Per la rubrica #botta&risposta Davide Castiglione dialoga con Demetrio Marra, autore di Riproduzioni in scala (Interno Poesia, 2019).


Caro Demetrio,

Riproduzioni in scala mi ha fatto compagnia durante il mio volo di ritorno in Italia. Bella coincidenza quella di averlo letto nel non-spazio di una cabina aerea, visto che il libro è pieno di queste situazioni di moto, di spostamento (volutamente evito di usare “viaggio”, parola che presuppone un’esplorazione positiva più che uno sballottamento contingente), corrispettivo di un pendolo anche dialettico e umorale che lo informa.

È un libro valido, ma “valido” (così come “bello”) è convenzionale e poco informativo come termine. Allora, lo definirei piuttosto come un libro “fisico” e “decentrato”: fisico, nel senso che chiama il lettore a un corpo a corpo con la lingua e con il «mood irsuto e corrosivo» (Santi, dalla prefazione) che essa lascia trasparire; decentrato, nel senso che la poetica che lo informa – poetica intesa come attitudine della voce di fronte al mondo – mi pare estranea al riscatto o alla consolazione dell’epifania modernista, e solo a una lettura superficiale restituisce un realismo cronachistico. A tale differenza di sguardo e postura corrisponde un alto grado di indipendenza stilistica dai modelli canonici sottolineata da Santi, il quale individua semmai tangenze e arie di famiglia variegate con italiani “irregolari” (Bianciardi, Ottieri, Ferretti) e stranieri (Houellebecq, Tony Harrison, Nicanor Parra). Fa forse eccezione il più mainstream Raboni, il quale mi pare modellare certe movenze sintattico-discorsive, ma d’altronde il debito è esso stesso tematizzato: «più Raboni, in realtà, come prima, di quando» (per inciso, verso colloquiale costruito a blocchi isosillabici 4+3+4+3, risultante in una struttura ritmica aperta, dinamica). Questo decentramento tonale è a sua volta l’epifenomeno di una vocazione satirica che sembra aderirti, appartenerti a pieno titolo. Ecco, per esempio, l’incipit del poemetto La città sostituita (p. 64):

Tu anticipando l’ansia, è noto, | speri di divenire quieto
come anticipando la morte speri
l’immortale. Io spero il posto
fisso anticipando la disoccupazione.

Il parallelismo conferisce stringenza concettuale, il chiasmo lessicale e l’anticlimax (da temi esistenzial-psicologici a materiali) conferiscono un mordente satirico, un’inflessione risentita. Vorrei sottolineare che il satirico, generalmente più vicino al tragico che al comico, non si permette quello humour un po’ sbarazzino che alleggerisce i versi di altri autori – c’è invece una continua partita a ping-pong tra metafisica e contingenza trita, con un rifiuto quasi istintivo della sintesi e della pacificazione e anzi la presenza di occasionali punte rivoltose/visionarie.

Scorrendo le note che ho preso in corso di lettura, gli altri aspetti principali mi sembrano i seguenti: in primo luogo, sintassi paratattico-cumulativa in tandem con un uso pervasivo dell’enjambement, a originare veri tour de forces aperti a digressioni continue, con conseguente mancanza di “centri attrattori” – le poesie non sono quasi mai “quadri”, dunque, ma fughe verbali irrequiete, barocche. Tale tendenza “digressiva” e centrifuga è esemplare in Lost in Hollywood (p. 37) e nella sezione VI di Siano A e B (pp. 22-23). Nel secondo testo, sul quale mi concentro, il referente in tema iniziale è «Le volte a crociera nei cortili», ma diventa subito chiaro che questo è l’inizio di un elenco, e dunque di volta in volta il referente slitta sulle «foglie […] secche o verdi», su «coppie di studenti», su «fiori gialli e rossi», «l’odore del pane», sulla carta che «si inumidisce di olio o umore di pomodoro», sulla propria «casa» e poi sull’arredo e il mobilio («il piccolo | comodino da bagno col marmo verde», «il tratteggio delle serrande a cordicella»…). Insomma, referenti si affastellano perché l’ordine del discorso ha la meglio sull’ordine del mondo, schiacciato a commento o materiale preparatorio per la voce affabulante dell’io – come una rêverie bertolucciana ma più disillusa che sognante, più piccolo- che alto-borghese.

