Per la rubrica #botta&risposta Davide Castiglione dialoga con Christian Sinicco, autore di Alter (Vydia editore, 2019).


Caro Christian,

oggi sono finalmente riuscito a leggere il tuo Alter. Vorrei condividere alcune riflessioni in merito al tipo di operazione che intravedo, nonché agli esiti stessi del processo scrittorio.

Sin dal titolo, tematizzi l’altro, l’alterità, benché “alter” si carichi, nel corso del libro, di connotazioni più afferenti all’“alterazione”, cioè al mutamento indotto. Capostipiti di questa vena sono forse il Lucrezio del De rerum natura e l’Ovidio delle Metamorfosi («il disco vi stazionò luccicante | di reazioni a catena, e come pericolo | si tramutò in corno», p. 18; sottolineatura mia). Persegui, in sostanza, una poesia cosmico-creaturale, non senza accenti biblici, che cerchi di tenere insieme lirismo della sensazione non-mediata e lessico tecnologico, come filiazione del post-umano (per es. nell’enfasi data alle macchine, ai codici, ai modelli, nella seconda sezione). L’abbondanza delle immagini e lo spazio dato alla sensibilità cinestetica («sento le labbra, e tutto il pensiero | è un bacio», p. 45) sembrano costituire tendenze regressive, come di un anelito alle “origini” (al preverbale del linguaggio, come specifichi nella nota finale) che però passi prima dalla fine del mondo come lo conosciamo.

Il libro prende avvio da una testimonianza oculare ad ampio raggio, con quel “vidi” drammaticamente isolato a inizio testo; il passato remoto pone il lettore già nell’alveo del racconto mitico, dell’accadimento eccezionale, della rivelazione che cancella la storia, la diacronia. La stessa “Città”, mai meglio identificata (e che più avanti si specifica come “metropoli”) è uno degli archetipi biblici (insieme al Giardino e al Tempio) esplorati da Northrop Frye e pervasivi nella letteratura occidentale, specialmente nella sua fase mitica. A me pare quindi un indizio ulteriore di un’avversione nei confronti del particolare e del contingente, del minimalismo e della cronaca: il mitico è recuperato in senso almeno indirettamente anti-umanistico. L’ambizione, dichiarata nella nota conclusiva («ho distrutto la civiltà umana con la poesia») si nutre tuttavia, come scrive Alfano nella prefazione, di una «forte presenza dell’immaginario fantascientifico, di una fantascienza nutrita di fumetti, cinema, musica elettronica» (p. 9). Quando leggo, per esempio, di «palazzi con profonde spaccature, invasi d’edera» (p. 24) non posso che riattivare questo immaginario già esperito nella semiosfera, in qualche film o fumetto (o romanzo di Ballard, come The Drowned World). Giusto che la poesia dialoghi con forme e media altri, tuttavia mi chiedo se il rischio non sia quello – paradossale, vista la tensione al futuro che innerva l’intenzione del progetto – di riproporre l’esistente (l’immaginario fantascientifico, il poema creaturale) assumendolo come un dato di fatto della propria ispirazione/inclinazione piuttosto che come possibile soluzione a un’intenzione etica e artistica. Questo, beninteso, al netto di un indubbio mestiere e padronanza tecnica, visibili nel disporsi tipografico dei versi a cascata, attraversati da suadenti parallelismi e da un verso che si contrae e si espande organicamente, sprigionando molta energia e rivelando molta attenzione alla tessitura ritmico-fonica (si prendano a esempio questi due versi, di ascendenza espressionista per la quantità di sdrucciole a imprimere un andamento dattilico: «vorticano tentacoli che erodono il cemento | meditano piramidi e il triclinio tra gli alberi», p. 21).

Una perplessità ulteriore, nella prima parte (Città esplosa), concerne l’accatastamento caleidoscopico di immagini. Prese singolarmente, sono spesso di grande efficacia e di elegante tessitura («sulla notte che cade come un’arpa rossa | sul pulviscolo acre rimbombano gli ottoni»); tutte insieme sembrano tuttavia annullarsi a vicenda per via del loro scorrere nello spazio di un verso e dei loro plurali generici, alla maniera surrealista, finendo quindi per mancare di sedimentarsi nella memoria di chi legge. Mi restano, insomma, il movimento e il ritmo più che una visione peculiare che s’imprima nell’inconscio, sebbene sia proprio la visione che dovrebbe sostenersi sulle immagini analogiche impiegate. È una domanda, la mia, che mi pongo sia al netto di una soluzione opposta perseguita da Bernardo De Luca in Misura, dove l’apocalisse è registrata senza sovrattoni cosmico-creaturali e senza l’ausilio di “visioni dall’alto” – secondo un modus più allegorico che simbolico – sia alla luce di alcuni miei recenti tentativi semi-surrealisti di trascrivere concerti elettronici in parole: per quanto talora riuscite, le immagini impedivano spesso ai testi uno sviluppo dianoetico, rischiando la pura dispersione se non intervenivano lacerti narrativi e massime sentenziose a variare il dettato.

