La travagliata vicenda editoriale dell’opera poetica di Adriano Spatola (Šapjane, 1941 – Sant’Ilario d’Enza, 1988) sembra essere giunta a un punto di svolta oltremodo significativo con la pubblicazione, nell’agosto di un 2020 che difficilmente dimenticheremo, di Opera: il merito va a una casa editrice indipendente di Viareggio, [dia·foria, e al curatore Giovanni Fontana, cui si deve, tra le altre cose, l’ampia e documentata introduzione posta in apertura dell’importante volume (Guarda come il testo si serve del corpo, pp. 6-73, seguita da una Nota di Bianca Maria Bonazzi e un ricordo di Riccardo Spatola).

Opera si presenta come una quasi-opera omnia, facendo confluire per la prima volta in un unico libro tutte le raccolte di poesia “lineare” di Spatola, quasi tutti i testi pubblicati in rivista o in antologia e molti testi di poesia visiva e concreta, corredati da un CD-ROM attraverso il quale è possibile ascoltare diverse performances sonore allestite dal nostro. Va da sé che sin da un primo sguardo al volume, concepito nella sua materialità di oggetto-libro, chi si appresta alla lettura avrà modo di verificare in maniera tangibile il «peso» delle parole, e del poeta Spatola, e del curatore-poeta Fontana, che si pone nei confronti del primo in una posizione di dialogo aperto, ininterrotto, diremmo quasi amicale.

Nel suggerire un percorso di lettura assolutamente personale per questo libro, che è anche un’esperienza sin-estetica multilivello, mi pare curioso segnalare un altro elemento che troviamo sempre, con una certa sorpresa, alle «soglie» del testo. Il titolo dell’introduzione fiorisce, con il succedersi delle pagine, in altre propaggini di segmenti frastici in neretto, collocati a cadenza irregolare, che ne precisano in corso d’opera le intenzioni: «Guarda come il testo si serve del corpo… Oppure del tempo delle pietre e degli dei… Oppure del mito di Bab-Ilu… Oppure delle Malebolge e del parasurrealismo… Oppure di poesia da montare e rimontare… Oppure di scelte intermediali… Oppure di zeroglifici e di quaderni bianchi… Oppure della notte occhiuta… Oppure della maison poétique… Oppure di chiasmi e di algoritmi… Oppure di parole sui muri… Oppure della poesia totale… Oppure del tam tam… Oppure dell’acqua del Mulino… Majakovskiiiiiij… Majakovskiiiiiij…. Oppure di scritture in voce… Oppure del corpo e del gesto… Oppure dei rami del Baobab… Oppure». È attraverso questa affabulazione potente ma «onesta», con questa iterazione immaginifica (vi è forse celata la paronomasia «Opera»/«Oppure»), che ci si inoltra nella trama pluridimensionale intessuta dai testi spatoliani – una trama che si preannuncia, sin dalle premesse, deliberatamente incompiuta, sempre in fieri e sempre ancora «da montare».

La pubblicazione di Opera si prefigura infatti, sin d’ora, come un’operazione sociale e politica in senso forte: l’auspicio è quello che possa permettere a un numero sensibilmente più ampio di lettori di percorrere tutte le fasi di gestazione per accedere al «mondo» di Spatola, che sull’ampliamento dei confini della poesia, tanto sul piano della creazione quanto su quello della ricezione, aveva fondato, come avremo modo di osservare, gran parte della propria attività poetica e militante. Prima d’ora, da lettori “fedelissimi” e non, avevamo avuto modo di scoprire alcune porzioni di questo mondo grazie a un numero relativamente ristretto di iniziative virtuose: l’edizione americana The Position of Things con testo a fronte, tradotta da Paul Vangelisti e pubblicata nel 2008; un’edizione del 2012 addirittura non autorizzata, fuori commercio, intitolata Le poesie, curata dal misterioso pseudonimo Nicola Storch; le digitalizzazioni raccolte nell’Archivio Maurizio Spatola (archiviomauriziospatola.com) e presso il portale online della Fondazione Bonotto di Molvena (fonazionebonotto.org); infine, era possibile consultare gli archivi di poche biblioteche pubbliche come la Panizzi di Reggio Emilia. Una storia (editoriale) evidentemente «sbagliata», e dalla quale però la scelta di [dia·foria dimostra che è possibile «ripart[ire]… in tutte le direzioni», come leggiamo nel titolo del progetto presentato sulla pagina ufficiale legata al volume (https://www.facebook.com/versolapoesiatotale), Ripartiamo da Spatola. In tutte le direzioni, che contiene letture e interventi critici con contributi in formato video di poeti, artisti e critici.

