Ci sono tanti modi per raccontare una vita. La si può seguire pedissequamente dall’inizio fino alla sua fine; se ne può cogliere un dettaglio laterale e insignificante o al contrario soffermarsi sui grandi momenti e sulle imprese più memorabili, oppure perché no concentrarsi soltanto sulla morte, quell’ultimo istante che per alcuni racchiude il senso di un’intera esistenza. Insomma, non c’è una ricetta univoca per narrare il dipanarsi di un’esistenza, ognuno sceglie di metterci gli ingredienti che più ama dandole la forma che preferisce.   Nel caso della Vita in ordine alfabetico (La Nave di Teseo 2021), l’ultimo libro di Ugo Cornia, l’autore ha optato per il racconto della sua autobiografia seguendo una delle convenzioni a noi più note, l’ordine alfabetico. La vita di Cornia fa l’occhiolino ai giochi combinatori perecchiani di Vita istruzioni per l’uso, ricorda l’ironia fantasiosa del Savinio di Nuova enciclopedia, ed è condita da quel sapore stralunato e paradossale tipico di Cavazzoni e Celati, veri e propri maestri per lo scrittore, con i quali si è formato pubblicando i suoi primi scritti sulla rivista «Il semplice», curata dai due autori emiliani.

In questo oggetto narrativo strambo e disorganico, emerge da parte di Cornia tanto il desiderio di dare un’immagine al vissuto («ho avuto questa idea di fare una specie di Dizionario ragionato della mia vita, anche per vedere quale mia vita ne sarebbe saltata fuori»), per eccellenza caotico e fluido, tanto la consapevolezza che ogni tentativo di definizione dell’esistenza è assolutamente vano. Infatti, nonostante in quest’opera dal furore enciclopedico ci sia una parvenza d’ordine, la logica interna tra una parola e l’altra è tutto tranne che coerente: così alla voce “Afta epizotica del maiale”, segue quella dedicata a Sant’Agostino, il lemma “Manara” (Milo, il fumettista) si trova accanto a “Medici di base” e così via perché nel libro di accoppiamenti bizzarri se ne possono trovare molteplici.  Un elenco – iniziato durante il periodo del lockdown, forse per fare ordine tra i pensieri – che procede per associazioni di idee e al cui interno si può trovare di tutto: dai ricordi, agli oggetti, alle persone, agli animali.

Cornia definisce, non a caso, la vita come una «cosa […]  che capita a tutti noi viventi». L’esistenza è descritta attraverso la parola più generica e comprensiva della lingua italiana ed è sottomessa a delle leggi casuali. L’evento imprevisto e fortuito regna in questo libro, non tanto, o meglio non solo, per dimostrare come l’essere umano sia in balia degli eventi quanto piuttosto con lo scopo di relativizzare, nel bene e nel male, gli episodi e le imprese del genere umano. Questa idea della vita emerge chiaramente nel divertente raccontino dedicato ai soldi e alla fortuna in cui l’autore sostiene di avere un rapporto con il denaro assolutamente casuale: quest’ultimo va e viene senza che le capacità e le facoltà dello scrittore abbiano veramente un’influenza o un merito al riguardo. In questo modo Cornia, attraverso i soldi, simbolo per eccellenza del potere e della sua vacuità, sminuisce il senso di onnipotenza dell’essere umano. Questa curiosa autobiografia, infatti, al contrario di quello che il genere scelto potrebbe far pensare, è tutto fuorché un testo che celebra l’io dell’autore. In quest’opera non traspare alcuna forma di solipsismo ma quello che ne viene fuori è il ritratto di un soggetto decentrato, per niente egotico e ingombrante, che guarda fuori da sé, con sincera curiosità, alla vita che gli si muove attorno. Il contesto raccontato da Cornia è quello della provincia emiliana – il libro è tutto ambientato tra Modena e la piccolissima frazione di Guzzano – molto lontano per certi versi dalla frenesia e dall’alienazione metropolitana, tuttavia chiunque può riconoscersi in questa realtà poiché l’autore ci riconnette a degli aspetti del nostro vivere, dimenticati, ma quasi ancestrali: il senso di comunità, la descrizione di alcune figure mitiche e quindi universali, o il rapporto, oggi più che mai bistrattato, con la natura.  La vita di Cornia, infatti, è popolata da piante ma soprattutto da animali, di tutte le specie: orsi, oranghi, cervi, bruchi, lupi, blatte – l’autobiografia non a caso si apre e si chiude con due voci dedicate a loro: maiali e zecche. Tra le bestiole più presenti nel libro ci sono sicuramente gli insetti, che tra le creature del mondo animale non sono certo quelle che suscitano maggiore interesse agli occhi degli esseri umani. Eppure lo scrittore sceglie di dare anche a loro, democraticamente, una voce. Non c’è retorica, né morale in questa sua scelta ma piuttosto la lucida consapevolezza che in questo universo ci siamo noi ma ci sono anche loro, sono presenze in cui possiamo potenzialmente incappare nella vita di tutti giorni, esattamente come capita con gli amici incontrati accidentalmente per strada. Vanno semplicemente viste. «Ma le vedi le cose, o hai la testa piena di merda per vederle le cose», una frase che il padre diceva spesso allo scrittore, e che suona per Cornia come un insegnamento. Da filosofo, la sua filosofia di vita sembra essere questa: vivere, vedendo. E farlo senza alcun pregiudizio verso ciò che si osserva ma con sincera e disinteressata curiosità.  Lo sguardo di Cornia è divertito e stupito come quello di un bambino, o al massimo di un adolescente scanzonato che ha le preoccupazioni e i turbamenti tipici di quell’età ma che poi se ne dimentica subito per andare a bere la birra con gli amici al bar, o per correre appresso a qualche amore del momento. C’è l’incanto e il gusto della scoperta tipici dell’età infantile nelle pagine di questo scrittore. L’infanzia, come la natura e gli animali, d’altronde è un tema ricorrente nella poetica di Cornia, che troviamo in altre sue opere come Favole da riformatorio (2019) o nel libro per ragazzi dal titolo Autobiografia della mia infanzia (2010).

