Coccioli: quello che alcuni dissero pari ad Albert Camus e Marcel Proust, uno degli autori favoriti di Brigitte Bardot, per stessa affermazione dell’attrice. Un Gide italiano, si legge sulla stampa in lingua francese, o anche autore apparso come un fulmine negli aneddoti di Alberto Arbasino nel libro di memorie Parigi o cara… (in cui Coccioli è «famoso in patria pari a un Guareschi, un Moravia»). O persino candidato in pectore al Nobel, secondo un giornale svizzero. Quello che mangiò solo insalata e due pomodori con il suo mentore Curzio Malaparte a Capri, e si lagnò di questo con gli altri invitati. E poi, Coccioli l’arancione che balla e canta l’Hare Krishna, Hare Krishna, Coccioli l’ebreo severo e intellettualizzato che studia la Cabala e che invia richieste d’aiuto al Muro del Pianto di Gerusalemme, Coccioli il buddista che non calpesta le formiche, che vorrebbe mettersi i sonagli ai piedi per avvertirle, e lascia aperte le finestre per i ragni, Coccioli il cattolico che bisbiglia al confessore il suo interesse per Satana, Coccioli che si avvicinò sia a Padre Pio sia a Sai Baba, e che infine si proclamò un Malāmatiyya: uno di quegli strani mistici musulmani che accettano di essere uomini criticabili, riprovevoli, in un certo senso gli “esagerati” dell’Islam.

Nel panorama italiano contemporaneo, Alessandro Raveggi si presenta come autore a 360 gradi. È infatti docente di Italian Studies presso la New York University, ha pubblicato il romanzo Nella vasca dei terribili piranha, racconti e sillogi poetiche, dirige la collana di narrativa straniera di LiberAria, ha fondato la rivista «The FLR» e collabora con diversi periodici. Grande Karma, edito da Bompiani, è la sua seconda prova nella narrativa lunga e ha sin da subito destato l’interesse della critica, fino a classificarsi al secondo posto nella sezione narrativa delle ormai seguitissime Classifiche di Qualità de L’Indiscreto.

Il racconto comincia nel 2013, anno in cui ricorre il decennale della morte di Carlo Coccioli. Si tratta di uno scrittore misconosciuto, con alle spalle una produzione narrativa sterminata che gli frutta moltissimi fan invasati fra gli scrittori ma incredibilmente nessun seguito fra gli accademici. Il professor Paolo Merendoni dell’Università di Firenze ha l’uomo giusto per indagare su quella pista apparentemente morta, il suo assistente Enrico Capponi. Sono tanti i ricercatori brillanti che potrebbero svolgere quel compito, ma Capponi si presta alla grande in quanto è ricco di famiglia, è borghese, incarna alla perfezione lo stereotipo ancora radicato dell’umanista che opera in maniera disinteressata, dell’intellettuale che può permettersi di essere tale perché non ha bisogno di lavorare per vivere. I suoi colleghi, ugualmente appassionati, non sono altro che dei poveracci immersi nel dramma del precariato, con assegni di ricerca e incarichi saltuari, il loro unico orizzonte è continuare a mangiare le briciole che il professore lascia cadere.

Enrico conosce a stento Coccioli, ha letto solo metà di un suo romanzo e lo ha velocemente abbandonato. Dunque nicchia, svicola, cerca di smarcarsi e di incanalare la ricerca su binari meno scomodi e più congeniali (suggerisce un approccio comparatistico con il più noto Pier Vittorio Tondelli), ma viene subito bloccato dal Merendoni, c’è un potenziale in Coccioli che merita di emergere, senza ingabbiare lo scrittore livornese in un paragone con altri autori. Fu un visionario, un precursore, un incompreso che forse persino oggi risulterebbe in anticipo sui tempi. Quel viaggio, apparentemente folle e irrazionale, giunge in un momento importante della sua vita, perché tutti, nella cerchia ristretta di familiari e amici, si aspettano che faccia un grande passo, un salto di qualità, e la stessa cosa si aspetta pure la sua Dina.