Veniamo ora nel vivo dei testi, sulla scorta delle indicazioni fornite da Giovanni Fontana (o magari no: quali effetti di lettura produrrebbe la scelta di leggerle alla fine?). Appare autoevidente che il «mosaico» cui ci troviamo di fronte presenta una varietà di pezzi sensibilmente eterogenei tra loro. Nel 1961 un inquieto Spatola, dopo il passaggio da Giurisprudenza a Lettere e Filosofia a Bologna, conteso fra la stima dei Novissimi e la pseudo-paternità di Emilio Villa, decide di pubblicare a proprie spese la sua prima raccolta di poesie, Le pietre e gli dei (p. 81), presso l’editore Tamari. È piuttosto noto, e Fontana ce ne dà notizia attraverso un aneddoto personale del fratello Maurizio, che Adriano non amasse parlare della propria opera prima («una sorta di ritrosia a parlarne come di un’esperienza giovanile lontana e discosta dalla vita intrapresa in seguito», p. 63, nota n. 7). Ad ogni modo, nella fase aurorale della scrittura spatoliana, che potrebbe comprendere, oltre alla già citata raccolta, Altri versi d’ingresso (1961-1963) e i testi pubblicati su «Bab Ilu» (1962), impossibile non cogliere le suggestioni post-ermetiche, così come il moto oscillatorio di una tendenza orfica che balza di continuo fra la fede atavica in un «rito sacro, inciso sulle pietre | di città morte, in segni indecifrabili» (Le pietre e gli dei, p. 86), e il terrore di svelare, dietro l’enigma del disegno divino, «una sua legge vuota», estranea al flusso inarrestabile del tempo e, in definitiva, distante dall’umanissima «sorda incompiutezza di ogni passo» (ivi, p. 105).

Spatola pare insomma aver assorbito la lezione villiana («le pietre erano dèi» è il secondo verso della seconda delle Diciassette variazioni su temi proposti per una pura ideologia fonetica, del 1955) esacerbandone sul piano gnoseologico gli elementi dubitativi e paradossali. L’alta frequenza di lessemi naturalistici come «vento», «pioggia», «deserto», «albero», «montagne», potrebbe forse, in questo senso, ingannare l’interprete. Non a caso gli orfismi spatoliani si configurano a propria volta come duplici enigmi, del significato particolare e del senso complessivo, e pertanto l’atmosfera misticheggiante di questa «solitudine devota», fatta di cicli stagionali, potenze oscure, reliquie e montagne da scalare, è soggetta a una controspinta desublimante che la restituisce di volta in volta alla «terra»: «terra corrotta alla carezza | tra frammenti di legno e di mattoni» (p. 91), «tra il nascere e il morire della terra |esce dal nulla o dalla vita intera» (p. 105), «Una manciata di terra, questo ci avete donato» (p. 107), «Se le vele da tempo non sanno profumi di terra» (p. 108), «questa terra così densa d’umano» (p. 109), «dimenticato uomo su questa umana terra» (ibidem), «la terra così come voi la vedete» (p. 111), «così per compensazione qualche nume ci diede – di rodere la terra e di scavarla» (ibidem). Come segnala lo stesso Fontana, già con i testi di «Bab Ilu» e con i Tre testi di Vicolo Bolognetti gli elementi ermetici e vagamente crepuscolari saranno destinati a estinguersi rapidamente lasciando spazio al godimento visivo-sonoro del calembour, del ludus allitterativo, della glossolalia: entra in scena un qualcosa che prima era stato “soltanto” alluso, il corpo della lingua e la lingua del corpo, la materia grafica e fonica del linguaggio, l’inarrestabile anarchia dei significanti cui Spatola dedicherà tanta parte delle proprie sperimentazioni. Ecco che il testo incomincia a giocare con l’occhio – «sàlici sàlici (salirci…) | della materia, essendo magàri la stessa | sendolezza rigorosamente: tente» (p. 120) – e con l’orecchio (si veda il poemasùbito a p. 122). Poco più avanti, con il Reattivo per la vedova nera (pubblicato sul secondo numero di «Malebolge» nel 1964, ora a p. 129), assistiamo al montaggio “cinematografico” di segmenti frastici irrelati che vanno a comporre una serie di scene, una successione di frame accostabili a quelli del cinema espressionista e surrealista, anche per l’utilizzo della libera associazione a partire da paronomasie e omofonie estemporanee: «l’ora nuova che scocca    le unghie che saltano, turaccioli dello | champagne    e in campagna il tramonto le vele che fendono viola».

