi, il personaggio più famoso di Paz per via della linearità e coesione strutturale delle puntate di cui è protagonista.

Non simbolo, ma sintomo dell’egoismo atomizzante degli anni Ottanta, Zanardi è rivolta senza senso di colpa. Il titolo della prima puntata, Giallo scolastico, è scritto su un foglio a quadretti riciclato in cui si possono intravedere i segni di un calcolo matematico. La prima scena riporta l’immagine del gatto Galileo scuoiato e crocifisso alla porta della sua proprietaria, la preside del liceo scientifico Fermi. Uno stacco ci porta a scuola e a una classe in cui il bidello entra a chiamare i tre sospettati: Zanardi, Colasanti e Petrilli. La loro irriverenza e amoralità non trovano ostacoli: è una ferocia istintiva, vissuta come divertimento da bravata adolescente, che istintivamente ci fa andare dalla loro parte. Per un piacere della violenza di cui Pazienza si fa anticipatore, ma anche per un senso di frustrazione in cui ci riconosciamo. La vitalità festante degli anni Settanta è stata deviata, resa laterale, costretta nel recinto del narcisismo individualistico. Zanardi è un diavoletto titanico che non permette di essere giudicato.

E poi c’è Pompeo. L’opera che Pazienza riteneva la sua più importante, sicuramente la più intensa e quella in cui tocca il fondo di sé stesso, il limite estremo, l’esperienza di morte in vita a cui l’eroina lo ha condotto, l’eroina. In Pompeo la condizione di disambientato perde il segno positivo della rivolta e diventa caduta nel tragico. La sua fuga di testa non trova più la strada del ritorno. È un cristo sacrificato ma non redento e la rinascita che invoca è lo stantuffo premuto che inocula la dose in vena. Anche Pompeo, come Pentothal, è un camminatore. Ma la Bologna di sfondo non è più la stessa. Sono scomparse le scritte sui muri e i collettivi. La casa è sempre infestata, ma non da studenti. Da tossici e spacciatori che arrivano a tutte le ore del giorno a cercare di vendergli qualsiasi cosa, compresa un’armatura di samurai dell’Ottocento. È una Bologna vampirizzata che fa da sfondo alle ultime ore di Pompeo, la cui condanna è annunciata fin dal titolo e occupa ogni tavola.

Se nel fratello minore Pentothal, Pazienza aveva sfidato la forma fumetto sfilacciandola in storie divaganti, in Pompeo le dà la struttura marmorea delle unità aristoteliche previste per la tragedia. Ma trova lo stesso un modo di sconfinare, spostando il fumetto sul piano del romanzo illustrato. Il linguaggio diventa protagonista quanto l’immagine; entrambi si fanno più densi e poetici, ma sempre fortemente riconoscibili: «l’attenzione per la parola si trasferisce dai balloon alle didascalie, per smarginare infine nella gabbia viva di un anomalo romanzo manoscritto»[14].

Anche il fumetto, alla sua prima uscita su Alter Alter nell’aprile dell’85, risulta disambientato e viene male accolto. È un’esperienza troppo vicina, troppo quotidiana per essere affrontata. Stefano Tamburini, l’inventore di Ranxerox, muore un anno dopo di overdose. E con lui molti altri. Pazienza lo compone lontano da Bologna. Si è trasferito a Montepulciano con la moglie, Marina Comandini. È la sua catarsi. Anche la sua morte è disambientata. Come afferma David Riondino in un’intervista[15], è stato come «l’ultimo morto del Vietnam», nel momento di tornare a casa.

Pazienza è un cattivo maestro e uno dei protagonisti di quella corrente che se non ha mai voluto diventare una scuola è sicuramente stata un laboratorio in cui la cultura era corporale e condivisa, in eterno movimento. Con un unico punto fermo: l’arte, quella vera, «non è mica una rete per catturare pesci»[16] .


[1] Gianfranco Grieco, puntata della trasmissione Segnali di fumo per l’emittente Videomusic, 1994.

[2] Andrea Pazienza, Le straordinarie avventure di Pentothal – Tavole, disegni e scritti inediti, Baldini&Castoldi, Milano 1997, p. 5.

[3] Ratigher, L’equilibrio irreale dell’occhio del ciclone, in Andrea Pazienza, Trent’anni senza – 1988-2018, Coconino Press -Fandango Libri, Roma 2018, p. 5.

[4] https://www.union-editions.it/andrea-pazienza-gli-ultimi-giorni-di-pompeo/.

[5] Fino all’estremo è il titolo che Pazienza aveva pensato per la graphic novel che poi diverrà Gli ultimi giorni di Pompeo.

[6] https://www.esquire.com/it/cultura/arte-design/a36379057/andrea-pazienza-mostra/.

[7] Oreste del Buono, Prefazione a Andrea Pazienza, Le straordinarie avventure di Pentothal, Baldini&Castoldi, Milano 1982, p. 5.

[8] Gianni Celati, Sull’epoca di questo libro, prefazione a AA.VV., Alice Disambientata, a cura di Gianni Celati, Le Lettere, Firenze 2007, p. 9.

[9] Ivi, p. 5.

[10] Marco Belpoliti, Settanta, Einaudi, Torino 2001, p. 268.

[11] Pentothal è il “siero della verità” che permette a Diabolik di estorcere informazioni ai suoi nemici.

[12] Oscar Glioti, Fumetti di evasione – Vita artistica di Andrea Pazienza, Fandango Libri, Roma 2018, p. 73.

[13] Ivi, p. 54.

[14] Ivi, p. 205.

[15] Gianfranco Grieco, puntata della trasmissione Segnali di fumo per l’emittente Videomusic, 1994.

[16] AAVV., Alice disambientata, a cura di Gianni Celati, Casa Editrice Le Lettere, Firenze 2007, p. 130.