In un luogo imprecisato sulla catena himalayana, Gloria scivola in un crepaccio sotto gli occhi di Marco. Si trovano lì per cercare Chen, il padre di cui lei ha sentito parlare solo attraverso i racconti materni, e che si è allontanato sui monti per sfuggire ad un passato opprimente. Così si apre Risorgere, il nuovo romanzo di Paolo Pecere. Al centro del libro, la quête familiare di Gloria, unico modo di dare un senso alla propria esistenza disadattata e dalle molte anime (sino-italiana, nata a Berlino), diventa la cerniera sulla quale si legano le due linee narrative attorno a cui il romanzo è abilmente costruito. Punto costante di riferimento è la Cina del futuro immediato, gli anni Venti del Duemila, vista sia dallo sguardo disincantato e sconfitto dei giovani cinesi che un tempo hanno tentato di rivoluzionarla, sia da quello occidentale che ne osserva le potenzialità come un’alternativa ad un presente immobile: «Qui c’è pace e sviluppo, si pensa al futuro. In Occidente c’è autodistruzione, si guarda troppo al passato».

Uno di questi ex rivoluzionari è proprio Chen, il padre di Gloria. Personaggio evanescente e sfuggevole, che emerge sempre attraverso le prospettive degli altri come centro di attrazione insondabile e irrequieto, Chen è l’anima della Cina stessa; in lui convivono il passato del «giovane rivoluzionario con la camicia bianca» che partecipa alle rivolte del 1989 e un presente borghese di ricchezza tossica e smodata. A ripercorrere la sua storia è il machiavellico Liang, un tempo suo amico e amante, che ora, come Gloria, lo sta cercando. In una reminiscenza dai tratti onirici, espressa tramite sequenze riflessive e monologhi, Liang ripercorre la sua fuga con Chen in Occidente, dove nascerà Gloria, poi la ricerca di fortuna in Africa e infine il ritorno in una Cina dominata da ideali economici e politici antitetici a quelli rivoluzionari, ai quali anche loro due oramai si sono piegati.
La narrazione di Liang tuttavia prende le mosse dalla sua stessa infanzia, ben prima dell’incontro con Chen, divenendo così lo spunto per descrivere lo stato di brutale oppressione nascosto dietro la rivoluzione culturale, fatto di soprusi e violenza a cui risposero le lotte dei giovani, culminate nei moti di piazza Tienanmen, che guardavano all’Occidente europeo come a un baluardo di democrazia da opporre alla dittatura del Partito. Ma è proprio in piazza Tienanmen che si consuma il fallimento della loro generazione, costretta poi alla fuga e alla ritirata. Dirà Liang ripensando al passato:

«Sapevo che la nostra insistenza avrebbe provocato solo un colpo di mazza alla testa calda della Cina, che si sarebbe risvegliata istupidita, avrebbe lentamente dimenticato tutti gli striscioni e i falò e le T-shirt, quel flirt occidentale di un’estate. La Cina avrebbe tirato avanti per qualche anno tra convalescenza affettiva e crescita robusta del Prodotto Interno Lordo. Ogni ricordo sarebbe svanito. Sapevo del futuro sciagurato che voi illusi vi portavate dentro come vermi che sognano di diventare farfalle. Tienanmen era il posto giusto per disperdere un’illusione collettiva.»

Lo smarrimento dell’illusione collettiva disgrega la generazione dei padri, ossessionandola per il proprio fallimento, e si concretizza poi nei figli, cioè nella generazione di Gloria, protagonista della seconda linea narrativa, raccontata questa volta da Marco, il ragazzo con cui intreccia una complessa vicenda amorosa. Figli irrisolti di genitori che hanno rifiutato il loro ruolo, abbandonati a se stessi senza una direzione, i trentenni Marco e Gloria sono gli archetipi del giovane adulto di quest’epoca: impotenti e in difetto rispetto al mondo che li circonda. La ricerca del padre viene maturata da Gloria dopo una serie di fallimenti personali che inducono i due a spostarsi da Berlino, prima a Roma e poi proprio in Cina.
L’Europa attraverso cui si snoda il rapporto di Gloria e Marco è ritratta nei volti opposti ma integrati delle due capitali come uno spazio senile e inabile a generare la possibilità di un futuro, è «un vecchio malato che si chiude in casa e sbarra porte e finestre». Berlino è un paradiso fraudolento, a cui le speranze dei giovani tendono per poi congestionarsi e naufragare; una promessa di avvenire che non solo tarda a realizzarsi, ma si dà in un tempo precario fatto di costanti insuccessi e ripieghi:

«Berlino tentava d’ingannare il tempo, di essere quel che non poteva essere più, e certamente è ancora così, pietrificata nel suo sortilegio. […] La pace di Berlino era un fuoco d’artificio, una promessa falsa fatta agli studenti di tutto il mondo, come i permessi di residenza temporanea e i contratti di lavoro senza giorni liberi che neutralizzavano ogni pensiero di un’alternativa.»

Roma invece è uno spazio inerte, ridotto allo zero, dove la retorica della Grande Bellezza lascia spazio alla derealizzazione di una città in cui la finzione e i feticci sono costantemente palesati, trasformata in un’altra tipologia di parco giochi, indirizzato ai turisti – e, su tutti, i turisti cinesi:

«I turisti si guardavano intorno spaesati, indolenti. A volte sembravano indispettiti dal caldo e da tutto, una scolaresca costretta controvoglia al tormento. Osservavano le colonne monche, le gradinate scomparse, e mi chiedevano con le mani a conca: “Perché non le riparano?”. In Vaticano superavano incuranti la Cappella Sistina dopo un paio di foto […]. Poi chiedevano il gelato. Li indirizzavo al furgone di un ambulante, dove ognuno prendeva un cono che si ricopriva di gelato sciolto mentre venivano scattate decine di fotografie con il cono gelato italiano. Poi il gelato sciolto veniva leccato con mosse maldestre, finito come un compito, nessuno sembrava gustarne il sapore.»

La Cina sarà perciò l’unico spazio ancora in grado di calamitare Gloria e Marco al suo seguito, attraverso un passato da indagare. Eppure anche la Cina si mostrerà attraverso le false esistenze di Macao, i suoi casinò, l’imitazione senza contenuto dei quartieri francesi o veneziani di Hong Kong rimarcando come anche lì, per loro, non ci sia uno spazio di riconoscimento. Così, se in un primo momento il Paese asiatico appare come «il transatlantico su cui noi naufraghi europei puntiamo le scialuppe», sarà presto chiaro che quel benessere si dà in un’esistenza di controllo:

«È vero, tutto funziona. Siamo liberi di muoverci per le strade perfettamente pulite, fintanto che il credito sociale temporaneo non scende sotto un certo parametro, e siamo continuamente monitorati. Le telecamere sono appese in ogni angolo di strada, negozio, ufficio, ristorante, finanche nei cessi pubblici […] per controllare che non ci siano problemi»

Il futuro cinese si costruisce lavando via le macchie del passato, dimenticandosi di Tienanmen e di quelle rivolte di cui ora nessuno può nemmeno più parlare: «Lavare via le tracce è necessario per prevenire il contagio di idee malsane e promuovere un futuro radioso».
Ed è proprio per questa dimensione chimerica del futuro che, oltre i miraggi di un nuovo che viene continuamente mascherato e posticipato nello spazio e nel tempo, è il passato a giocare un ruolo decisivo nella narrazione. Quel tempo che tutti desiderano così ardentemente cancellare si scopre un collante geostorico, un elemento la cui salvaguardia è preziosa. Interrogando il passato Gloria e Liang legano il pubblico al privato, per riscoprire un’eredità che gli riveli quale ruolo possano ricoprire nel mondo, perché «la storia continua con i vivi».
Con uno stile accurato e profondo, una cadenza ritmica spesso simile al verso, un lessico puntuale e ricercato, scansando il pericolo di “occidentalizzare” l’intera narrazione, Pecere lega le due linee narrative in un intreccio efficace dove i tempi della narrazione si spostano continuamente tra passato e presente, tra ricordo e realtà, creando un’impalcatura complessa ma solida e delineando un mondo in cui, tra un Occidente inservibile e un’Oriente dove la dittatura non è mai cessata, l’esperienza del singolo, facendosi carico del passato, si rivela l’unica risorsa per l’accesso al futuro.


risorere-paolo-pecere-chiareletterePaolo Pecere, Risogere
Chiarelettere, 312 pp., 18€