Qui, inoltre, i testi si presentano come delle pseudo-prose costellate da spazi bianchi – bianchi significanti o «interstizi da riempire», diremmo con l’Eco di Lector in fabula –, compare l’utilizzo del grassetto tipografico in funzione marcata e anche il primo “cameo” verbo-visivo: la dicitura «Poesia» separata dal corpo del testo con due frecce speculari che puntano alla «P» maiuscola formando la sagoma di un cerchio aperto. Rilievi di questo tipo inducono il lettore a pensare che già a quest’altezza del percorso tracciato dall’Opera spatoliana l’elaborazione di una poetica, intesa come teoria del «fare» poesia (e ricordiamo che Spatola fu allievo di Luciano Anceschi), proceda di pari passo con la costruzione di un’estetica, ovvero di una teoria generale della percezione che concepisca il fatto letterario come un’esperienza relativa alla totalità dei sensi. Un processo “evolutivo” di questo tipo emergerà via via con maggiore chiarezza a partire dal ‘65, anno nel quale si collocano i primi artefatti esplicitamente verbo-visivi, da leggere alla luce della dichiarazione da parte del poeta che tanto i segni verbali quanto quelli visivi avrebbero contribuito a testimoniare e diffondere «l’apporto rivoluzionario della poesia», il cui scopo sarà quello di «provocare nel lettore una inquietudine ideologica, e di mettere in crisi la geometria euclidea della sua visione del mondo», come scriveva ancora Spatola su «Malebolge» (2, 1964, p. 52, citato nell’introduzione a p. 16).

I Manifesti elaborati insieme a Beppe Landini (apparsi in Poesie visive. Giuliani, Spatola, Tola, Zivieri, a cura di Lamberto Pignotti, Bologna, Sampietro, 1965) presentano vignette fumettistiche corredate da testi dal carattere fortemente provocatorio, virando la denuncia politica e “civile” verso toni rivoluzionari, partecipati, necessariamente intransigenti (nel Manifesto per il Congo leggiamo: «Libertà è una parola da scrivere nero su bianco», oppure «Ma adesso basta, cacciatore bianco, assassino venuto dal cielo, parà»).

Con Poesia da montare, dello stesso anno, ci spostiamo nel territorio della poesia verbo-visiva vera e propria, dove «ciò che conta è la fatica cui il lettore soggiace (comporre e scomporre, nelle varie possibilità espressive, un numero x di schede)» intesa come «non soltanto un modo di intervenire attivamente nell’elaborazione del testo, ma, soprattutto, un modo di trovarsi nella condizione (assolutamente non augurabile) del poeta di oggi di fronte al linguaggio», stando alle parole di Spatola nella nota introduttiva al volume, che è composto da ventotto schede di poesia visuale da smontare e rimontare, riservando a ciascun lettore la scelta del proprio personale percorso di creazione verbale. Poesia da montare è un controllatissimo guazzabuglio di giganteschi caratteri tipografici in bold, morfemi, parole monche, ma anche scheletri di versificazione, relitti metrici o embrioni di una poesia possibile. Una tale richiesta di sforzo cognitivo e poietico implicherebbe, insomma, anche una disposizione alla totale fiducia nello stesso lettore, all’abbandono del testo all’alterità che vorrà accoglierlo, esaltando il carattere di contingenza radicale sotteso all’operazione creativa. Spatola precisa che tale scelta non dovrà essere interpretata come puro divertissement fine a sé stesso, e neppure come un tecnicissimo esercizio di stile, ma al contrario ribadisce, ancora una volta, il portato ideologico di questa architettura testuale proteiforme: un invito al lettore a entrare attivamente nel campo del testo, ad attraversarlo imprimendogli le proprie istanze e i propri orientamenti, quasi in senso proto-installativo. Una declinazione ben diversa, è chiaro, rispetto all’oggi abusatissimo paradigma dell’user-centred, rispetto al quale proprio la lettura di un autore come Spatola potrebbe riattivare una dialettica di responsabilità reciproche, divergenze e cooperazione fra chi crea e chi fruisce del testo.

