Se per caso ’ntra ’sta valle ’e lacrime ti serve nu piacere, meglio cominciare a chiedere agli stranieri, ca l’autoctoni, ccà dintra, a mme, non danno manco i confetti quann battezzano i nipoti.

Negli ultimi anni, complice la sempre maggiore centralità che le riviste letterarie stanno assumendo come “vivaio” (o palestra, o dojo, a seconda di come si voglia declinare la metafora sportiva) nel quale andare a pescare i nuovi autori, si è sempre più sviluppata la tendenza degli editori a lanciare esordienti che si sono fatti le ossa nella cosiddetta litweb. Non sfugge a questo collaudato cursus honorum nemmeno l’esordio come romanziere del salentino Graziano Gala, che nel 2018 aveva pubblicato la raccolta di racconti Felici diluvi. L’apprendistato dell’autore pugliese si è svolto su riviste come “Verde” e “Narrandom” o blog come il seguitissimo “Inchiostro di Puglia”, ma anche nelle redazioni di “Risme” e “Il Loggione Letterario”, e il grande salto con l’editore indipendente romano giunge a coronamento di quest’esperienza e con una maturità ormai acquisita.

Il suo Sangue di Giuda, titolo dal forte impatto che rimanda tanto a un’imprecazione tipicamente meridionale quanto alla corporeità violata del protagonista, è un intenso romanzo di decostruzione e scavo a ritroso. L’irruzione del lettore nella storia avviene con una frase incisiva, che idealmente potrebbe essere una sorta di sottotitolo: «L’altra sera s’hanno arrubbato ‘o televisore». Il furto del vecchio Mivar, dispositivo affidabile e dai costi contenuti che negli anni Novanta era presenza fissa nelle case di moltissimi italiani, è il motore che avvia la vicenda. Giuda ha sessant’anni e trascorre le sue misere giornate in compagnia del fidato e malconcio gatto Ammonio. I concittadini di Merulana, la città dal nome gaddiano in cui vive, lo trattano come un derelitto. Abbandonato in primis dai suoi familiari, il televisore e la presenza pervasiva di Pippo Baudo sono le sue sole certezze, le costanti a cui aggrapparsi nei momenti di sconforto, ma il Mivar è soprattutto l’unico argine al silenzio assordante della casa, dove le pareti sudano e fra uno scricchiolio della credenza e un cigolio dell’armadio suo padre Santino torna a essere presenza viva e minaccia concreta.

L’asfalto s’azzoppa sott’ai calcagni. ’E machine so’ parcheggiate, ’e luci spente, i cristiani so’ anime stanche ’nfilate ’ntru letto. Io me la percorro tutta, ’sta carreggiata d’ospedale, me la vivo troppe notti, p’a paura che quel vigliacco venga nel sonno, cacci nu braccio dalla credenza e mi tiri dentro per darmi le altre, quelle che pe’ caso chilla sira s’ha scurdate.

Giuda non si chiama davvero così. A imprimergli questo nome come un marchio di infamia fu proprio il violento genitore, svariati anni prima, durante uno dei suoi momenti di cieca prevaricazione paterna. Quando si designa una cosa o una persona con un nome, si compie un’azione simile a indicarla col dito puntato. Una pratica del genere, se il nome in questione è Giuda, assume un’inevitabile carica colpevolizzante. È così che quel nome è rimasto impigliato nella sua esistenza, con tutta la sua valenza punitiva, come un fardello ulteriore per infierire su chi è stato già violato fisicamente. Quell’episodio si cristallizza e ogni sera, quando calano l’oscurità e il silenzio, si ripropone conforme all’originale, i fantasmi diventano forme solide, torna Santino, tornano le botte. Giuda allora scappa, esce di casa e va a dormire sui cartoni, si costruisce giacigli di fortuna. Il Mivar ha quindi anche una funzione apotropaica, ed è per questo che la disperazione è doppia: Giuda non potrà vedere il suo mito Pippo Baudo, idealizzato e divinizzato un po’ come Jerry Langford in Re per una notte di Scorsese, e non potrà sfuggire alla collera del padre-padrone.

