Cercando su internet informazioni sulla presenza del fascismo nella produzione culturale degli ultimi anni, ci si imbatte spesso in materiale che rimanda al 2018. Un anno terribile, il cui clima provocò a novembre la reazione allarmata di Gustavo Zagrebelski sulle pagine di Repubblica:

… si discute sempre meno di Costituzione e sempre più di fascismo. È uno spostamento dell’attenzione da una forma giuridica (la Costituzione) a una sostanza politica (un regime). ‘Forza normativa del fatto’ dicono i giuristi quando il ‘fatto compiuto’, o che si sta compiendo, scalza il diritto o lo predispone alla resa.

Erano i mesi di Matteo Salvini Ministro dell’Interno. La comunicazione politica si nutriva di rancore e urla sui confini da difendere. Sembra un’era fa, ma per una manciata di settimane una parte di cittadini accolse benevolmente un’agenda politica aggrappata alla promessa che i confini degli italiani, insieme alle loro famiglie e alle loro tradizioni, fossero in pericolo, proprio mentre i giornali accumulavano notizie di raid neofascisti verso immigrati e omosessuali. Il termometro salì così tanto che, con i dovuti tempi di trasmissione del calore, scottò persino il mondo editoriale, con il caso del Salone del Libro di Torino, travolto nella primavera del 2019 dallo scandalo di una casa editrice neofascista silenziosamente approdata tra gli ospiti accreditati.

Oggi possiamo dire che tutto si esaurì in nulla. Salvini fece karakiri con la “crisi del Papeete” e a sinistra si invocò un’alleanza di governo proprio per evitare nuove elezioni senza prima aver bonificato la mente avvelenata degli italiani. Poco dopo sarebbe arrivata la pandemia  a rovesciare completamente il tavolo, rimescolando del tutto le carte: da un lato, devastando il nucleo ideologico di quel neofascismo, che oggi è ridotto al ruolo folcloristico di sobillatore dei NoMask; dall’altro, facendo sopravvivere quel dibattito in forma ben più annacquata, con l’allarme verso una  forma di fascismo non più ideologica ma istituzionale. Ci riferiamo qui alla preoccupazione di alcuni verso i presunti eccessi che l’Esecutivo, nel contesto emergenziale, si starebbe concedendo sul Legislativo.

Questo lungo excursus per contestualizzare le intuizioni di Scurati (Il figlio del secolo è del 2018, mentre L’uomo della provvidenza del 2020) in un periodo temporale in cui la produzione sul fascismo è stata travolta da grandi passioni, che hanno generato inevitabili sbornie valutative dalle quali, questo è il punto, possiamo iniziare a dire che Scurati ne sia uscito indenne. M ha infatti avuto il pregio, certo acrobatico, di essere necessario nel proprio tempo (il nostro) senza che tuttavia questo nostro tempo ne abbia condizionato le caratteristiche e le ragioni di esistenza.

Si è discusso molto del carattere storiografico del progetto scuratiano. Alcuni lo hanno difeso, evidenziandone il rigore documentaristico; altri lo hanno negato, non tanto misconoscendone la precisione storica (chi ci ha provato, come Galli della Loggia, ha dovuto aggrapparsi a dettagli oggettivamente irrilevanti), ma piuttosto denunciandone il suo asservimento alla fiction. Volendo qui prendere entrambe le provocazioni per vere, forse possiamo dire che se la scrittura di M merita comunque la qualifica di “storica”, ciò è grazie al suo carattere di anelito razionale alla comprensione del passato. Entrambe le opere scritte fin qui da Scurati sono infatti fermamente razionali e fermamente ancorate al passato. Passato che viene offerto al lettore in una dimensione integrale e autosufficiente, senza il ricatto di un’attualità che reclami attenzioni, ammiccamenti e colpettini di gomito che, in ultima analisi, sono vie con cui l’attualità manipola se stessa. Un merito tutt’altro che scontato se si considera che di quello stesso 2018 “nero” sono figlie altre produzioni culturali sul fascismo che in meno due anni sono state declassate da sforzo di usare il passato per fotografare il presente a inciampo ridicolo, se non intellettualmente colpevole. Un esempio è Sono tornato, il film di Luca Miniero che immaginò il ritorno del Duce nella Roma di quell’anno. Per qualche settimana ci era sembrata satira di costume. Oggi, a rivedere Massimo Popolizio che passeggia per Roma vestito da Benito Mussolini, attirando i passanti con trappole da candid camera e poi colpevolizzando la coscienza civile italiana per essere caduta in quella trappola, scatta un po’ di imbarazzo. Tuttavia va preso atto che, nell’anno in cui uscì il primo M di Scurati, era con questo tipo di ambiguità che spesso si raccontava il fascismo. Con operazioni moralistiche e farcite di  messaggi doppi, che  proclamavano di voler denunciare una mai morta fascinazione degli italiani per il Duce, salvo fustigarla solo dopo averla instillata (il film di Miniero venne lanciato sui social dichiarando che quel film sul ritorno di Benito Mussolini raccontava «il sogno di metà degli italiani»).