La direzione verbo-visiva e concreta inaugurata con Poesia da montare proseguirà negli anni con numerosissime sperimentazioni ben attestate dal volume: a cominciare dai Testi concreti (1967-1973) che daranno origine ad alcune delle performances vocali spatoliane più celebri, come Variation/variateur o Seduction/seducteur, per procedere con Zeroglifico (1966), il cui nucleo compositivo sarà poi approfondito in seguito in Z di Zeroglifico (1981) e Recenti Zeroglifici (1985), senza tralasciare i Testi fonetici (1967), nei quali, lungo le sei colonne verticali che conferiscono una scansione identificativa alla pagina, si succedono fonemi plurilingui che sembrano aver neutralizzato qualunque connotazione semantica per assumere sul proprio corpo grafico tutto il dinamismo sonoro che l’esecutore vocale vi vorrà imporre. La parola giunge a farsi tangibilmente gesto, materia, corpo in movimento. D’altro canto, l’idea stessa di «zeroglifico», fondata su uno smembramento del carattere tipografico stesso fino a renderlo asemantico, conduce per Vincenzo Accame alla «costruzione del segno fuori della lingua» (V. Accame, Il segno poetico. Materiali e riferimenti per una storia della ricerca poetico-visuale e interdisciplinare, Zarathustra-Spirali, Milano, 1981, p. 86), mentre Mirella Bentivoglio, a proposito del legame profondo che si instaura fra segno, gesto e corpo, avrebbe parlato di «una cancellazione non per sovrapposizione grafica ma per destrutturazione e sfasamento», processo di «gestualità collagistica» che si connette a propria volta alla «grafia poetica manuale» (testo contenuto in Poesia visiva 3. “Poesia concreta”: Bentivoglio, Lora Totino, Sandri, Spatola, Studio Santandrea, Milano, 1977). Nel frattempo, sempre tra il ‘66 e il ‘67, stava incominciando a delinearsi a Torino il “progetto Geiger”, che vedrà la pubblicazione della prima antologia di poesia visiva nel 1967 e si trasformerà di lì a poco in una casa editrice vera e propria. Spatola, avvalendosi della collaborazione di altri poeti a lui affini come Giulia Niccolai, Corrado Costa e Giorgio Celli – la divisione «parasurrealista» del Gruppo 63 – e “occupando” il laboratorio tipografico del Mulino di Bazzano, trasformerà il proprio impegno militante in un’incredibile forza propulsiva che avrebbe condotto alla creazione di numerosi progetti collettivi intermediali. Ebbe infatti un ruolo fondamentale nella direzione artistica del festival Parole sui muri e in quella fucina di creazione intermediale che fu lo Studio di Musica Elettronica (SMET) di Torino fondato da Enore Zaffiri, insieme allo Studio di Informazione Estetica, dove stavano prendendo forma le ricerche verbo-visive di autori come Arrigo Lora Totino.

Sarà forse utile a questo punto ricordare la pubblicazione nel 1968 di un testo teorico che potrebbe essere integrato alla lettura di Opera, almeno per quanti volessero approfondire la fenomenologia della vocazione verbo-visiva nei testi di Adriano Spatola: ci riferiamo al libello Verso la poesia totale (I ed. Rumma, Salerno, 1968; II ed. Paravia, Torino, 1978), ampiamente considerato tuttora il manifesto della poesia visiva e concreta italiana. Dick Higgins in un articolo apparso su «Something Else Newsletter» (n. 1, 1966) aveva utilizzato il termine «intermedia» per indicare la fusione interdisciplinare e sinestetica tra forme espressive e mediali di tipo diverso, ponendo l’accento sull’intento da parte di progetti artistici contemporanei come Fluxus di opporsi alla medium specificity per testimoniare l’apertura verso una società senza classi. Procedure come l’utilizzo puramente visuale e asemantico delle lettere, così come la dissoluzione e la disseminazione delle unità verbali in concrezioni verbali e progressioni in serie come quelle di Max Bill, Eugene Gomringer o Emmett Williams, attiverebbero una serie di processi di erosione del significato lineare della catena verbale. Non pare casuale il costante riferimento alle teorie di Higgins da parte dello Spatola di Verso la poesia totale, così come la messa in evidenza di una «contraddizione strutturale» fra la libertà espressiva garantita da una comunicazione più fluida e l’applicazione standardizzata dei media nella società globale, il che avrebbe influito sull’impiego da parte degli artisti di forme visuali in quanto «tentativo di “riumanizzazione dei segni”, di “rivendicazione” dell’iconografia» (Spatola 1978, pp. 15-20). Negli intenti di Spatola il recupero dell’immediatezza iconica dell’immagine in poesia andava ricercato attraverso l’utilizzo congiunto di parole e immagini, in poster, patchwork, collage di varia natura (nella «poesia visiva» stricto sensu) o, in modo ancor più radicale, attraverso l’utilizzo delle parole come immagini, in configurazioni tipografiche e schemi computazionali all’interno dei quali la parola va incontro alla propria definitiva smaterializzazione e all’impossibilità di definire un senso attraverso i meccanismi consueti della significazione verbale (questo avviene nella «poesia concreta», ivi, p. 30).