Dunque Capponi si getta nell’impresa animato da una sincera curiosità, parte alla volta di Città del Messico, l’approdo definitivo a cui Coccioli era giunto dopo Parigi e Canada. La capitale francese degli anni Cinquanta era stata l’occasione per tessere una rete di contatti, frequentare un clima intellettuale meno stantio di quello italiano, fare amicizia con Jean Cocteau e Coco Chanel, innamorarsi di Michel fino a decidere di inseguirlo oltreoceano, ma è in Centroamerica che lo scrittore aveva deciso di vivere per cinquant’anni, fino alla sua morte. Di Coccioli si dice che sia quasi venerato, ma anche in Messico le sue tracce, i segni del suo passaggio, non paiono facili da decifrare.

L’autore è uno e molteplice, di natura cangevole come una divinità multiforme. In gioventù aveva lavorato per Vallecchi ed era stato amico di Curzio Malaparte, ma dopo aver lasciato la penisola i legami con l’editore e il dibattito letterario italiano si erano quasi del tutto liquefatti. Partigiano negli anni della Resistenza, nel Dopoguerra si era dimostrato un vero conservatore, un antifascista che si era scoperto intimamente reazionario e anticomunista. Se il conservatorismo straripante di Coccioli e Malaparte, unito alla stima reciproca, aveva fatto da collante fra i due, altre ragioni li avevano fatti allontanare. Malaparte, infatti, ostentava insofferenza verso ecclesiastici e credenti, oltre che un’omofobia dilagante, mentre Coccioli aveva un’anima scissa, fatta a brani, perennemente contraddittoria, e in quanto omosessuale non poteva certo sopportare il machismo tossico di Malaparte. Sebbene fosse cattolicissimo, amava i giovinetti come avrebbe potuto fare nell’antica Grecia, o come faceva Pasolini più o meno negli stessi anni in Italia. Per le strade di Città del Messico cercava anime fragili, «ragazzi giovani, scampati dalla strada e dalle sue tossicità», proprio come faceva il poeta corsaro nelle borgate di Roma.

Era molto estasiato alla vista dei ragazzi giovani, scampati dalla strada e dalle sue tossicità […]. Era molto premuroso con loro. Gli ricordavano le sue frequentazioni nei gruppi di alcolisti anonimi della città.

L’aspetto di queste relazioni che sembra venire fuori dalle pagine del romanzo, tuttavia, è quello più candido, come se si volesse sottolineare la capacità di Coccioli di prendersi cura degli altri, di elevarli. Non avvicinava i giovani per mero interesse carnale, ma perché avvertiva il bisogno di nobilitare e salvare chi era allo sbando. Esempio perfetto di questa sua vocazione è Javier, prima suo giovane amante, poi amico, infine figlio adottivo grazie alla concessione del Presidente della Repubblica. Coccioli, anche per questa sua virtù, appare agli altri come una guida, un guru. La sua personalità era tracimante, la sua vis polemica gli causò non pochi problemi: era capace di cambi d’umore repentini che non gli resero facile il mantenimento di legami solidi nella comunità letteraria (per esempio, aveva prima mostrato apprezzamento per Octavio Paz, che poi definì «boss mafioso della letteratura latinoamericana», ma aveva anche descritto il mondo culturale italiano come dominato da «gente che vale cento mille volte meno di me, analfabeti, giornalistucoli, ometti come Pratolini»).

Enrico raccoglie tutte queste informazioni con avidità e interesse crescenti, ma giunge alla conclusione che si trova su un binario morto. La gran parte dei libri e delle cose che Coccioli possedeva prima di morire sono disperse, regalate ai fanatici devoti che da tutto il mondo le hanno richieste. Nessuna traccia dell’inedito romanzo – ammesso che sia mai realmente esistito – il cui ritrovamento aprirebbe mille possibilità. Dunque abbandona il vorticoso girovagare fra circoli, archivi e librerie antiquarie e prende un volo per Parigi. È l’ultima possibilità, si rivela il prodromo dell’ammissione del fallimento, non tanto perché abbia commesso degli errori, ma perché gli oggetti da indagare sono sfuggenti, eterei, inconsistenti. Realizza che la vera ricerca la sta facendo su sé stesso, e che forse va bene così.

