Guido Mattia Gallerani, poeta, critico e studioso di letteratura dell’Ateneo bolognese, dedica la sua nuova raccolta di poesie a una galleria di Popoli scomparsi, ordinati cronologicamente dalla preistoria a oggi. Il tono tragico o elegiaco che l’argomento lascerebbe attendere è stemperato in un’empatia ironica ed elegante, che da ciascuna parabola storica, più o meno nota, tratteggia una morale in punta di penna. L’ironia è implicita anche nella selezione dei medaglioni storici, in cui ai popoli propriamente detti (dai Sumeri agli Herero) o addirittura alle specie (l’uomo di Neanderthal) si affiancano caste professionali e occupazioni (i dragomanni, i glossatori, le geishe), ma anche pittoresche subculture contemporanee (i punk, gli hipster), trattate alla stregua di stirpi esotiche. La stessa cosa che d’altronde accade alle “Vittoriane” e al pubblico dei teatri ottocenteschi ne “I longobardi”, con «con quei monocoli […] / e coi menti e le calvizie / ricoperte da bombette / e buffe punte di baffetti». L’elenco risale persino a prima dell’umano ricordando – nell’unico testo redatto in prosa – i dinosauri, massimo archetipo delle creature nobili ed estinte.

Che cosa accomuna tutti questi ‘popoli’? L’oscurità, la marginalità, la vocazione alla scomparsa; dai casi di estinzione violenta portata da invasori e oppressori esterni, a quelli di maladattamento evolutivo o autodistruzione inconsapevole, la rassegna allestita da Gallerani ci porta a riflettere sulle dinamiche del collasso. Si può parlare di una storia universale dalla parte degli sconfitti, delle vittime di un progresso etimologicamente inteso come puro avanzare (cieco, barbaro, ateleologico) della storia. Nella sua postfazione, Mimmo Cangiano sottolinea il valore morale e politico dell’operazione: Gallerani simpatizza chiaramente con questi sconfitti e ne esalta la resistenza (la poesia finale del libro è dedicata ai “Superstiti”), ma non li mitologizza romanticamente, bensì li inserisce in una continuità storica dove anche ogni disfatta trova la sua motivazione. Al tempo stesso, l’attenzione per i soccombenti demitologizza la storia scritta dai vincitori, mostrandone il risvolto dimenticato o, con termine oggi in auge, cancellato («dalla gomma dei bulldozer»).

Non a caso, al poeta sembrano interessare letteralmente le voci degli obliati. L’attenzione va spesso alla lingua, ed eventualmente alla produzione poetica, di un popolo, quasi sua anima e quintessenza. Così, lasciato indietro il «mugugno delle scimmie», ecco sfilare i resti «frantumati e cuneiformi» delle civiltà mesopotamiche, quelli della lingua falisca (sorella sfortunata della latina), la «lingua impronunciabile / e fatta per vincere» dei Longobardi, l’indecifrata scrittura rongorongo dell’Isola di Pasqua, il creolo shelta dei nomadi irlandesi, la «lingua […] quasi scomparsa» dei Berberi troppo taciturni e quella dei Baschi «tutti agitati / da verbi agiti al presente», infine i «mille parlanti» Tohono O’odham che tenacemente conservano il loro idioma amerindio. E per quanto riguarda l’articolazione poetica della voce, si va dal «verso sarcastico» dei Falisci alle «melodiche / strofe» della lirica basca. Tradizioni, anche queste, naufragate o quasi; e rappresentative forse del destino della poesia tout court, se ha ragione Cangiano a ipotizzare che «la stessa sconfitta storica di quei popoli [possa] essere assimilata alla stessa incapacità del discorso poetico di stare al passo coi tempi» (i poeti come altro esempio di popolo in via di sparizione?).

Sono tematiche che richiamano da vicino la “Ballata delle lingue che muoiono” di Federico Italiano e anche altri componimenti di questo autore, la cui robusta immaginazione si nutre volentieri di memorie storiche o linguistiche (per quanto con maggiori concessioni a quel lirismo e quel pathos che Gallerani tende a evitare). In effetti questo libro non è isolato nella poesia italiana recente. Nella lucidità spassionata di sguardo e nell’elegia fra parentesi c’è anche qualcosa dello Zeichen ‘storico’ di Gibilterra; mentre del tutto diversa tonalmente, per la costante temperatura tragica, è la costruzione – sulla carta molto simile – della Caduta di Bisanzio di Alessandro Rivali, che pure si presenta come una galleria diacronica di civiltà estinte. Anche chi scrive ha tentato altrove un esperimento affine, con sguardo però ristretto alle epoche più fosche e lontane, e spingendo sul pedale del lirismo ermetico accanto a quello dell’ironia grottesca, laddove Gallerani, come si vedrà, è assai più disteso e leggibile.