Ebbene, confrontando l’elaborazione teorica con la verifica testuale che rinveniamo tra le pagine di Opera, avremo coscienza di quanto la pratica dell’intermedialità avesse assunto per Spatola la valenza di una lotta etica e conoscitiva, volta a liberare il linguaggio dalle mistificazioni operate dai poteri egemoni, ma anche a costruire, in positivo, l’utopia di un interlinguaggio sinestetico, comunicabile a tutti, una super-lingua a-gerarchica e trans-generica che con la forza dell’immaginazione, congiunta alla spinta poietica, si facesse protagonista di un mutamento globale. Sulle pagine di «Quindici» leggiamo, ancora: «Il pensiero dovrebbe diventare un bene collettivo, ed esistere, un giorno, come creazione collettiva pura» (n. 2, 1968).

Un’ulteriore questione che vorrei evidenziare a proposito di Opera riguarda le relazioni fra il progetto onnicomprensivo di «poesia totale» che abbiamo sin qui esplorato (seppure a grandi linee) e le raccolte cosiddette “lineari” di cui pure il volume dà conto in maniera esaustiva, e che rappresentano anzi uno dei suoi maggiori punti di forza, se si considera l’assoluta novità del ritrovarle tutte accorpate in un unico libro, coprendo un arco temporale di un trentennio circa. Ne L’ebreo negro (Scheiwiller, Milano, 1966, pp. 169-202), ad esempio, la cifra stilistica che identifica la scrittura lineare di Spatola sembrerebbe configurarsi come una forma particolarmente originale di “barocco sperimentale”: proliferano le immagini nel loro violento espressionismo (a partire dai primi tre versi del Catalogopoema: «tram batte nella notte occhiuta lingua trappola che scatta | in isola fagocitata deimon parola che si strappa | e kerosene e fiato (distillazione) e assenza brevettata», p. 170), captate dalla registrazione voyeuristica, spesso enfatica, di scenari apocalittici. Il verso prevalentemente lungo si snoda attraverso una trama di iterazioni e variazioni (frequentissimi i fenomeni allitterativi e paronomastici), i nessi sintattici tra un enunciato e l’altro vengono mantenuti ma l’ampia escursione lessicale e gli accostamenti inusuali, tipicamente onirici, di campi semantici, generano effetti a dir poco spiazzanti. Ci si trova immersi in uno spazio radicalmente a-topico, all’interno del quale oggetti e corpi sono sottoposti a una metamorfosi incessante, dalla potente carica figurativa («le unghie le radici le palpebre bruciate | corrose divorate logore distrutte in disfacimento», p. 171; «nel nucleo che si scinde | universi bruciati e ricreati – molteplici nell’uno del ripetersi (actus) | (energia) materia assunta alla città di dio | pòlio costante d’ogni protoplasma», p. 175; «i funghi gonfiati dal sole producono pus | perché dentro la pietra sono i suoi capelli | perché il mondo che si solleva si chiude a pugno | perché non risalgono più dal baratro giallo di sabbia | e il sole li gonfia li gonfia perché producano pus», p. 185). Il mito delle origini, che emerge in modo discontinuo dalle rovine di un tempo perduto, convive qui con l’impossibilità di ricondurre a un fondamento referenziale unitario le miriadi di percezioni dismorfiche del soggetto umano e degli enti che lo circondano: ogni tassello del mondo precipita nel magma e da lì risale in superficie sotto forma di frammento, coagulo effimero.

