William Cliff, al secolo André Imberechts, autore belga classe 1940, è tra i più riconosciuti poeti francofoni contemporanei, vincitore del Grand prix de poésie de l’Académie française (2007) e del Goncourt per la Poesia (2015), autore di libri di viaggio, memorie, testi teatrali e oltre quindici raccolte poetiche, pubblicate da Gallimard, La Table Ronde, Le Rocher. In Italia è da poco stata pubblicata la raccolta Materia chiusa (Elliot 2020), tradotta da Fabrizio Bajec.

Durante la celebre trasmissione televisiva Apostrophes, invitato a presentare la sua raccolta America dal conduttore Bernard Pivot, uno spettatore osservò che la poesia di Cliff ricordava quella di Baudelaire. Effettivamente, inoltrandosi tra i versi ruvidi e scabrosi delle sue opere e di questa raccolta, il primo riferimento che salta in mente è proprio quello del poeta francese. In Materia Chiusa ad esempio, i corpi, specialmente quelli maschili, si presentano in tutta la loro crudezza, dal sesso alla vecchiaia, dalla miseria sociale al degrado urbano, dalle immondizie nelle discariche sino alla ruggine sui rubinetti negli hotel, dalla miserevole infanzia alla crudeltà della guerra, permettendo così al poeta di recitare il disastro umano. «Passate in rassegna, analizzate tutto quello che è naturale, tutte le azioni e i desideri del puro uomo naturale, non troverete che orrori. Tutto ciò che è bello e nobile è il risultato della ragione e del calcolo» scriveva l’autore de Les fleurs du mal, facendone scaturire – similmente a Cliff – un’estetica del brutto, una rappresentazione del progressivo decadimento dell’anima, la predominanza della materia e dunque, il negativo che nel moderno diventa fascinoso.

Tuttavia, come sappiamo, Baudelaire non si limita a questo «disgusto per il reale», né tanto meno accetta l’accusa di realismo, la quale al contrario lo indispone poiché la sua poesia non riproduce bensì, come sostiene Hugo Friedrich, trasforma. E infatti la materia fatta di metropoli, asfalto, illuminazione artificiale, giornali, manifesti, elettricità, vapore; in realtà racchiude il mistero che guida la poesia, svelando stati interiori, istinti, immagini, la solitudine degli uomini, il vuoto del progresso.
Similmente questo processo di svelamento/trasformazione avviene per la Materia Chiusa di Cliff in cui la poesia – in parte – non è qualcosa di spirituale, di incorporeo, ma è materia che rimanda ad altra materia. Attenzione, non apertura, ma appunto scoperta di ciò che in ogni caso resta chiuso affinché possa conservare la propria potenza. Così nella poesia da cui la raccolta prende il titolo:

Perché questo strano titolo Materie Chiuse?
Perché essendo vere non sono aperte
così conservano la loro potenza innata
che non è alla portata delle teste pronte

a spiegare sempre ciò che non si può capire.
Oh Materie Chiuse della vita ricorrente,
eccovi esposte al lettore in queste pagine
in cui si vedrà senz’altro qualche mio viaggio

e le trepidazioni del mio corpo in terra.
Oh Materie Chiuse che prese dallo slancio
non smettete di interpellarci e io penso
che avete ancora molta strada da fare

per raccogliere in questi versi lo spero
le Materie Chiuse dell’Immensa Esistenza.

La raccolta comprende alcuni testi tratti da opere che dividono in sezioni il libro: Materie chiuse (2018), A nord di Mogador (2018), Amor perduto (2015); e di fatto proseguono un lavoro di traduzione cominciato con Poesie Scelte (Fermenti 2015) vincitore del “Premio di Poesia Città di Trento – Oltre le mura”, in cui Bajec compie un’opera di grande aderenza al testo francese, soprattutto sul fronte metrico, meno su quello delle rime. L’intenzione, infatti, come si sostiene nell’introduzione, è quella di far emergere l’incedere del poeta, il suo passo. La poesia di Cliff si contraddistingue per un uso quasi fondamentalista di versi alessandrini, ottonari, decasillabi, versi di quattordici piedi, sonetti, ballate, dizain (componimento di dieci versi decasillabici). In questa raccolta ci troviamo di fronte a sonetti, ballate, madrigali, laude, in cui, appunto, consiste la Materia Chiusa e dove Cliff è capace di alternare momenti di altissima lirica a componimenti assolutamente antilirici con uno stile prevalentemente narrativo, prosaico. Non troviamo infatti metafore, allegorie, l’oscurità degli accostamenti lessicali; al contrario – e in questo caso Cliff si distingue da Baudelaire e dai simbolisti – i versi si susseguono apertamente in modo logico e chiaro facendo emergere quel contrasto che permette, come ho detto, un processo di svelamento e dichiarazione.

La scrittura di Cliff ha a che fare con i grandi autori della tradizione, da François Villon a Maurice Scève, da Charles d’Orléans ad Apollinaire distinguendosi però, anche per una certa linea «realista» che fa riferimento ad un altro maestro: Gabriel Ferrater, il quale lo inviterà a partire dal basso, da ciò che si vede, allontanandosi dall’ineffabile e dalle metafore. Per questo Cliff incentra la sua poesia su temi quali l’omosessualità, i viaggi, le disavventure e le miserie umane attraverso cui si manifesta la vita stessa nei suoi aspetti più istintuali e animali.
Tuttavia in Materia Chiusa esiste un ulteriore disperazione di fondo, che è quella della morte, del cedimento dei corpi, a cui si procede attraverso un percorso autobiografico di lento disfacimento delle cose, del poeta stesso e del mondo.