La razionalità di Scurati ha dunque il proprio fulcro operazionale nell’inattualità che caratterizza le due opere, ovvero in una ricostruzione dell’Italia fascista che è frutto dell’applicazione di categorie interpretative proprie dell’epoca raccontata e non dell’epoca che accoglie il racconto. Se poi il risultato ha da dire all’Italia di oggi è solo per la vecchia regola della scrittura secondo la quale più sei specifico nel raccontare qualcosa (più ne prendi sul serio dinamiche e motivazioni profonde), più quel qualcosa diventa concreto e universale. Prendiamo Il figlio del secolo, primo capitolo di M concentrato su quel fascismo che era ancora, per dirla con gli storici, «movimento senza regime». Qui la psicologia del personaggio (un personaggio collettivo, che solo a tratti può essere identificato con il solo Benito Mussolini) è costruita anzitutto sull’ossessione della Prima guerra mondiale:

Sotto il cielo delle tempeste d’acciaio, nel bel mezzo della morte anonima di massa, del massacro come prodotto industriale su vasta scala, loro avevano riportato l’individualità spinta ai confini estremi, il culto eroico dei guerrieri antichi e quello speciale terrore che solo sa darti l’accoltellatore (…) Benito Mussolini (…) li aveva reclutati subito, d’istinto (…) e loro si erano identificati in lui.

Inutile forzare la mano e cercare di dare a quei protofascisti le sembianze dei neofascisti di oggi. Quegli «accoltellatori» avevano facce stravolte, ancora abbagliate dalla tormenta allucinatoria della trincea. Avevano i corpi mutilati e furiosi che siamo abituati a vedere nel cliché hollywoodiano del reduce dal Vietnam: schizzato, reietto, mentre striscia nel reparto superalcolici di un discount.

E il tessuto sociale? Quale ambiente ha consentito a quell’ossessione di  incarnarsi in un corpo reale, in un personaggio collettivo che è poi diventato partito, stato, regime? Qui Scurati applica fino in fondo un’altra categoria del tutto inattuale: la presenza di un partito socialista forte, capace di rendere realistica l’idea di un’imminente rivoluzione proletaria, ad ogni ora annunciata e ad ogni ora rimandata, e così, di conseguenza, la categoria di una piccola borghesia che si ammala di terrore fino a farsi sedurre dalla bestia protofascista, pensando forse di domarne la violenza reietta a proprio vantaggio, ma facendosene infine travolgere nell’esplosione squadrista. Se consideriamo che, nel solo 1920, i socialisti furono in grado di smuovere ben 1880 scioperi, coinvolgendo quasi un milione e mezzo di proletari e che, di questi, 400mila accolsero l’ordine della Fiom di occupare le fabbriche per avviare il moto rivoluzionario, ci è chiaro che è impossibile adattare questa categoria storica all’attualità e che, applicandola fino in fondo, Scurati ha sganciato M da un legame, almeno diretto, con i giorni nostri. In effetti, la tesi dello squadrismo come “massimalismo dei ceti medi” stritolati tra la borghesia capitalistica e il proletariato bolscevico è tesi storica, circoscritta nell’Italia del primo dopoguerra. Tuttavia Scurati la racconta con tale autonomia di senso, con tale disinteresse all’attualità, da darle la consistenza di effetto reale sulla psicologia di un personaggio concreto. Quel personaggio che adesso è il ceto medio italiano, la cui faccia di colpo viene illuminata dalla scena e scopre le vere sembianze del mostro fascista, cresciuto, definito, divenuto adulto:

La platea che Mussolini si trova davanti al teatro Lirico (…) le facce non sono già più le stesse (…) si notano commercianti, impiegati statali, quadri dirigenti di basso livello, le giacchette dignitose e lise della piccola borghesia impoverita dall’inflazione galoppante.