Il secondo aspetto è l’importanza data alle categorie di discorso diretto e indiretto, che insolitamente coinvolgono la rappresentazione della scrittura stessa, dagli autografi del fondo manoscritti alle mail, indice credo di materialismo (per es. «”Avevo molti altri ritagli di giornale, ma non li trovo più», poi niente”», p. 21; per inciso, questa mi sembra una delle poche poesie felicemente imagistiche del libro, e cioè che si coagula in un’immagine contemplata e finalmente libera dal demone del commento e della puntualizzazione). Il terzo aspetto è il biografismo, con annessa topografia pavese e calabrese, dove però solo la prima interagisce con l’io, mentre la seconda suona come un recupero etnografico (vd. La vita a Kansas City, pp. 32-35). Biografismo, inoltre, che fa principalmente leva su ciò che è pubblico e sintomatico sui temi della crisi e della precarietà («sistemo il colletto | indosso per il part-time che ci vuole decoro», p. 15; «mio padre e mia madre, lavorati | che firmano cambiali in bianco», p. 64), più che su ciò che è intimo e fuggevole – questo mi pare uno dei pochi limiti del libro: apri alla commozione lirica troppo di rado, anche se quando lo fai, come nelle poesie Intercity (p. 45) e Come al tramonto le cose più vicine si allontanano (p. 46), i risultati sono di tutto rispetto:

una mia complicità,
trasparente sul vetro, mi imita (p. 45)

Non sono sicuro di sentirti, io
chiudo gli occhi solo quando
tra il buio fuori e il buio dentro c’è
differenza di senso (p. 46)

Mi sarebbe piaciuto leggere più poesie di questa fatta, e un po’ mi è dispiaciuta l’assenza delle poesie “familiari” di Il primo freddo apparso su «Atelier», e che ho già commentato in privato. Inserirle qui avrebbe forse aumentato il grado di entropia del libro, ma al tempo stesso avrebbe offerto ai lettori l’altro polo dialettico (quello del radicamento, opposto allo sradicamento che domina Riproduzioni in scala) e, insieme ad esso, un’ulteriore sfaccettatura della tua voce.

L’altro limite – limite, è ovvio, relativo alla poetica che il me lettore cerca – è quello di un uso prevalentemente “dimostrativo”, “strumentale”, o comunque attitudinalmente motivato della realtà. Detto altrimenti, i numerosissimi prelievi dalla realtà (d’altronde il materialismo è uno dei poli del libro!) appaiono quasi inscindibili dal commento e il commento inscindibile dal posizionamento dell’io, che viene esplicitato con puntigliosità. La conseguenza, coerentissima con la vocazione satirica di cui dicevo sopra, è che l’io appare ben poco permeabile, a livello di trasformazione del sé e di relazionalità (dove sono gli altri?), rispetto alla realtà con cui agonisticamente si confronta. Sintomatico, a tal proposito, il fatto che il testo dialogico a pp. 50-52, dove si riprende e destruttura una chat con l’amata, anziché permettere un disvelamento e un’inermità di sé, scarti continuamente di lato, concedendosi solo una rivelazione negativa. Tale rivelazione, anticlimatica e intellettualistica, è racchiusa nel consiglio di scrivere “un testo infedele”. Quanto alle rifrazioni del tema mimetico (esplicitato dal titolo “Riproduzioni in scala”: “modelli di mondo”, come chiosa Santi) mi limito a segnalare che il tema del doppio e dell’eco, evidente nella sezione E come in specchio, ne è una sfaccettatura ulteriore: «Non giudicatemi da ciò che sono ma da questo vetro che mi ripete», p. 56, è in tal senso una cripto-dichiarazione di poetica che privilegia e rivendica la mediazione o iper-mediazione contro una presunta autenticità e immediatezza liriche.

Al netto di queste considerazioni, il libro mi arriva denso e genuino nel suo coraggioso tentativo di non compiacere, nel suo includere espressioni colloquiali e tabù (“puzza di merda” e “chi se ne fotte”, tra gli altri, in La vita negra, che già dal titolo allude a Bianciardi) nonché nel suo disseminare micro-dissonanze e rovesciamenti di senso, per es. la negazione a inizio verso che opera come revisione in fieri del discorso («lascia le tue donne mischiare il sangue | no, né il seme delle classi», p. 19, ma mi pare ci siano altri due casi analoghi). Anche la grande presenza di nomi propri – che siano di brand commerciali come Ikea o Campari, o di autori come Caproni, Sebald e altri – mi sembra più che altro una spia materialista/archivistica la cui funzione è quella di rendere pubblica e verificabile la propria formazione intellettuale, piuttosto che un tentativo di esibire, insieme alle citazioni (si veda la poesia a pp. 19-20, il cui influsso bertolucciano ai limiti del rifacimento è puntualmente esplicitato in nota), un pedigree poetico e quindi una legittimazione a priori del proprio operato.

