Lo scultore Constantin Brancusi accetta che Man Ray lo ritragga fotograficamente a condizione che l’immagine venga prelevata da fotogrammi di un film: «girai alcune centinaia di metri di pellicola mentre si muoveva nella stanza, poi la proiettai lentamente e lui mi indicò il fotogramma prescelto», racconta Man Ray nella sua autobiografia. Brancusi posiziona la fotocamera nel suo atelier e scatta una foto. Poi sposta o sostituisce una scultura e scatta un’altra foto dalla stessa posizione. L’artista modifica la percezione dello spazio attraverso il tempo che separa uno scatto fotografico dall’altro: il tempo che scorre lentamente nella proiezione di Man Ray e quello che intercorre fra uno scatto e l’altro.

Nella prima edizione di Pittura fotografia (1925) Làszlò Moholy-Nagy teorizza ben otto nuovi tipi di visione fotografica, che si aggiungono al nostro modo abituale di vedere. Ancor prima, dagli anni dell’Impressionismo, era ben chiaro che non si sarebbe più potuto dipingere senza incorporare nel gesto pittorico lo sguardo fotografico, gesto che ora incorpora una infinità di altri sguardi. Con formidabile anticipo sui tempi Moholy-Nagy scrive nel 1929: «la sovrapposizione di due negativi fotografici mostra, per effetto di illusione ottica, una compenetrazione dello spazio che la prossima generazione vedrà concretamente nell’architettura in vetro». L’idea che l’architettura in vetro sia una materializzazione di una visione fotografica e cinematografica della città ritorna sorprendentemente a distanza di molti anni dalla teoria di Moholy-Nagy nel film Play Time di Jacques Tati, che progetta e realizza un quartiere di palazzi in vetro per girare un film nel quale le superfici specchianti e trasparenti si alternano e sovrappongono con il risultato di produrre il disorientamento dimensionale di cui resta vittima Monsieur Hulot. Nel film, Tati mette in scena la tragicomica vicenda di Monsieur Hulot che non riesce a far proprio questo sguardo, che è appunto lo sguardo moderno. Perso negli antri e nei corridoi di enigmatiche architetture in vetro, non distingue la posizione delle immagini riflesse da quella delle immagini viste in trasparenza, non distingue tra ciò che accade sulla superficie bidimensionale del vetro da quello che accade nei corpi tridimensionali delle architetture, restando intrappolato in una dimensione che non comprende e perciò rifiuta. In queste dimensioni è incorporata anche la quarta, il tempo, dilatato da lunghe e inconcludenti attese o contratto in brevissimi istanti che non “lasciano il tempo”. Quello “oltrefotografico” sarà uno sguardo che incorpora altri sguardi e nel quale il controllo del tempo, che insieme a quello dello spazio e della luce caratterizza la fotografia, sarà esercitato in un nuovo modo? Partendo da queste suggestioni abbiamo incontrato Aurelio Andrighetto per indagare alcune questioni legate ai tentativi di spingere ancora oltre le possibilità del medium fotografico.


 

Riusciremo a visualizzare la materia oscura, non evidente attraverso le attuali tecniche di produzione visiva basate sull’utilizzo della luce? La scrittura di luce (photo-graphia) del futuro avrà ulteriori utilizzi e applicazioni?

La tua domanda capita a proposito. Quarant’anni fa la storica dell’arte Paola Mola ha scattato alcune foto alle lastre sepolcrali in Saint-Denis a Parigi, che ha poi fotocopiato e successivamente sepolto sotto una pila di libri, a casa sua. L’immagine è stata “diseppellita” pochi giorni fa. È un’immagine enigmatica. La luce che lavora anche nell’oscurità, i raggi cosmici o chissà che altro hanno generato una nuova immagine, indecifrabile, carica di mistero e potenza. È un’immagine che non è stata prodotta dall’uomo ma dal tempo. Nell’arco di quarant’anni una forza si è propagata nell’oscurità della tomba di carta, addensandosi su pochi centimetri quadrati di foglio: una sorta di disegno fotogenico generato – mi piace pensare – dalla radiazione residua proveniente dalle fasi iniziali della nascita dell’universo, non dalla luce del sole o della lampada di un ingranditore fotografico. Mi affascina l’idea di un’immagine prodotta non da un “inconscio ottico”, o da una particolare tecnica fotografica e tantomeno da uno sguardo, ma da un seppellimento, che delega la creazione dell’immagine a un tempo, la cui durata confina con quella della nostra esistenza, o la supera.