In effetti, l’imperioso “io” profetico che campeggia a inizio testo (il “vidi” già commentato) svanisce già al terzo verso, per riemergere nuovamente in posture vitalistiche alcune decine di versi dopo («io | prima di lei | frantumo tutto | e genero», p. 16) per scomparire poi per molte pagine e riaffiorare in un fugacissimo “noi” (p. 25) dal referente probabilmente collettivo. Resta difficile seguire un filo e una vicenda che possano in qualche modo “formarlo”, ancorarlo a uno sguardo che rinunci più spesso alla propria tensione inglobante.

La seconda sezione, Alter, preannunciata dall’umanoide omonimo che si presenta un po’ prima, a p. 27 («sono l’ultimo della specie | ordinato dal centro di controllo | sarò l’ultimo con bioniche membra»), si gioca su testi più coagulati, dai confini più netti, con la distensione tonale e lo smorzamento cromatico che la post-apocalisse, il rinnovato stadio virginale, consentono. Rimane, a creare coesione, lo stesso pedale simbolico-archetipico («vogliamo essere un grembo | tra il prima e il dopo», p. 35; o «la lingua che fu la terra», p. 36) che talora sfocia in una sintesi identitaria fra l’io che parla e mondo. Tale sintesi sembra però darsi assoluta, senza momento dialettico («io sono sull’aria che muove | il suono e il nome come gli uomini e il cielo», p. 41). Più che dialettica, si ha piuttosto una pratica giustappositiva, come per esempio il testo a p. 37, dove il primo emistichio di ogni verso è anaforicamente ripetuto («e che le cause sarebbero deliziose») e il secondo indipendente, tanto che il testo si sviluppa interamente nella seconda colonna; oppure una giustapposizione tonale, fra intonazione elegiaca («eravamo il piacere infinito, | eravamo rive e orbite di luce») e biologico-informatica («siamo un incidente di nuclei e di sistemi | siamo una combinazione di cellule»). Insomma, leggo la giustapposizione come una sorta di fusione mancata.

Ci sono, indubbiamente, alcuni momenti memorabili in cui davvero sembra che il miracoloso innesto fra io lirico tradizionale e freddezza computazionale si avveri («io posso camminare e ho visto una fragola: | nei campi della produzione | ha i segni di una ferita», da [NOME: avvio alfabeto fuori]), ma mi paiono confinati ad alcuni momenti. Avverto, in sostanza, una discrepanza fra il disegno complessivo – la sua novità e audacia – e i modi testuali, debitori di un estetismo vitalistico che mi pare difficile non problematizzare. Oppure, forse, non tutti i lettori e non tutte le opere sono fra loro compatibili, realizzandosi quella che George Steiner chiama “difficoltà modale”, e cioè l’instaurarsi fra lettore e autore di una inconciliabilità epistemologica di fondo, di un’estraneità di premesse e di mire.

Mi piacerebbe sapere cosa pensi di queste osservazioni, per dare vita a uno scambio che possa, magari, farmi ricredere su alcuni di questi punti.

Davide Castiglione, Valenza, 2/01/2020


Caro Davide,

grazie per la lettura, che mi permette di spiegare alcuni riferimenti.
Innanzitutto quella sorta di progressione vitalistica potrebbe essere determinata dalla riflessione su Leaves of Grass di Whitman, e non dal D’Annunzio dell’Alcyone. Credo che Giancarlo Alfano abbia intuito la modalità – tra l’altro Alter potrebbe avere diversi ascendenti nella letteratura inglese e americana, da Kubla Khan di Samuel Coleridge, a Vision And Prayer di Dylan Thomas e Bomb di Gregory Corso. Peraltro non c’è alcun intento superomistico, che escluderei anche vista la riflessione di Alfano; e l’ampliamento della percettività, grazie al lavoro sulle sinestesie – dal punto di vista dell’assemblaggio vicino ad alcuni lavori di Andrea Zanzotto e di Antonio Porta –, è una conseguenza più della lettura dei saggi di Gregory Bateson sulla questione della Creatura, ciò che in natura, si accresce, apprende, si evolve, vive, nonché credo sia stata utile la lettura de Il gene egoista di Richard Dawkins sulla questione dell’intelligenza artificiale.
È molto importante ciò che scrivi alla fine, che si avvicina al mio tentativo, il recupero di un impatto della lingua da una parte orientativo dall’altro disorientante, e come tale, distorto, in qualche modo riconoscibile ma senza sicurezza («ciò che entra è smisurato, | ciò che cresce è appena nato, | hai solo assimilato la nuova muta») per via della progressione, come l’hai identificata. Un riferimento importante ulteriore può essere la serie Zeroglifico di Spatola, poesia concreta, trasportata in un’altra dimensione della scrittura.