Valenza, 27 dicembre 2019


Caro Davide,

ti scrivo dopo un tour de force culinario non di poco conto, che per noi molto più in sotto della linea gotica è per finta un riempimento: ci svuotiamo del tutto di ogni possibile azione-non-gastronomica e in questo starebbe il “riposo”. Riposo anche come lunga digestione di tutte le premure dell’anno, compresa la tua del 27, densissima – almeno spero, altrimenti non ho grosse giustificazioni.

Non celo l’imbarazzo di dover rispondere a un testo così: ovviamente te ne sono grato, anche soltanto per l’analisi che porti avanti, una sorta di mappa per un’autocoscienza stilistica.
Mi ritrovo (o vorrei ritrovarmi) quando dici che la scrittura di Riproduzioni in scala sia «estranea al riscatto o alla consolazione dell’epifania modernista». O ancora quando mi attribuisci non una posa ma un habitus satirico. Durante la scrittura, confesso, mi sono spesso fermato proprio un attimo prima di quella rivelazione, che è meglio se rimane indietro. La satira per me è barocca, barocco è il mondo, eccetera.

Sul dove sono gli altri, sulla commozione lirica e quindi sui vecchi testi di «Atelier»: penso prima di tutto alla raccolta come evento materiale. Avessi scelto di inserire anche quei testi (e altri che ti allegavo per mail, che se non erro hai citato in quel saggio sul realismo), venti e più, avrei dovuto ridurre questo corpus che però mi sembrava più coerente. E poi ingenuamente li ho pensati pubblicati, quando in realtà se il supporto materiale non è più reperibile, significa quasi non siano esistiti (a quel punto si liberano i pdf…). Pubblicati e chiusi: perché dopo la dissolvenza del racconto familiare con

Bruciò il palazzo
si depositò sul fondo.

«Ecco come Dio ha creato
la luce il secondo giorno».

E con «Non ci ascolta nessuno | non chiudere», non sapevo proprio come continuare. Senza pensare a Tutto sopra le calabresi cose, un poemetto sui terremoti di Reggio e Messina, pubblicato su «La Clessidra» ma in pratica non-letto (alcune cose vanno direttamente in archivio…), nel quale in modo forse un po’ bizzarro affiancavo tragedia collettiva e familiare – con bizzarria e ingenuità?

Lì, vero, c’era commozione lirica. E c’erano gli altri. Anzi: commozione vera, e mi guardavo come fossi il Baro di Caravaggio, a raccontare la mia vicenda familiare, così limpidamente pacifica e, al contempo, conflittuale (se la poesia è elaborazione, forse), perché dovevo aggiungere poco e soprattutto poca “sporcizia” – sporcare il testo come col panino della segretaria in un hotel della Lombardia. Non era neppure mia davvero, perché parlavo di una bisnonna e la storica distanza che c’era fra di noi è tutt’ora incolmabile. Tutte le altre figure volevo sembrassero vicine ma a me sono e rimangono troppo lontane. Non so cosa avrei potuto metter di più in questo libro, ma ho voluto metterci lo sproloquio. La satira potrebbe aver rattoppato la commozione lirica.

Però a me interessava soprattutto la narrazione e quindi il suo gioco al doppio, raccontare una storia non serve a niente. Gioco al doppio (la complicità che imita, il Ci scangiaru calabresizzato, non calabrese…). Strumentale forse il mondo ma non la narrazione del mondo, piuttosto se è satira io la trovo necessaria, perché la Calabria e la Lombardia non sono tonnoriomare e io non ho in mano grissini, per fortuna. Ti dico questo anche un po’ perché sto per presentare il libro (il 3) alla Biblioteca di Reggio, è c’è ansia pura, e sarà forse una possibilità non simbolica di indurre qualcosa, portare la satira al punto della modificazione del reale sociale.

Sperando di poter vedere cogli occhi quelle tue annotazioni, ti ringrazio ancora e ti auguro il giusto riposo durante quest’ultima appendice festiva. A presto,

Demetrio

Reggio Calabria, 1 gennaio 2020