Sarà invece portata in primo piano la componente metaletteraria e metapoetica nel successivo Majakovskiiiiiiiij (Geiger, Torino, 1971, pp. 261-278), caratterizzato da un maggiore grado di impersonalità e da un ulteriore livellamento dei segmenti metrico-sintattici in una direzione per così dire minimale, con la progressiva abolizione dei nessi relativi e delle congiunzioni, che lasciano definitivamente spazio alle serie nominali costruite a partire da blocchi [sostantivo + aggettivo], delle vere e proprie unità proliferanti lungo la pagina che contribuiranno in modo significativo a innescare nel testo un preciso andamento ritmico di tipo associativo, drasticamente paratattico. Evidentissima l’impostazione metatestuale ne La composizione del testo, con riferimenti a «parole che parlano» (p. 263), oppure al testo che è «un oggetto vivente fornito di chiavi» (p. 264), insieme alle emblematiche, e in parte già citate, allocuzioni dirette al lettore, introdotte dall’anafora: «guarda come il testo si serve del corpo | guarda come l’opera è cosmica e biologica e logica | nelle voci notturne nelle aurorali esplosioni»; «guarda ma guarda come la negazione modifica il testo» (p. 263); «guarda come si tende e si gonfia sta per scoppiare»; «guarda a questo punto come il testo comincia a perdere i colpi» (p. 264); «ma guarda come la macchina mastica e schiuma e riscalda | la musica sale la mano corregge la luce si abbassa» (p. 265).

L’esposizione di questa fenomenologia della ricezione si accompagna a un’inedita concentrazione sinestetica ne La prossima malattia, dove troviamo la giustapposizione straniata di una pluralità di percezioni legate alle diverse sfere sensoriali: non soltanto la già onnipresente vista («la corruzione è questa speranza che ti leggi nell’occhio | sbarrato e smarrito nello specchio corroso del bagno», «lampi dentro la retina», p. 271), ma anche tatto («nel tessuto intricato delle ore», p. 271, «questo prurito che ti gratti si chiama primavera», p. 272), olfatto («l’odore del corpo bagnato è sinonimo di perversione»), udito («la segheria che ti urla nelle orecchie», «il frastuono sillabante dell’acqua dal rubinetto»), gusto («mangiate e smangiate dal tempo», p. 271, «adesso non vale la pena di tirar fuori la lingua», «becchettìo della stanza affamata digrignare di pioggia», p. 272, «digrassa la carne macellata la pietanza il microcosmo», p. 273), fino al magistrale fulmen in clausola: «la natura è stupida e buona la natura è cattiva».

Nei Diversi accorgimenti (Geiger, Rivalba, 1975, pp. 279-310) ritornano l’elemento metaletterario, principalmente modulato attorno al concetto di «descrizione» – senza escludere l’allusione ironica all’impossibilità di una mimesi “perfetta” – e l’esasperazione dell’ordine nominale, secondo uno schema che a partire da un enunciato principale (ad esempio «Un suono che corrisponde alla trama della distanza», p. 281) costruisce il periodo per progressive aggiunte di escrescenze grammaticali, poste quasi a mo’ di varianti rispetto alla frase di avvio («alla remota richiesta alla complice macchinazione | o al canone algebrico all’urto dei nuovi frammenti | un compito della sostanza nell’ordine della manovra», ibidem). Se nel Quaderno bianco l’attenzione è focalizzata sull’atto dello scrivere, in Un po’ di rigore, lungo un susseguirsi di ossimori («apertura» | «claustrofobica», «scarna sazia ed insana», p. 283) e di connessioni analogiche, si precisano i termini dell’estetica-poetica cui si faceva riferimento più sopra: Spatola in un testo dedicato a Giovanni D’Agostino menziona «lo spazio dal quale vediamo uscire la forma», dal momento che «La posizione in cui è stata sorpresa la mente | diventa la fantasia la proiezione di un mondo» (p. 286). Spazializzazione del testo e dell’atto creativo che lo ha generato, dunque, ma senza mai cedere a didascalismi o ideologismi né abbandonare la grande potenza evocativa di una parola ancorata alle «cose», non in quanto legata a procedure naturalistiche applicate a posteriori, ma perché materica essa stessa.

