Le dinamiche sociali in cui siamo immersi riguardano spesso l’inclusione, la possibilità cioè di essere accettati all’interno dei gruppi vicini a noi. Uno degli elementi attraverso cui questa partita viene giocata è il corpo: spesso, il grado di integrazione passa attraverso la conformità del nostro aspetto fisico. Il nostro corpo, dunque, un campo di battaglia, un metro di giudizio con cui venire (dagli altri e da noi stessi) riconosciuti o rinnegati. Se la forma del nostro corpo non è conforme agli standard – e dunque non può essere abilitato nella società – ecco il rifiuto. In particolare, è il binomio magrezza-grassezza ad avere grande rilevanza nel terreno dell’accettabilità: essere grasso, nell’attualità occidentale, spesso significa anche essere marginalizzato, non del tutto riconosciuto, divenire una macchietta desessualizzata (come insegna lo stereotipo dell’amico in sovrappeso del protagonista di una serie tv).

Questa potente discriminazione verso i corpi grassi è stata oggetto di studio dell’accademica Amy Erdman Farrell, che ne scrive in Fat shame. Lo stigma del corpo grasso (Roma, Tlon, 2020). La casa editrice, Tlon, è rinomata per la sua capacità di far dialogare il mondo teorico dell’accademia e la pop culture militante: non a caso, la copertina è opera di Chiara Meloni, in arte Chiaralascura, e la Prefazione firmata Belledifaccia, progetto di fat acceptance divulgato principalmente tramite i social. La traduzione e pubblicazione di un tale libro è pionieristica in Italia, dove gli Studi di genere sono entrati a fatica nelle università e sono ancora osservati con scetticismo, e poco conosciuti sono i fat studies, la branca specifica dei Gender studies che si occupa di approfondire lo stigma del grasso. I volumi tradotti in italiano finora analizzano più genericamente le dinamiche sociali e culturali legati al corpo e all’utilizzo che ne facciamo (come il celebre Il peso del corpo di Susan Bordo, edito da Feltrinelli nel 1997), ma mai prima di Fat shame era stato pubblicato un libro incentrato esclusivamente sulla grassofobia. Una narrazione alternativa, dunque, è evidentemente necessaria e questo libro s’inserisce nel movimento femminista intersezionale che si sta facendo sempre più forte. L’edizione di questo volume è l’ennesimo segnale positivo di questo movimento collettivo che, nonostante venga sminuito come “femminismo da influencer”, ha una potenza sovversiva che va coltivata.

Operando dunque una profonda connessione tra attivismo e ricerca, Erdman Farrell tenta di fornire le parole per descrivere le dinamiche sociali che riguardano il corpo grasso. L’autrice definisce l’odio verso i corpi in sovrappeso “grassofobia” e ne parla in termini di stigma, rivendicando anche l’uso non marcato del termine “grasso”. Il manifesto della National Association to Advance Fat Acceptance, riportato nel libro, recita infatti così: «Grasso non è una parolaccia. È un aggettivo, come basso, alto, magro o biondo. Nonostante la società gli abbia dato un significato dispregiativo, crediamo che identificarci come “grassi” sia un passo importante per superare la vergogna che ci è stato insegnato di provare» (p. 279). Il tentativo di riappropriarsi di una parola e risemantizzarla, spurgandola dai significati e dalle costruzioni create nel tempo, diventa già in sé una lotta contro la discriminazione (un’operazione simile, infatti, stanno attuando i movimenti di sex workers con il termine “puttana”).

Ma perché la società occidentale ha elaborato un così radicato disgusto per il corpo grasso? Proprio a questa domanda cerca di rispondere Erdman Farrell, ripercorrendo la storia americana di questa discriminazione fino alle origini dello stigma. L’autrice ci accompagna in un percorso dettagliatissimo, frutto di una ricerca scientifica decennale, ma assolutamente godibile: il libro, infatti, sembra rifuggire ogni scientismo scrittorio, probabilmente per la necessità di comunicare in modo chiaro tali istanze.
La studiosa data gli albori della grassofobia verso la fine del XIX secolo, quando il consumismo e l’industria moderna stavano nascendo, si iniziò a temere che le persone non riuscissero a trattenersi di fronte alle nuove disponibilità di piaceri. In questo contesto, si normalizza la grassofobia e sorge «l’industria farmaceutica delle diete» (p. 99), come risposta puritana alla nuove società dei consumi. Il grasso iniziò a diventare sinonimo di incapacità di controllo, di vita insalubre e moralmente degradata. È interessante che Erdman Farrell metta in luce una contraddizione consistente nel meccanismo di questo stigma: se esso nasce in contrasto alla modernità, ne diventa poi, nel secolo successivo, il maggiore alleato.

L’introito economico che deriva dalle diete e dai programmi di dimagrimento rendono la discriminazione grassofobica proficua e perfettamente integrata rispetto all’ottica capitalista. Da questo momento in poi, l’autrice ci mostra il collegamento quasi automatico che viene fatto tra un corpo grasso ritenuto frutto di incontinenza a un corpo grasso come sinonimo di inciviltà, quindi non “bianco”: il corpo filiforme è simbolo di uomini e donne occidentali, mentre la grassezza viene associata alle etnie afroamericane e latine. Tramite la documentazione di cartoline, pubblicità delle varie epoche e casi pubblici finiti sui rotocalchi, attraversiamo decenni di grassofobia fino a giungere all’attualità, dove lo stigma continua ad agire. Verso la fine del libro, Erdman Farrell ricorda l’ossessione degli Obama per la forma fisica, segno evidente del peso che gravava sulle loro spalle in quanto prima famiglia afroamericana alla Casa Bianca: per poter essere accettati dovevano “almeno” essere magri, il più possibile ricollegabili a un’immagine di civiltà e rispettabilità.

Testimoniando una storia che trova il suo inizio quasi due secoli fa, Erdman Farrell ci pone di fronte all’evidenza che lo stigma del grasso è molto più subdolo di quanto possa sembrarci: non è una “mera questione estetica”, bensì una narrazione tossica che si lega al capitalismo, al razzismo e al colonialismo. Quest’ultimo esempio degli Obama è rappresentativo di come agisce la discriminazione incrociata: Michelle Obama è donna, afroamericana e tenderebbe ad ingrassare, se non svolgesse una maniacale attività fisica (come afferma Obama stessa, in un’intervista riportata da Erdman Farrell a pagina 271). È evidente che la grassofobia e la questione del corpo rientrano nel terreno della lotta femminista intersezionale. La speranza (e l’obiettivo) è di continuare a proporre narrazioni antagoniste ad alto livello critico, che tengano sempre più a mente tutte le soggettività. Fat shame è dunque un libro che possiamo accogliere con grande favore, l’ennesimo tassello da aggiungere al progetto – più ampio – di costruzione di una società più inclusiva e giusta.


Amy Erdman Farrell, Fat Shame, Tlon 2020
368 pp., 16€