Proseguiamo la presentazione dei libri finalisti del Premio Narrativa Bergamo 2020. Gli incontri con gli autori, in ragione delle recenti ordinanze ministeriali, sono stati spostati alla fine di settembre.


 

L’unico momento in cui Flaubert, in Madame Bovary, interrompe la progressione narrativa lineare degli amori e dei tormenti di Emma è, lo si sa, un’anamnesi vistosissima e circoscritta, sviluppata a partire da un oggetto preciso: il keepsake. Per raccontare al lettore ciò che ha reso il personaggio come appare, lo scrittore caratterizza la formazione del suo intérieur nel consumo vorace e clandestino di un singolare tipo di libro, capace al contempo di catalizzare le percezioni stratificate nel passato di chi lo apre e di rivificarle nel presente.

Il keepsake, nella maggior parte dei casi, era nell’Ottocento ciò che oggi chiameremmo un iconotesto dal valore indessicale. Iconotesto perché presentava versi o prose selezionati e all’occorrenza illustrati da un’immagine; indice perché confezionato con l’intento manifesto di serbare il ricordo (di trattenerlo e di renderlo vivo) di qualcuno, di fatti, di luoghi, di qualsiasi cosa.

 

L’ultimo libro di Filippo Tuena (Le galanti, Il Saggiatore 2019, tra i finalisti del Premio Narrativa Bergamo 2020) sfugge ai tentativi di classificazione, ma volendo azzardarne uno si potrebbe dire che si presenta, nella sua mole ponderosa, come una grossa catasta di keepsakes, accumulati in pile strabordanti. Le galanti, infatti, non assomiglia molto a un romanzo. Estrae, dal romanzo, alcuni espedienti di scrittura presentificatrice per estenderli e farli coincidere con tutta la grandezza del testo.

Un romanzo paradigmatico come quello flaubertiano aveva bisogno di una struttura narrativa per intromettervi il keepsake, il ricordo diretto, mentre un libro come quello di Tuena – forte di tutti gli sconvolgimenti che il romanzo ha subìto nell’ultimo secolo, dalla riflessione su tempo, durata e memoria – si può offrire tout court come dispositivo iconico-linguistico della rammemorazione; l’occhio e la pagina sono un magma mnestico.

 

Il procedimento e l’impianto, però, non scompaiono, perché il magma in qualche modo si espande con metodo. Tuena infatti introduce ai capitoli una breve premessa elencativa, che dice più o meno di che cosa si parlerà. E che aiuta oltretutto il lettore a orientarsi, perché può riconoscere, in questa lista di argomenti, un ordine cronologico: si parte dalla Grecia antica e si passa, accelerando nei secoli, al presente immediato di chi ha scritto.

Ogni punto della lista è tuttavia ingannevole; si tratta, per seguire il paragone, solo della copertina di ogni singolo keepsake, che annuncia a grandi linee i pretesti che all’autore hanno offerto l’occasione per muoversi nel tempo e nello spazio guidato dalle leggi di Mneme, di una memoria che trascende l’individuo e che si irradia ovunque. I ricordi, lascia intendere lo stesso Tuena, sono sia personali sia collettivi, anzi persino delle cose; tanto che tutto, quando si ricorda, sfuma nell’indistinzione (in un dominio che a appartiene a «un altro genere di verità storica», 16), e ci si può affidare soltanto alla fantasia e all’immaginazione («Ricordati: non è possibile tornare indietro. Puoi solo immaginare di farlo», 12).

 

Perciò ha senso scriverne. Perché la Musa della memoria spinge a esprimersi, a cantarla e addirittura al rapimento estatico, come suggerivano gli Einstürzende Neubauten nel loro inno dedicato a Mnemosine e ad Amnesia: «Se la musa mi bacia vorrò danzare/ non di sicuro, ma forse sì/ Se danzerò vorrò bere/ non di sicuro, ma forse sì/ Se berrò dovrò cantare/ non di sicuro, ma forse sì/ E se canterò allora lei mi bacerà/ Forse»[1].