Requiem per l’infanzia che già se n’è andata
requiem per l’innocenza che è stata persa,
requiem per Dio che sospira dietro la porta
e si domanda se è del tutto scomparso,

requiem per la mia voce che piange di notte
e che sarà inghiottita dalla realtà,
requiem per la mia croce che tanto mi nuoce
e che ho infine gettato alla mia età,

requiem per l’emozione che avevo cantando,
requiem per l’idea di credermi vivo
in un mondo che rovina le nostre credenze…

E malgrado tutto cantiamo il requiem con
il canto che Buxtehude cantava a Lubecca
sia pur tra gli orrori di un tempo sciagurato.

Ed è a questa caducità della vita terrena che si lega il requiem anche per Dio, in cui la speranza sembra essere stata bandita ad ogni verso e in cui il poeta raggiunge – qui sì – una dimensione puramente spirituale, ma lo fa attraverso un’immersione nella sostanza finale della Materia, nella sua essenza più grave. Lo smarrimento sembra essere la condizione finale che contraddistingue la poesia di Cliff (il poeta ricordiamo ha 80 anni), in cui l’uomo nella sua solitudine più oscura, sul volgere di un’epoca assurda che ha visto guerre fratricide, impoverimento e imbarbarimento diffuso, prosegue una ricerca continua di una luce amica. Nel libro questa direzione prosegue con le altre due sezioni: A nord di Mogador e Amor perduto, in cui si contraddistinguono le poesie Laudi, Malinconia, Bel pensiero del mattino.

Spesso durante la notte si alza e guarda
a lungo le tenebre che lo circondano
interrogandosi sul suo smarrimento
quando invece gli altri sono stesi e dormono,

perfino le piante ripiegate su se stesse
e anche i sassi che paiono assopirsi:
sono forse universali queste abitudini?
e il mondo intero deve per forza dormire?

Lui rimane a lungo sul retro in cucina
là dove la vista si perde tra le campagne
mentre sua moglie dorme come una radice
e rumina di notte senza il minimo cruccio:

lui controlla se i vicini accendono la luce
o se non rispettano il sonno che è dovuto.

Infine, questo smarrimento ha un valore anche sul piano puramente politico. Se in Homo sum (1973) Cliff cantava nella Ballata degli omosessuali: «Avanziamo, avanziamo nella notte nera | […] Voi marcirete in terra come noi. | […] Siamo noi il letame della società | noi che complottiamo in losche caverne | […] Quando l’età avrà scritto sui nostri volti | che non ci sarà più speranza […] | allora forti di un alcol a buon mercato | lasceremo i nostri vecchi corpi crollare | sotto il peso mostruoso di tanti duelli. | Borghesi, allerta, Borghesi»; nel finale di Materia Chiusa i versi sembrano risolversi sotto una grande fuga, verso una dimensione trascendente. Pare non esserci spazio neppure per le lotte, per qualcosa da conquistare, da mostrare provocatoriamente. Chi lanciava molotov contro gli «sbirri» – scrive in una poesia – si è infiammato egli stesso, troppo in fretta, intensamente, mentre qualcuno provava a spegnergli le fiamme addosso. Per questo Cliff passa a porre un’ultima questione, «la più importante», lasciandola però aperta e irrisolta, tirando in ballo direttamente L’Essere. Sembra soltanto suggerirci, affinché si possa riacquistare una tranquillità, una giustizia, lontani dai governi, dalla servitù del corpo, dal lavoro, dalla città, che bisognerà trovare un luogo in cui «rianimare la propria infanzia», nella stagione dell’inconsapevolezza e della creatività felice. Infatti, solo guardandoci indietro da quella ritrovata condizione potremo avere una «veduta della terra». Tuttavia non si tratta di un piano puramente spirituale, bensì – forse – di una sorta di materialismo mistico, una danza continua tra materia e spirito. Del resto ciò che scriveva Baudelaire a proposito del danzatore non è dissimile dal poeta, il quale «si è spezzato mille volte in segreto le ossa prima di presentarsi al pubblico».

La questione più importante è capire come
potremmo vivere senza questa bisaccia
che trasciniamo come fosse un governo
umiliante che di continuo ci minaccia:
questa servitù, questo nostro passa-tempo,
questa ricerca, questa strana illusione,
questa bellezza che può di tanto in tanto
esaltarci con un delirio assai raro
che allora ci fa nuotare, ci porta
fuori dal lavoro uccidendo la durata
e ci intossica in modo tale che
crediamo di avere una gloria dorata.
E poi ricadiamo nel più cupo grigiore
che dura molto e sempre ci attanaglia.

Ecco perché occorre lasciare la città
(che ci impone sempre di fare l’amore)
per ritrovare una veduta tranquilla
della terra che cambia giorno dopo giorno
e del lavoro che svolgiamo lì per
lottare contro gli arrivi pericolosi,
lo sporco che ci corrode e che mina
coi suoi danni tutti i nostri tentativi,
e poi se il sole lo ritiene opportuno
ce ne andremo camminando lungo un sentiero
dove la nostra infanzia troverà forse
un’occasione per rianimarsi,
a meno che non ci si ritrovi qui
(davanti all’ESSERE) del tutto ammirativi.

William Cliff, Materia chiusa
A cura di Fabrizio Bajec,
168 pp., 15€