Ma oltre le differenze di timbro ed eventualmente di retroterra ideologico, si tratta sempre di poesia ‘di secondo grado’ che prende ad oggetto la cultura storico-antiquaria degli autori (spesso studiosi di professione, o comunque docti), come strategia di spersonalizzazione e di apparente rimozione del presente; un presente che è però leggibile in filigrana dietro la maschera del passato, i cui traumi e inquietudini prefigurano gli attuali. Anche i Popoli scomparsi ci parlano più da vicino di quanto si potrebbe pensare. Nell’avvertenza introduttiva, Gallerani sottolinea che se le sconfitte di cui narra «non anticipano il presente destino, sono almeno l’illustrazione di certi comportamenti che perdurano nella società occidentale»; dopo le varie umanità trascorse, «arriva la nostra». Come civiltà e come individui siamo candidati alla sparizione (chi si diletta in attività sorpassate come letteratura e studi umanistici, si direbbe, anche più e prima di altri). De nobis fabula narratur.

L’impianto didascalico dell’opera è confermato dalle sobrie e oggettive introduzioni che contestualizzano le vicende meno conosciute, e che in altri libri di simile ispirazione sarebbero probabilmente state delle note erudite al fondo (o ai margini…), mentre qui svolgono autentica funzione di inquadramento. Rispetto alle altre opere ricordate, infatti, in Gallerani appare più netta la volontà di stimolare la riflessione (e semmai il sorriso) del lettore sui fatti narrati, senza troppo concedere ad ambigui, consolatori risarcimenti estetizzanti. Come nota Cangiano, sono «ridottissimi gli elementi lirici». Non è tanto questione di rarità assoluta delle immagini solenni o visionarie, non infrequenti («Come uova di pesci gli uomini / nel diluvio galleggiarono / su un oceano di morte»; «L’oracolo spezzò i cieli»; «Nell’arcipelago delle isole azzurre / abitavano sogni acuminati di spade»), quanto della loro diluizione in un tessuto complessivamente anti-enfatico, che di fatto le depotenzia.

La linea chiara dello stile privilegia l’accessibilità sul formalismo, affidandosi a una versificazione sciolta e duttile che ripropone un ritmo colloquiale, a tratti prosastico. Ritmicamente sottotono, questa scrittura non si abbandona mai alla propria musica, ma non è del tutto avara di effetti fonetici. Procede piuttosto per micro-cellule omoteleutiche («le mani, i crani», «polle … zolle»), anagrammatiche («spaccavano … bivacco»), allitteranti («nekyia nebbiosa», «filibustieri / francesi … britannici / bucanieri») o paronomastiche («Irene iraconda», «tentoni … tendoni … tendendo»), combinate a volte in maniera anche alquanto elaborata («bombette e buffe punte di baffetti», «le radici marce / e le aree fradice», «L’infinitudine nomade non ha fede / nelle dune, nelle onde girovaghe»). Non paiono, questi, virtuosismi gratuiti, ma discrete pennellate che ravvivano il colore verbale di personaggi e situazioni in punti-chiave del discorso. Se certe scelte lessicali anticate o curiose (la zimarra e la tiara, le fuste e gli sciabecchi, etc.), secondo il postfatore, possono servire a sottolineare la «estraneità al moderno» di chi soccombe al progresso storico, non escluderei che l’autore sfrutti le risonanze esotiche (e appena un po’ ridicole) di tali termini per insaporire il suo dettato. Di nuovo, una scelta che avrebbe potuto essere spinta in direzione puramente esornativa bilancia questa motivazione (pur senza negarla appieno) con una più funzionale.

Anche l’estensione stessa delle poesie riflette questo spirito di fondo: i singoli componimenti non sono mai brevissimi o frammentari – i più compatti contano una ventina di versi, ma la misura più tipica è doppia o tripla, con articolazione strofica distesa. L’andamento discorsivo e raziocinante, dunque, prevale sulla tentazione del cammeo suggestivo, epigrammatico. Dove invece il poeta scorcia e sintetizza è sempre in nome di una postura antiretorica. Si veda la sua “Gog e Magog”, che di fronte al fosco decadentismo dell’omonimo poemetto conviviale pascoliano (ipotesto inevitabile espressamente richiamato in esergo) si pone come un controcanto scettico, sottolineando la scarsa fondatezza storica di questi popoli tanto spaventosi quanto leggendari: «non c’erano simili nomi scritti / tra i popoli sconfitti dai Macedoni».

L’autore, insomma, declina una suggestione che è nell’aria da diversi anni (l’allestimento di stilizzate scenografie storiche come riflessione dissimulata sul nostro presente) in senso decisamente inclusivo, sia per la vastità enciclopedica dei temi trattati, sia per l’autentica empatia e curiosità verso i vinti e i resistenti di tutte le epoche (e chissà se nell’inclusione dei punk c’è una memoria del Greil Marcus di Lipstick Traces, che inseriva quel movimento in una lunga genealogia sotterranea di profeti libertari reietti, dai bogomili ai situazionisti). L’esecuzione, forse fin troppo programmatica nell’impianto e coscienziosamente equilibrata nella forma, ha però il pregio di un terzo tipo ancora d’inclusività: quella nei confronti del lettore.


Guido Mattia Gallerani, I popoli scomparsi, Ancona, Italic Pequod, 2020, 108 pp., €15,00.