Il tempo cronologico difatti lega un capitolo all’altro ma non presiede i singoli capitoli. Ciascuno si sviluppa secondo un principio simile alla “regola del buon vicino” della biblioteca e dell’Atlante Mnemosine di Aby Warburg: le forme – qui linguistiche e iconiche, grazie all’impianto iconotestuale – garantiscono i passaggi di ricordo in ricordo, di frammento in frammento, e consentono all’autore di rendere questa fuga perpetua ex post, sulla pagina; un ricordo chiama il successivo. Accorgendosi poi che la dimenticanza è costitutiva al ricordare, Tuena si sente libero di ricreare nel libro nuovi percorsi memoriali e di innescarne ulteriori nella mente di chi legge, tramite il circuito warburghiano di sopravvivenze, ritorni e rimandi.

 

Continue sono, in Le galanti, le sovrapposizioni a partire dalla mente che rievoca il passato: il ricordo viene associato all’amore, dunque al desiderio, dunque alla perdita, dunque alla nostalgia, dunque alla melanconia. E soprattutto, la testa che rimesta nelle reminiscenze viene quasi sempre ricondotta a un luogo, non con metafore ma letteralmente con equazioni. Come Santa Teresa equiparava l’anima a un castello interiore diviso in ali, Tuena mette sullo stesso piano il corpo rammemorante e un palazzo, in cui ogni ricetto «è davvero una stanza dei sogni; un luogo dove i desideri hanno espressione attraverso il sonno» (73): si risvegliano e si assopiscono.

 

È opportuno parlare di corpo, perché ricordare, ci viene detto, non è solo affare di testa. Coinvolge a un tempo la sfera eidetica e quella sensibile, perché riaccende passioni e sentimenti. Questo aspetto emerge particolarmente nel capitolo dedicato allo svelamento quasi filologico dei retroscena della sindrome di Stendhal. Per capirne meglio i meccanismi, Tuena esamina i testi dello scrittore francese nelle varie edizioni e segue diacronicamente i suoi spostamenti durante i viaggi in Italia, documentati in Rome, Naples et Florence (1817, 1826).

Stendhal, di fronte a certe cose, si commuove di continuo e lo racconta; le sue parole rispecchiano bene molte delle caratteristiche del libro di Tuena. Scrive di quando arrivò per la prima volta a Firenze, ed evoca l’ineludibile coinvolgimento patemico che si prova davanti alle cose significative: «I ricordi mi si schiacciavano nel cuore, mi sentivo fuori dalla condizione di ragionare, ma mi concedevo alla mia pazzia come inseguendo una donna amata» (267, mia traduzione). E poi: «Ho avuto un fortissimo attacco di batticuore [un flottement de cœur], che a Berlino chiamano di nervi» (270, mia traduzione); ricordando è difficile mettere d’accordo cuore e cervello, ma si può essere certi che procedano sempre insieme.

 

Ma come mai il romanziere, ricordando piange e piange ricordando? Perché i ricordi sono anche immagini, e innescano pulsioni iconiche oltre che patetiche e eidetiche: «Avevo così spesso guardato vedute di Firenze, al punto da conoscerla già» (268, mia traduzione). Ricordare per immagini ha talmente tanto peso da dotarci di una sorta di memoria antivedente: vedendo una cosa la rivedo in tutte le sue raffigurazioni.

E la raffigurazione può indurci ad avvicinarci sempre di più a ciò che ricordiamo: «Assorbito nella contemplazione della bellezza sublime, la vedevo da vicino, la toccavo per così dire» (sempre Stendhal, 269). D’altronde per Tuena, come dichiarato nel capitolo sulle qualità del ritratto (quasi “votive”, avrebbe detto sempre Warburg[2]), i capitoli di Le galanti sono «lettere d’amore» (92).

 

Non è un caso che Tuena si serva, per scrivere dei suoi ricordi, anche delle immagini. Il suo libro è costellato di fotografie (di riproduzioni di repertorio, scatti d’autore, istantanee personali della vita dell’autore) che non sono mai strumentali al testo, ma essenziali. Nell’iconotesto contemporaneo – che negli ultimi due decenni sta vivendo una vistosa rinascenza in cui i libri di Tuena si iscrivono pienamente – la fotografia non è una protesi testuale; è invece uno strumento di cui l’autore si serve al pari della scrittura per raggiungere territori inesplorati, e anzi, come in questo caso, per marcare il letterario con le cifre dell’iconico.