Non hai cavato un ragno dal buco: pace! Ma ti sei goduto la ragnatela, non è vero?

Grande Karma è una ricerca storico-filologica travestita da romanzo e viceversa, e rivela dichiaratamente il contenuto in parte autobiografico, poiché Alessandro Raveggi negli anni passati si è realmente trasferito in Messico per studiare Coccioli. Questo stratagemma narrativo, ovvero immaginare di mettersi sulle tracce di uno scrittore evanescente, è particolare e allo stesso tempo ha dei modelli di riferimento con cui fare i conti, come Daniele Del Giudice, che ne Lo stadio di Wimbledon aveva scelto un io narrante che si dedicava all’approfondimento della figura del triestino Bobi Bazlen, uomo di cultura e amico di Svevo e Montale. La differenza, labile e allo stesso tempo evidente, risiede nel fatto che Bazlen fu letteralmente un autore che in vita non pubblicò mai nulla e che dunque esiste solo da postumo, mentre Coccioli è semplicemente ignoto al grande pubblico per la particolarità della sua opera, per la sua traiettoria eccentrica, per aver vissuto quasi interamente all’estero tenendosi fuori da giochi di potere e circoli di influenza, per aver trattato troppo presto temi che oggi sono al centro del dibattito culturale (omosessualità, ambientalismo e spiritualismo, per esempio), per il suo esser sempre stato alla ricerca non solo di un orizzonte ma pure di una lingua in cui esprimersi al meglio.

Coccioli non è Bazlen, anzi «forse il suo problema principale era il contrario (aver pubblicato troppo, aver detto troppo di sé, fino a schermarsi)», e il quesito che accompagna la ricerca è in un certo senso rovesciato rispetto al romanzo di Del Giudice, così il narratore non si chiede “perché non ha scritto nulla?” ma “perché nessuno ne parla?”. Enrico Capponi interroga molti a tal proposito, una volta arrivato in Messico: cosa pensa di Coccioli? qui si parla di Coccioli? lo si legge ancora? Le risposte contrastanti non aiutano a farsi un’idea, ma sono anzi la conferma della sua ineffabilità.

Il dibattito che oggi potrebbe sorgere su Coccioli dovrebbe necessariamente riguardare due prospettive opposte. Da un lato una rivalutazione lucida della sua figura, e dall’altro il tentativo di non dare un peso eccessivo in virtù di mutati scenari culturali e valoriali. Il paradosso è che potrebbe apparire più interessante come personaggio letterario che come scrittore, malgrado di certo non sia stato autore da poco. Sul suo peso specifico Capponi mostra delle riserve, e lo stesso Coccioli ironizza sulla sua fortuna critica in un’intervista concessa al Canal Once della televisione messicana, che Raveggi riporta tradotta.

… sì, in Italia si è parlato assai, e qualcuno ne sta parlando anche ora… del “caso Coccioli”: indifferenza in patria, o disdegno, o congiura del silenzio, e all’estero invece smaglianti successi. Non bisogna esagerare e tanto meno drammatizzare. Che nei miei confronti vi sia stata, ieri, certa malevolenza di alcuni manovratori del potere letterario, ciò è innegabile; ugualmente innegabile è, però, che grandi e onesti critici italiani mi hanno costantemente favorito con la loro attenzione.

Il romanziere aggiunge poi che riflettendoci è facile trovare le ragioni che possono spiegare la scarsa eco in patria: l’impazienza e l’irruenza della gioventù, i primi libri trascurati e approssimativi, una scarsa collocabilità nel clima letterario italiano («io penso troppo a Dio e all’anima»).