Finora si è detto dell’innesco della vicenda, ma la svolta si concretizza quando Giuda, dopo una notte trascorsa nel parcheggio del centro commerciale Mammoni, si mette alla ricerca di «na fotocopia d’o Mivàr, nu cugino, nu parente scemo». L’invito da parte della “sciop assistant” a scegliere il modello che preferisce viene recepito da Giuda come un’autorizzazione ad accaparrarsi il televisore che vuole. Se lo carica in spalla e va via senza pagare, convinto di essere nel giusto, mentre il corteo alle sue spalle si ingrossa.

L’erede d’o Mivàr non pesa ma è lungo comm’a na messa cantata. Dietr’a mme si crea na processione ’e cristiani ca ricorda quella di Sant’Epphisio, ’o patrono, ca nun è forte comm’a Sant’Antonio ma si difende bene, specie considerate, direbbe Monia, le recenti defaiànz di quest’ultimo. ’O cassiere è in coda insieme agli altri inservienti: agitano i pugni, urlano, fanno gesti: che entusiasmo pe’ nu cazz’e televisore. Io accellero il passo, ca a mme piace tenere na certa discrezione e di tutte ’ste cerimonie nun sacciu propio che farmene.

È qui che gli sviluppi, dapprima farseschi, cominciano a virare lentamente verso il tragico. Mammoni, oltre che possedere pure l’aria che si respira a Merulana, è il patron della locale squadra di calcio della Vesuviana, che usa per meri scopi propagandistici in vista delle imminenti elezioni. Le fortune della compagine, unite al gradimento diffuso verso la sua persona, sono garanzia di consenso e un’ottima base da cui partire. Giuda scopre a sue spese che gli ambienti dell’imprenditoria e della malavita sono più contigui di quanto si possa credere, la sua umile casa diventa covo di persone poco raccomandabili e che incredibilmente lo ritengono centrale per raggiungere il cosiddetto an plèn, il plebiscito elettorale in cui Mammoni spera anche per la totale assenza di seri competitor.

Queste poche immagini direttamente tratte da Sangue di Giuda restituiscono un quadro abbastanza chiaro: le manzoniane “genti meccaniche”, i vinti, i personaggi di piccolo cabotaggio, non hanno mai smesso di essere interessanti da un punto di vista narrativo.

Si fa un gran parlare, soprattutto quando si è di fronte a un esordio, di voce autoriale, ma mai come in questo caso pare necessario scomodare questo concetto come primo punto per un’analisi critica. Gala, per sua stessa ammissione, valorizza la propria voce celandola come un ventriloquo, afferma di aver scritto il romanzo quasi sotto dettatura, facendosi semplice strumento di propagazione. La voce ipertrofica di Giuda, quindi, come materia gassosa, occupa tutti gli spazi fino a relegare l’autore ai margini. La lingua, un italo-campano ibridato col salentino e altri dialetti meridionali, appare sporca perché l’italiano si usa per parlare con gli estranei, i forestieri, gli stranieri, è il burocratese e la lingua dei mezzi di comunicazione, non uno strumento di cui servirsi quotidianamente. È un idioletto che Gala ha cesellato per una vita, anche in virtù degli incontri che ha avuto, e probabilmente solo dopo che le fattezze di Giuda erano ben delineate si è reso conto che poteva e doveva parlare solo in quella lingua. Se è vero, quindi, che è Giuda a imporre all’autore la sua lingua e il suo registro, è vero pure il contrario: che, cioè, quest’idioletto che si è andato sedimentando per anni ha assunto concretezza solo con la creazione di Giuda. Le espressioni ricercate (trattative, constatazioni amichevoli, diplomazia, ritrosie, screditato, e moltissimi altri potrebbero essere gli esempi), sia nel lessico che nei costrutti, sono state orecchiate, assimilate e interiorizzate da Giuda perché la lingua è adesiva. Da uomo concreto quale è le ha apprese in contesti pratici, dunque anche questo superficiale abbellimento trova ragione nella necessità dell’atto comunicativo, e in quanto uomo incolto Giuda sente di dover giustificare l’uso di tali parole di volta in volta. Il dialetto è la lingua di tutti e dell’urgenza, al di là delle latitudini, ma l’uso così spinto all’eccesso potrebbe risultare a tratti respingente. L’autore e l’editore se ne assumono il rischio, convinti che fosse l’unica strada percorribile. È un aspetto che segnala l’attenzione di minimum fax all’elaborazione linguistica, e il pensiero va non solo al più volte chiamato in causa Remo Rapino, ma pure al cinghialese di Apperbohr coniato da Giordano Meacci nel suo Il cinghiale che uccise Liberty Valance, finalista allo Strega 2016.