Le galanti è un testo manifestamente iconico, nel senso che si dà sotto il segno dell’iconismo testuale. Nell’incipit il lettore viene invitato a «percorrere una sorta di galleria con pareti di alabastro traslucido […] quasi trasparenti» (11), e molti momenti del libro sono precisamente ecfrastici: si passeggia nella galleria tramite dettagliate e partecipate descrizioni di immagini. Tuena infatti descrive incessantemente i propri ricordi nel punto in cui si mescolano ad altre immagini, a loro volta descritte; per esempio, il corpo dormiente di un’amante, contemplato steso sul letto dopo un amplesso, innesca una meditazione sulle raffigurazioni dell’ermafrodito, dall’antichità a Canova; un puzzle comperato come gadget museale dà modo di ricostruire la storia del ritratto di Giovanna Tornabuoni di Ghirlandaio; e via di seguito, potenzialmente all’infinito.

Le pagine dei keepsakes si aprono squadernando le figure, e scorrono grazie al dito dell’autore, che accompagna il lettore in promenades immaginarie. Un espediente che affianca il modo di scrivere di Tuena, per ciò molto settecentesco, a quello dei Salons di Diderot (quando si tratta di immagini del presente) o a quello delle Notti romane di Alessandro Verri (quando sono le rovine e le macerie del passato a parlare).

 

Infine, lo stesso libro di Tuena si materializza nella medesima sostanza del corpo che ricorda: è un luogo, a sua volta diviso in tanti spazi. Un luogo come il Ricetto michelangiolesco della Biblioteca Laurenziana a Firenze, evocato dall’autore insieme alla caverna platonica e soprattutto – con un’analogia che ben si presta a sciogliere i fili di questo non-romanzo per immagini – a L’idea del theatro, celebre griglia mnemotecnica cinquecentesca: «Mi trovo in un Teatro della Memoria, affermò con soddisfazione, pensando al trattato di Giulio Camillo, alla macchina teatrale che quello aveva realizzato per Francesco I allo scopo di dimostrare l’esattezza delle sue teorie. Entrando in quel luogo, simile a un teatro con palchi, era possibile, a detta dell’inventore, organizzare tutto lo scibile umano e fare in modo di rammentarlo. Trovarsi al centro della scena e osservare l’intero universo attraverso raffigurazioni cerebrali, costruite» (146)[3].

Le raffigurazioni di Le galanti si danno, però, in una profusione di mezzi diversificati: testo, immagine, testimonianze di oggetti, luoghi e persone. Il libro le configura in un Merzbau, come quello di Kurt Schwitters: uno spazio che accumula tutte le ritenzioni dell’esperienza di vita, così messa in forma e sintetizzata in un “palazzo innamorato” dei ricordi[4].

[1] «Küsst mich die Muse will ich tanzen,/ nicht unbedingt, aber vielleicht/ Wenn ich tanze will ich trinken,/ nicht unbedingt, aber vielleicht/ Wenn ich trinke muss ich singen,/ nicht unbedingt, aber vielleicht/ Und wenn ich singe dann küsst sie mich,/ vielleicht», Einstürzende Neubauten, “Musentango”, contenuta nell’album Silence is Sexy (2000), tr. it. di D. Ceglie. https://www.youtube.com/watch?v=ivbSDNe6ZR8

[2] In “Arte del ritratto e borghesia fiorentina” (1902), cfr. A. Warburg, Arte del ritratto e borghesia fiorentina, Le ultime volontà di Francesco Sassetti, tr. it. di E. Cantimori, Abscondita, Milano 2015.

[3] Cfr. Giulio Camillo, L’idea del theatro (1550), a cura di L. Bolzoni, Adelphi, Milano 2015.

[4] L’espressione è rubata, con licenza, dallo splendido titolo di un romanzo di Liala. Cfr. Liala, Il palazzo innamorato (1967), Sonzogno, Milano 2012.


le galantiFilippo Tuena, Le galanti, il Saggiatore, Milano 2019, 670 pp. 32,00 €


In copertina: fotografia del Merzbau di Hannover, costruito da Kurt Schwitters dal 1923 al 1937.