Melvin Moti, E.S.P. (K.O. Mortel), 2007

Melvin Moti, E.S.P. (K.O. Mortel), 2007

Mi pare che tu faccia riferimento a “qualcosa” che non sia quello delle interruzioni momentanee degli scatti fotografici, al controllo dello spazio, della luce e del tempo.

Sì, è così. Tempo fa mi “folgorò” l’opera E.S.P. (K.O. Mortel) presentata da Melvin Moti alla 5th Berlin Biennal. L’artista è interessato ai fenomeni psichici che mettono in discussione l’ordinaria rappresentazione del tempo, come il

sogno premonitore del pugile Sugar Ray Robinson, con il quale vide in anticipo il K.O. letale che inflisse al suo avversario Jimmy Doyle. La fotografia “istantanea” E.S.P. (K.O. Mortel) fissa il momento in cui Doyle cade colpito dal pugno di Robinson nella luce di un flash. Il flash è al tempo stesso quello del cronista che ha scattato la fotografia e quello con il quale appare l’immagine nel sogno di Robinson, un lampo di luce istantaneo nel quale presente, passato e futuro sono tutt’uno. Ebbene, questa fotografia non è una fotografia: è il lampo che attraversa la mente di Robinson e al tempo stesso illumina il ring. L’opera di Moti sembra essere in linea con la domanda che hai formulato nel libro Metafotografia. Dentro e oltre il medium nell’arte contemporanea (Skinnerboox 2019): «come mai ci ricordiamo solo momenti che ci sono accaduti in passato e non quelli che vivremo nel futuro?».

La visione può precorrere la produzione dell’immagine attraverso i media così come l’immagine fotografica agisce sulla visione? C’è differenza se un’immagine è stata sognata, o pensata, o vista in un dipinto o colta nella vita di tutti i giorni? Cosa cambia se guardiamo un gesto nella realtà, se lo vediamo in un’opera d’arte, in uno spot pubblicitario, in un film, o udiamo un racconto dove il cenno è compiuto?

È difficile rispondere alla tua domanda. Seguendo la traccia degli studi di Jacques Derrida sulla «scrittura originaria», che sta al fondo di ogni linguaggio e di ogni scrittura comunemente intesi, Maurizio Ferraris sostiene che i gesti codificati appartengono a un sistema di scrittura indipendente dal linguaggio, definito con il termine “archiscrittura”, che comprende tutto ciò che ha a che fare con l’iscrizione, la traccia, la registrazione e l’iterazione del gesto (Maurizio Ferraris, Scrittura, archiscrittura, pensiero, in Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce). Il gesto ripetuto o riprodotto è già in partenza esso stesso un segno codificato, come quello rituale del seppellimento eseguito da Mola.

A proposito della fotocopia seppellita, pensi che la messa in atto di questo rituale possa aver influito sull’esito finale dell’immagine, al di là dell’azione del tempo e della luce, del contatto con altre materie cartacee e inchiostri?

Il seppellimento eseguito da Mola è un atto rituale che accoglie in sé il tempo, nel corso del quale la materia si è modificata generando un’immagine. Il tempo agisce sull’immagine anche in un altro modo. Ritrovando un’immagine fotografica dopo quarant’anni, anche se intatta, non la vedremmo più come prima, perché nel frattempo saremmo stati noi a cambiare. Sarà così anche per le immagini seppellite e dimenticate negli archivi digitali. Quando le ritroveremo? Tornando al foglio di Mola, mi affascina l’idea che l’immagine non sia stata realizzata da uno strumento ottico, ma da una cerimonia, che – forse – ci mette in rapporto con una singolarità, posta all’inizio del tempo, o con qualcos’altro, che ci supera e che per questa ragione è sacro.

Vuoi dire che c’è del sacro in questo foglio di carta?