Ecco che la storia si fa universale e parla anche al presente, ricordandoci che è l’esistenza di un ceto medio frustrato e rancoroso a fare la differenza tra l’incubo e la realtà. Se l’allucinazione iniziale era fantasia dei reietti, dei traumatizzati, degli accoltellatori da trincea o da Gomorra suburbana, è poi la disposizione dei commercianti e degli impiegati che, di quella allucinazione, determina la svaporazione o la condensazione in corpo sociale. Sono gli avvocati, i docenti e i funzionari di polizia che sanciscono la morte o la nascita del mostro. Tornando a quel 2018 “nero”, viene da chiedersi se non abbiamo preso una cantonata a sondare il polso del sottoproletariato urbano alla ricerca di pulsioni fasciste, e se forse non sia stata più cauta, ma più lucida, una linea di ricerca come quella del sociologo Arnaldo Bagnasco, che meno di due anni prima aveva indicato nel ceto medio, strizzato dalla polarizzazione economica, il vero “luogo sociale del rischio”.

Smascherato il vero protagonista di M, non possiamo che vederlo all’opera nel secondo capitolo della saga, L’uomo della provvidenza. Un capitolo che  (a questo punto risulta immaginabile), non può che essere più pianeggiante, ordinario. Medio, appunto. Ora il mostro fascista cresce, si fa gigante: ingoia Monarchia, Vaticano, comparti industriali… ma lo fa «con ritmo impiegatizio». Perché, in fondo, quelli che divorano la società  civile tra il ’25 e il ’32, impiegati sono. Tipi da romanzo borghese. Non più giovani furiosi, né tanto meno alcolisti di guerra, ma italiani medi infiacchiti e prossimi alla calvizie, che ogni giorno si abbandonano ad appetiti orgiastici con il fiato già inacidito dal reflusso gastrico. L’ex prefetto di Genova Arturo Bocchini, il giurista Alfredo Rocco o l’inetto rampollo Galeazzo Ciano. Sono esempi delle facce banali che hanno trasformato uno stato liberale (il cui primo partito, non dimentichiamolo, era quello socialista) in una protesi cucita sul corpo imbolsito del capo. Una protesi con cui restituire al capo la forza biologica:

Il diktat del Duce colpisce l’uditorio con la forza di un oggetto contundente. Sessanta milioni [di nascite] a metà Novecento significherebbero venti milioni in vent’anni. Il raddoppio della popolazione in un secolo (…). L’impero. Ecco la destinazione ultima. L’idea zoologica degli italiani…

Cosa c’è di attuale nel racconto di uno Stato che si fa totalitario? Poco. E nella sua degenerazione in delirio imperiale? Ancor meno. Anzi, proprio niente. Lo scorso giugno, su MicroMega, la storica Giovanna Procacci ha analizzato i poteri speciali assunti dall’Esecutivo di Conte nello stato d’emergenza pandemico, confrontandoli con quanto fatto dagli esecutivi durante la Prima guerra mondiale. Il risultato è decisamente tiepido e sa di monito storico che è bene tenere presente più per buonsenso che per minaccia reale. Ora potremmo dire che, se è vero che la storia può sempre ripetersi, è altrettanto vero che nei giorni delle autocertificazioni e del vaccino facoltativo è difficile immaginare una popolazione disposta a farsi dire dallo Stato quanto e come copulare per produrre le giuste quote di fanteria d’assalto. Tuttavia, ancora una volta, è proprio seguendo una pista inattuale, lastricata di categorie storiche, che Scurati si trova sul pezzo più che mai, consegnandoci un esempio di letteratura documentaristica sul colonialismo proprio nell’anno della rabbia verso le statue di Cristoforo Colombo, Leopoldo II e Indro Montanelli. Quelle sulla conquista della Libia sono pagine granitiche, di inflessibile indignazione. Parole dure, soppesate, assolute, frutto di una ruminazione lenta e documentata, che ci mostrano italiani medi mentre familiarizzano con la soluzione della deportazione e del campo di concentramento, con lo sterminio chimico a base di fosgene e iprite, con l’abuso di donne ritenute subumane. Che ciò provochi disgusto è segno che Scurati ha vinto una scommessa decisamente rischiosa. Rinunciando ai canoni estetici e civili dell’antifascismo consumato, o degli “instant pamphlet”, Scurati si è immerso nel racconto spregiudicato del fascismo dal di dentro e ne è riemerso con una nuova coscienza antifascista. Che poi è quella di sempre, ma che qui, almeno letterariamente, può dirsi rigenerata.