 Al tempo stesso, però, fa da contraltare a questo sguardo infantile e incantato una certa distanza, tipica, invece, dell’età più avanzata, delle persone vecchie e sagge che guardano l’avvicinarsi della loro fine con una distaccata serenità. L’occhio di questo io autobiografico non è quello di un adulto – a dispetto di quanto potrebbe far pensare l’età anagrafica dell’autore, nato nel ’65 – ma piuttosto, potremmo dire, quello di un bambino-vecchio. Cornia, come loro, guarda al futuro, pensando di non avere nulla da perdere, o perché ha già perso tutto o perché ha ancora molto da trovare. Questo fa sì che nelle storielle di questo scrittore non ci sia mai veramente un tono drammatico, neanche quando effettivamente il racconto lo richiede come nel caso della narrazione della morte dei genitori di Cornia; evento tragico poiché l’autore perde entrambi nel giro di pochissimo tempo, rimanendo orfano relativamente giovane, a poco più di trent’anni. La morte non può non esserci in un libro che parla di vita e per un autore che ha eletto come suo maestro Thomas Bernhard, la cui frase «tutto è ridicolo se si pensa alla morte» rimbomba come un’eco in questo testo.  Eppure, nonostante la vita sia costellata di episodi più o meno dolorosi, l’autore passa attraverso la sofferenza velocemente. Perché arriva sempre qualcosa o qualcuno che finisce per distrarci e farci dimenticare anche lei, o perché se si guarda il dolore negli occhi, si rischia di cascarci dentro come in un buco – Buchi (Feltrinelli 2016) tra l’altro è il titolo di un’altra opera di Cornia, incentrata proprio sul lutto dei genitori, in cui l’autore racconta i vuoti lasciati dalle persone care che non ci sono più.  

Nel libro si percepisce la passione di Cornia per i generi antichi e per le forme semplici come l’aneddoto, i fenomeni curiosi, l’eziologia, la parabola. Tra questi spicca il racconto “Miracoli potenziali di Provincia” in cui mi sembra sia racchiuso il senso del libro. L’autore vi racconta di quando, dopo aver tagliato un albero per farci la legna, vide uscire dal tronco delle gocce d’acqua, come se l’albero stesse piangendo. È una scena a suo modo commovente e poetica, ma che Cornia conclude ironicamente con l’immagine di lui che brucia la legna. Come a dire che nulla nella vita può durare a lungo, perché la vita corre, travolgendoci con le sue improbabili avventure del quotidiano.

In questo divagare narrativo che procede spesso per paradossi e sillogismi assurdi (e anche in questo c’è il richiamo all’amato Bernhard) a volte, leggendo, si ha l’impressione che l’io di Cornia svanisca, assumendo una forma inconsistente che provoca nel lettore un misto di angoscia e noia. Si avrebbe voglia di vederlo afferrare l’esistenza con maggiore forza, più intensità. Ma è la sensazione di un momento, perché alla fine quello che prevale ne La vita in ordine alfabetico, nonostante la decisa negazione di una gerarchia valoriale nell’esposizione degli elementi costitutivi del vivere, non è una ricerca per il nonsense nichilista ma, al contrario, una profonda e malinconica armonia, che ci lascia con un sorriso.    


U. Cornia, La vita in ordine alfabetico, Milano, La Nave di Teseo, 2021, 224 pp., € 17.