E tuttavia la sezione più sorprendente dei Diversi accorgimenti sarà forse quella intitolata L’abolizione della realtà, dove Spatola si cimenta nella pratica dell’ecfrasi ponendosi in dialogo con opere visive diacronicamente eterogenee, e nel farlo mostra un approccio all’interazione fra linguaggi visivi e linguaggi verbali che di certo non tradisce, semmai integra e precisa, quello adottato negli artefatti di poesia visiva e concreta. Richiamando il Pomeriggio domenicale all’isola della Grande Jatte (1884-85) di George Seurat (p. 291), Spatola, piuttosto che sulla «descrizione» in senso mimetico, preferisce soffermarsi sui rapporti di luce e ombra, di colore, sui contrasti, sulle ipotetiche reciprocità fenomeniche che guidano le relazioni fra gli oggetti presenti nel dipinto («La meraviglia il senso degli oggetti laccati | inchiavardati misurati truccati», «gorgo smagliato secco smaltato gongorismo»). Trattandosi già di una realtà di secondo grado – ci si sta riferendo a un quadro dipinto da altri e non a una scena colta “in presa diretta” – il poeta del Mulino rinuncia violentemente all’illusione di verosimiglianza provando a restituire gli effetti percettivi scaturiti dalla grana dei colori accostati l’uno all’altro, o dalla visione d’insieme veicolata dal supporto-tela, effetti che le tecniche compositive adottate da Seurat (maestro del puntinismo) provano a esaltare.

 Restituire un insieme di processi, la loro mutevolezza ed estrema relatività, l’inadeguatezza (l’inautenticità) di qualunque sguardo di fronte a una «realtà» mai del tutto oggettiva. Una prospettiva simile viene adottata anche quando l’opera in questione è un classico della pittura quattrocentesca fiamminga, in questo caso Ritratto di giovane donna di Petrus Christus (1450), dove la breve descrizione metaforica, in parte immaginaria, del quadro è racchiusa tra un primo e un ultimo verso che segnalano entrambi «lo strappo il cauterio sofisticato», probabile riferimento alla crettatura che ricopre la superficie del dipinto costellandola, per l’appunto, di «strappi», screpolature, fratture che increspano la tela.

 Se guardiamo infine agli scritti lineari degli anni Ottanta, La piegatura del foglio (Guida, Napoli, 1983, pp. 333-390) recupera una lingua più piana e una più immediata apertura al lettore-ascoltatore mediante il ricorso a un lessico maggiormente omogeneo, al verso breve metricamente riconoscibile, persino alle forme chiuse, orientate con ogni probabilità alla ripresa dell’elemento ludico, autoironico, scanzonato della poesia, trasmesso sempre attraverso la precisione di un gesto che scuote la materia grafico-fonica. Con La definizione del prezzo, pubblicata postuma (con disegni di Giuliano Della Casa, Tam Tam-Martello, Vicenza, 1992, pp. 403-456), Adriano Spatola ci lascia un piccolo testamento, anche in questo caso deliberatamente opaco, dove oltre a tutte le istanze che abbiamo incontrato in precedenza (inventiva verbale e immaginifica di marca surrealista, metatestualità, dialogo interartistico, gioco letterario) lo sguardo di chi scrive si volge al passato, quasi come tentando una ricostruzione genealogica del proprio percorso di artista totale, nel ricordo dei maestri e dei sodali che più di altri lo hanno influenzato, in una pluralità di sensi e di direzioni: leggiamo dediche a Luciano Anceschi, Tommaso Cascella, Hans Arp, Joan Brossa, citazioni da Nanni Balestrini e persino da D’Annunzio, riferimenti ad artisti visivi come Francesco Martani e Claudio Parmeggiani. Non mancano considerazioni gnomiche sulla poesia e sull’arte percorse da una venatura amara, forse nostalgica, come quando leggiamo «l’arte è quel vuoto che il bambino ha tradito | nascosto nel nulla che si lascia sporcare» (p. 441).