Non è però il caso di ridurre il romanzo a un esercizio di sperimentazione linguistica, perché si farebbe un torto al Gala narratore. Giuda, un sessantenne che non è più marito né padre, che non ha mai potuto essere nonno, è soprattutto un bambino irrisolto, una vita ferma allo stato larvale e che, se mai riuscirà a mettere delle ali, le scoprirà deboli, incapaci di donargli una singola sicurezza. Il modo perfetto per far crollare ogni suo appiglio è l’uso del cosiddetto macguffin, uno stratagemma di ascendenza filmica. Si tratta di un motore narrativo che serve a fornire dinamicità alla trama, la cui centralità iniziale va scemando col proseguire della narrazione. Il Mivar per Giuda è una questione di vita o di morte, ma più si va avanti e più si comprende che era solo un pretesto per mettere a nudo la sua natura, ideale per consentire un disvelamento graduale della sua psiche e della sua vicenda personale. Prendendo le mosse dal capolavoro dei fratelli Coen, maestri nell’utilizzo di questo espediente, si potrebbe azzardare che il Mivar è per Giuda quello che il tappeto è per “Drugo” Lebowski: apparentemente al centro di un episodio marginale, diventa il pretesto per un rapido scivolare verso vicende troppo grandi per il protagonista, un assurdo anello di congiunzione per mondi assolutamente lontani, ma viene a incarnare anche e soprattutto la possibilità utopica di mettere ordine nelle proprie cose private e nella propria esistenza irregolare.

Gala recupera dai Cannibali (in particolare da Nove e Ammaniti, che ne facevano un uso a tratti esasperato) l’attenzione per i media, i tic e le ossessioni dei consumatori: lo fa citando sia Pippo Baudo che Giorgio Mastrota, masticando e assimilando gli slogan pubblicitari di maggior successo e che hanno forgiato il suo immaginario di uomo e consumatore. Mammoni è una sorta di deus ex machina per Merulana, perché ha portato anche in provincia il mercato globale, ha risposto ai bisogni del nuovo millennio, e anche chi come Giuda non mostra simpatia per quest’uomo e quello che rappresenta finisce per essere irretito dai meccanismi complessi della grande distribuzione. Aspetto per nulla secondario, a proposito del riferimento continuo alla televisione anche in senso metaforico, è il fatto che Giuda si riveli uno spettatore anche nella vita: non solo, quindi, la morbosa attenzione per i palinsesti tv, ma anche la tendenza a subire le decisioni degli altri senza intervenire concretamente per modificare la realtà, una certa rassegnazione nel guardare agire gli altri (e in primo luogo i suoi familiari, con cui i rapporti sono complicati se non annullati).

Per concludere, Gala fa un’operazione, per così dire, di particolare modestia: scrive un romanzo che forse in altri tempi si sarebbe definito “sperimentale”, ma senza mai mostrare la tracotanza e la presunzione di chi crede d’essersi inventato qualcosa. Anzi, i ringraziamenti finali verso i maestri della narrativa pugliese (Cosimo Argentina, Carlo D’Amicis, Omar Di Monopoli, oltre al più recente e suo coetaneo Andrea Donaera) sono un segnale chiaro che Sangue di Giuda è un proseguimento di una tradizione che dalla provincia ha ormai colonizzato ampi settori del mainstream, e che da “narrativa pugliese” è riuscita a farsi strada e a diventare serbatoio fra i più vitali per la letteratura italiana contemporanea.


Graziano Gala, Sangue di Giuda (2021), Roma, minimum fax, pp. 171, €16.