Per quanto mi riguarda è un libro che potrebbe non essere terminato, come poteva non essere terminato Leaves of Grass: la prima parte mi ha segnalato lo spin off della seconda, e forse la seconda sta facendo la stessa cosa, ma su un altro piano, più sui fondamenti filosofici e psicologici.
È un libro che non mi sarei sognato di pubblicare, eppure così è accaduto. Non sono così sicuro, non sono sicuro di nulla, tranne che volevo andare molto oltre, oltre i compiti della poesia italiana di oggi, oltre i miei stessi compitini. Intendo proprio quella sorta di linearità e serialità a discapito dell’urgenza del linguaggio di uscire allo scoperto, che è fondamentale in questo libro.
Leggendo le altre mie plaquette Passando per New York (LietoColle 2005) ma pure la primissima parte di Ballate di Lagosta (CFR 2014; di prossima pubblicazione l’opera completa), puoi trovare una poetica beat o una narrazione mediata da necessità prosodiche e metriche. Tutte queste differenze sono frutto di una dilatazione del processo formativo della poesia, e possono spiegare come mai ho scritto le due parti di Alter, così divaricate, in diciassette anni, mentre in parallelo ero impegnato in altri progetti… Soprattutto per la ricerca all’interno delle possibilità del linguaggio, applicando il tempo utile alla riflessione.
Tuttavia questo approccio è laterale alle scritture contemporanee, che secondo me hanno rinunciato a combinare surrealismo, narrazione, lirismo, e altre esperienze singolari, forse perché mescolare le possibilità formative è terreno inesplorato e rischioso.

Queste poche poesie di Alter sono dunque la parte della mia produzione più sperimentale. Che siano di valore, non lo so.
I toni nella nota, in cui cerco di spiegare il mio tentativo, sono rivolti al tema della finzione e, dove ho distrutto la civiltà umana, sono chiaramente sarcastico, visto che in questo è più efficace l’uomo stesso, la specie umana, del poeta che scrive.
Da un lato c’è l’apocalisse, dall’altro la crescita creaturale del nuovo essere.

Ma non so se ho riproposto l’esistente di un immaginario fantascientifico: mi viene in mente un’immagine di un racconto di Ross Rocklynne, di un suono distruttore che ho trasportato in un corno, ma è la sola del genere. Piuttosto c’è un immaginario bucolico modellato da una caratterizzazione fantascientifica, come ben intuisci. Nella nota introduttiva Giancarlo Alfano cita la cultura di partenza, fantascientifica, della musica elettronica, e credo che siano le modalità combinatorie proprie di queste tendenze artistiche, più che l’immaginario tout court, a essere alla base di un processo di formazione dell’opera. L’immaginario è bucolico, virgiliano, in chiave surrealista naturalmente.

Hai rilevato una tendenza alla pienezza, e credo sia riferita ai testi meno visionari, ai flussi. Credo che lì ci sia più una questione di gusto personale, dato che nei finali c’è sempre un concetto che richiama la formatività, le teoresi e i paradossi sviluppati nei testi («forme creare dall’informe; prima di lei frantumo tutto; non spazio per la dimensione; esile e piccolo attimo del movimento; non c’è nessuno che pensi, non c’è il tempo», etc). Ci sono una serie di orientamenti concettuali nemmeno troppo nascosti nei finali che dovrebbero assolvere alla funzione di collegamento. Forse gli spostamenti che opero dalle immagini alle concettualizzazioni possono essere la chiave di lettura di molte parti dell’opera.

Il fatto che il lettore debba seguire un filo in poesia, per me non è così importante. Piuttosto credo che vada orientato (e disorientato). Ma ciò che potrebbe legare, dovrebbe anche slacciare. Per cui quello che tu scrivi citando George Steiner ha un fondamento, ma non ho letto Steiner, piuttosto il Thomas Pavel di Mondi d’invenzione e l’Ignacio Matte Blanco de L’inconscio come insiemi infiniti, che credo abbiano fornito delle idee sul piano della costruzione dell’opera.

Christian Sinicco, Trieste 2 gennaio 2020