Ma cos’è il Grande Karma che dà il titolo all’ambizioso lavoro di Raveggi? È innanzitutto il Grande Romanzo Inedito di cui lo stesso Coccioli parla e di cui si favoleggia da sempre, sostenendo che fosse fra le sue carte quando morì. È il Graal di qualsiasi ricercatore che si metta sulle sue tracce, ma anche un modo di vivere, una filosofia dell’esistenza, la scelta di non aderire ad alcun canone, di non farsi imbrigliare da niente e nessuno e dichiarare la propria appartenenza solo alla fuga. Fugge costantemente Coccioli, fugge dalla sua patria (o dalle sue patrie), dai legami coi circoli e le “mafiette letterarie”, dalle lingue che usa a suo piacimento traducendo le sue stesse opere, dalle convinzioni religiose mai abbracciate del tutto nonostante l’aspetto da santone carismatico. Quindi il suo anticonformismo risiede nel fatto che la sua personalità mescida tante sfaccettature: religiosità onnipresente e traballante, sottoposta a palinodie e conversioni continue, e senza che sia in contraddizione con l’omosessualità vissuta in maniera sempre più totalizzante, molteplicità di interessi, reputazione non sempre ottima fra chi lo conobbe, una grande propensione a scherzare su di sé fin quasi a millantare. In tutto ciò, Città del Messico si staglia per quello che è, una Città-Mondo, un crogiolo sincretico, lo scenario perfetto per collocare queste spinte divergenti (cattolicesimo, paganesimo, spiritualismo orientale, riti sciamanici) che si alternano in una dialettica continua, e che Coccioli assorbe e rappresenta appieno.

Il Grande Karma è anche l’inquieto cercare di Capponi che culmina col suo ritorno in Italia, dove si ripresenta avvilito, ma con la consapevolezza che la sola strada è l’abbandono. È solo allora che Enrico diventa un personaggio a tutto tondo, quando il vortice della ricerca che lo ha coinvolto per tanto tempo lo assimila e lo rende un tutt’uno con Coccioli. La fuga, la sparizione, sembrano un’uscita di scena degna della sua ossessione, e così la sua vita si fa mimesi di quella dello scrittore. Frutto anche del potere ipnotico della scrittura di Coccioli, che si dice abbia talmente turbato alcune menti di giovani da portarli al suicidio o a cambiare radicalmente vita. Per Coccioli le angustie della vita intellettuale italiana, per Enrico l’opprimente vita familiare in Toscana con quell’imbarazzante carico di attese: anche i motivi scatenanti delle due fughe non sono dissimili.

Messe da parte le peripezie di Capponi durante il lungo viaggio, oltre agli incontri che costellano il resoconto – potrebbero risultare quasi dei meri riempitivi –, i capitoli più riusciti sono quelli dedicati all’indagine filologica, che si alternano sovente a porzioni più brevi in cui, con un mix calibratissimo di citazioni reali, frasi verosimili o totalmente inventate, sono ricreati alcuni possibili dialoghi. Su tutti, meritano un cenno quelli che Coccioli ha con Malaparte e Cocteau. La sensazione è che per corroborare il senso di spaesamento del giovane ricercatore, che è lo stesso spaesamento che avvertirà il lettore, vengano molto caricate di significato queste parti oniriche, quasi che l’ossessione di Enrico combinata con l’assunzione del mescal sia portatrice di un’estasi immaginifica, che consente di rievocare come dei flash alcuni scampoli della vita dell’autore toscano. La lettura del lavoro di Raveggi, in definitiva, può affascinare chi conosce già l’opera e la personalità di Coccioli, ma fa comodo soprattutto a chi le ignora, anche in previsione della pubblicazione per l’editore Lindau di diciassette suoi titoli nella collana che è stata denominata “Piccolo Karma” (sono già usciti, fra gli altri, L’erede di Montezuma, Il cielo e la terra, Uomini in fuga e Documento 127).


Alessandro Raveggi, Grande Karma. Vite di Carlo Coccioli, Milano, Bompiani, pp. 288, € 18.