In uno dei suoi studi, Scultura e antiscultura alle origini del Novecento, Mola ha affrontato il tema della scultura intesa come mezzo che segna il luogo del sacro. Nell’età moderna la scultura si emancipa dal luogo e diventa mobile, come i gruppi mobili di Brancusi. E allora Mola immagina una scultura del futuro che supera il luogo, portando il sacro dentro di sé. Una scultura mobile e anche “leggera”. Brancusi. Indicazione sull’opera leggera è un suo libro del 2003, che ha ispirato la mostra Light Sculpture – Scultura leggera curata nel 2005 da Simone Menegoi, riferita a un’idea allargata di scultura contemporanea, declinata sotto forma di video o di fotografia, nell’uso di materiali effimeri o del suono. La scultura contemporanea, infatti, non solo non ha un luogo ma neppure una forma definitiva: è il risultato di una serie di trasferimenti, il primo dei quali dalla scultura alla fotografia. Mola ha dedicato a questo tema un libro dal titolo Trasferimenti (diventato poi un saggio pubblicato nel catalogo della mostra Raum: Orte der Kunst organizzata a Berlino) e nel 2007 ha curato la mostra Rosso. La forma instabile, alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia. Nel caso del rito di seppellimento, il trasferimento è dalla scultura (i monumenti funebri a Saint-Denis) alla fotografia e dalla fotografia alla fotocopia “stampata” da una qualche forza che, come dicevo, immagino essere il rumore di fondo, la radiazione che proviene dalla singolarità posta all’inizio del tempo. Questa singolarità, o chissà quale altra forza che sfugge al nostro controllo, è ciò che rende monumentale la fotocopia quanto le tombe a Saint-Denis.

In un’epoca in cui la tecnologia ha moltiplicato i modi di raffigurazione, di fluidificazione e di diffusione dell’immagine fotografica il suo seppellimento ha anche un valore critico?

Sì, il seppellimento dell’immagine è anche un gesto di pietà nei confronti dell’immagine fotografica, con il quale la si sottrae al consumo, al suo immediato utilizzo, nel contesto di un suo sproporzionato dilagare. È un gesto necessario se vogliamo prendere le distanze dalla Postfotografia, da quella che Joan Fontcuberta chiama «furia delle immagini».

La metafotografia è infatti un tentativo di andare oltre non solo la mera estetica dell’istante privilegiato, ma anche oltre la furia delle immagini che già esistono, scattate, prodotte, trovate, accumulate, ritagliate, classificate, archiviate. Un tentativo di andare oltre con lo scopo di esplorare ciò che non è ancora rivelato e perciò è ancora oscuro, come il luogo dove è stato conservato il foglio per quarant’anni. Questo foglio potrebbe essere considerato un caso di metafotografia? In quale dimensione ci porterà invece l’oltrefotografia?

Nell’ipotesi che questo foglio possa essere considerato un documento dell’oltrefotografia, di un’immagine realizzata attraverso il seppellimento anziché attraverso una tecnica photo-graphica, non posso fare a meno di ricordare che il seppellimento in quanto rito è anche misura, gesto esatto. L’immagine generata da questi trasferimenti è perciò esatta, quanto è enigmatica e misteriosa. La sua precisione è quella del lampo che illumina la mente del pugile e al tempo stesso anche il ring.


 

Aurelio Andrighetto ha pubblicato interventi d’artista, brevi saggi, narrazioni e articoli in riviste e quotidiani (Arca, Boîte, Doppiozero, Ipso Facto, Nuova Prosa, Riga, Il Verri, Il Riformista), eBook e volumi (Apeiron, Bacacay, Contemporanei, Doppiozero, Graphos, Mondadori). Ha esposto le sue opere e presentato le sue teorie sullo sguardo presso musei (Great North Museum: Hancock, Gamec, Gasc, Hdlu, Man, Mart, Mlac, Revoltella), festival (Fotografia Europea, International Theatre Festival, Mystfest), fondazioni, centri di ricerca e gallerie tra le quali Baco, Continua, E/static, Franco Soffiantino, Milano, Mudima, Neon. Curatore di mostre e progetti sullo scambio tra codici e linguaggi nelle culture e sub-culture del contemporaneo. Cofondatore di Warburghiana ha contribuito alla realizzazione dei suoi format sperimentali.


In copertina: Medardo Rosso, g10, 1908-1909, aristotipo.