Opera si chiude poi con una breve sezione di Altri testi (1970-1990), un’appendice fotografica e una ricca bibliografia poetica, critica e «artistica» (si menzionano anche i principali cataloghi di mostre che hanno intercettato i lavori spatoliani). A conclusione di questo parziale attraversamento possiamo affermare che un libro come Opera è in grado di farsi attento portavoce degli sviluppi della poesia totale spatoliana, sia ricostruendone le evoluzioni diacroniche, sia suggerendo letture trasversali che possano rintracciare parallelismi, isotopie e, perché no, difformità, fra i due versanti certamente complementari dell’opera di Spatola, quello della poesia visiva e concreta e quello degli scritti lineari. Si potrebbe ipotizzare che, da una parte, la produzione visiva propriamente detta presenti in forma sintetica, radicale, “lampante”, gli approdi (sebbene provvisori) di un lungo cammino di sperimentazione, sul linguaggio e sui «sensi delle arti» (riprendendo un’espressione adottata da Lamberto Pignotti). Dall’altra parte, la poesia lineare esporrebbe la fase laboratoriale e trasformativa di tale percorso, fatta di prove, interferenze, tracce di reminiscenze, relitti di forme testuali preesistenti o soltanto abbozzate, alcune destinate a un successivo superamento, altre rivelatesi, al contrario, particolarmente fertili ai fini di un’elaborazione formale che fosse coerente con le coordinate teoriche tracciate dal loro stesso autore-esecutore.

 Osservando l’insieme degli interstizi materici e dei cortocircuiti semantici che vanno a costituire le architetture testuali ospitate in Opera – un macrotesto di macrotesti – verrebbe da pensare alla poesia di Adriano Spatola come a un immenso paesaggio sul cui suolo giacciono parole, suoni, immagini, partiture gestuali, embrioni formali che accorpandosi avrebbero dato origine a un’arte intrinsecamente intermediale. Opera sembra invitare il lettore a compiere un’operazione archeologica, nel senso di un’archeologia dell’intermedialità (muovendo dall’approccio proposto da Jussi Parikka in Archeologia dei media, Carocci, Roma, 2019): riconoscere i diversi frammenti attraverso «diversi accorgimenti» e poi metterli insieme in libertà, smontarli e rimontarli empiricamente, risalendo le stratificazioni di linguaggi, codici letterari e strumenti tecnologici che hanno condotto al progetto di un’arte dai confini più che mai porosi. Non è soltanto un gioco, ma forse è anche questo, se è vero che «il gioco è l’ultima speranza della poesia perché la poesia aspira a spezzare la ripetizione dei gesti comandati, e vuol farsi proposta di disgregazione della “routine” e del conformismo» (Oggetti parasurrealisti e puzzle-poems, 1965, nota n. 42). Come Spatola aspirava al gioco come momento rivoluzionario del linguaggio, così potrà aspirarvi il suo lettore presente e futuro.


Adriano Spatola, Opera, a cura di Giovanni Fontana, Viareggio, [dia·foria, 2020, 508 pp. con allegato cd audio, € 38.
Per richiedere il libro, [email protected].


Da La composizione del testo, in Majakovskiiiiiiij (1971):

1.

un aggettivo la respirazione la finestra aperta
l’esatta dimensione dell’innesto nel fruscio della pagina
oppure guarda come il testo si serve del corpo
guarda come l’opera è cosmica e biologica e logica
nelle voci notturne nelle aurorali esplosioni
nel gracidare graffiare piallare od accendere
qui sotto il cielo pastoso che impiastra le dita
parole che parlano

2.
si rivolge alla notte le grida di rallentare
dalla finestra o esistenza è il cerchio è lo spazio
è ritmico altalenare arpione che sfiora le labbra
gesti di bronzo camera oscura segno lasciato dall’acqua
incorniciata gelida faccia ipocrita polvere ipnosi
guarda ma guarda come la negazione modifica il testo
con parole possibili con parole impossibili

3.

ma il testo è un oggetto vivente fornito di chiavi
la cruda resezione il suo effetto l’incredibile osmosi
è questo il momento che aspetti comincia a tagliare
guarda come si tende e si gonfia sta per scoppiare
è l’immatura anaconda si morde la coda strisciando
odore della palude odore coniato da fiato di fango
un libro un quaderno una penna un desiderio indolore
senza parole

4.

e stancamente ora prende coscienza dei propri propositi
non è difficile fare prove diverse ricerche diverse
improbabili preparativi per un viaggio ormai certo
anche tu lasciati rendere sterile non spalancare la porta
intrattabile eczema la carne stellata le macerie il macello
nel testo tutto si accumula tutto si scioglie in vapore
ricordati è tardi ricordati è ora di andare di salutare
con poche precise innocue parole