Da poche settimane è in libreria NO. Dieci racconti per un nuovo immaginario novarese, un’antologia che prova a rompere gli argini localistici del racconto della provincia. Proponiamo la Nota critica di Francesco Mereta. che apre il volume. 


 

Da Simone Sarasso a Luca Ottolenghi; da Alessandro Barbaglia a Carlo Tirinanzi de Medici; da Gabriella Contu ad Antonio Mesisca; da Roberto Conti a Marco Pellegrino; da Elia Rossi a Luca Colombo: dieci autori (non farò loro il torto, per scongiurare ogni possibilità di diminuzione, di chiamarli “giovani”) che con i loro racconti partecipano –  dieci pennellate per un ritratto comune – al tentativo di definire (e ridefinire), di inventare (e reinventare) il volto di una città, Novara, che è incidentalmente anche la città dove sono nati o dove vivono.

Quanto al titolo della raccolta, sono almeno due le chiavi di lettura: da una parte, la provenienza geografica, l’ambientazione e l’appartenenza alla città e al suo coté; dall’altra, il desiderio di allontanarsi e almeno in parte opporsi proprio a questo coté. Come il Bartleby di Herman Melville, gli autori convocati “preferirebbero di no”.

Un rifiuto che pur senza voler scatenare l’incendio o la voracità di certi cannibali, è condotto con fermezza, con toni diversi ma accordati, che non stravolgono la forma – nessuna slogatura, nessuna rottura della sintassi: al massimo una scelta linguistica espressiva, solo moderatamente espressionistica e condotta senza forzature – ma rinnovano i temi, i luoghi e gli spazi di una città che potrebbe apparire forse “poco letteraria” ma che si presta in questi racconti a tramite e teatro di vicende diverse, di sguardi straniati o vagamente surreali, di riflessioni amare o più acutamente e scopertamente satiriche (come avviene ad esempio nel racconto di Antonio Mesisca).

Il condizionale del resto è d’obbligo: perché esiste una tradizione che – tagliando velocemente per capi sommi – dalla Marchesa Colombi arriva a Sebastiano Vassalli, e che pur volendo superare, non si può né ignorare né scontare con leggerezza; e perché poi proprio i racconti di questa antologia sono lì a voler dimostrare il contrario.

Le storie che ne escono sono spesso racconti di disagio, di solitudine o di fuga, di situazioni solo apparentemente quotidiane, in cui basta un elemento dissonante, una nota fuori spartito per increspare la superficie e suggerire profondità maggiori, ombre più dense che si muovono sul fondo di una realtà più complessa, più sfaccettata di quanto si sarebbe potuto intuire da uno sguardo troppo rapido.

Ne Il re del mondo di Marco Pellegrino la canzone di Franco Battiato è la colonna sonora di uno scenario che dalla banalità di una partita a calcetto al campo dell’oratorio di uno dei paesi dell’immediata cintura novarese si colora sul finale di tinte apocalittiche, e la pioggia – che dovrebbe avere valenza lustrale – si colora di nero e diventa invece tramite di terrore e forse di morte.

Morte che incombe anche sull’ignaro don Ippolito, che si avvia senza saperlo al suo calvario nel racconto di Elia Rossi: ma il calvario che lascia il segno è soprattutto quello di Giovita Ceccardi, stretto tra il proprio incarico di giornalista, il perbenismo dei notabili e quasi di una città intera e della minaccia di un omicidio imminente, annunciato per enigmi da un misterioso carnefice che sembra disegnare il percorso di una drammatica quête mortale sotto gli occhi di un Rubens gigantesco e impassibile.

I racconti di Simone Sarasso – l’unico che non è ambientato a Novara o nei dintorni immediati – e di Luca Ottolenghi compongono a loro volta un dittico che sembra presentare le due facce di una stessa medaglia: da un lato l’odissea “di là dal mare” di tanti italiani all’inizio del secolo, con il miraggio dell’America a fare da bussola e sestante, con altre fughe (coraggiose) tra Nord e Sud e tra terra e mare, alla ricerca di fortuna, di lavoro e di realizzazione; dall’altro, il viaggio disperato di Dembo Djabi – perfettamente antifrastico il titolo del racconto che firma a quattro mani con Ottolenghi – che attraverso il deserto e il mare trova forse pace in una risata scrosciante, che se tronca un po’ bruscamente l’intreccio lo lascia anche in sospeso su una nota di speranza finalmente possibile.

C’è spazio anche per toni più giocosi, come nella sfida orchestrata da Gabriella Contu, che su un tessuto di lieve mistero costruisce il piccolo coup de théâtre finale: ma nonostante il tono sia più leggero che altrove, l’intreccio è ancora una volta attraversato da una vena più aspra, retta dalla trama di inadeguatezze e timori per un futuro che appare incerto, nonostante la momentanea ricomposizione nella pienezza di un pomeriggio estivo.

Decisamente surreale poi l’atmosfera in La vacca, in cui la presenza del bovino nel cuore del centro cittadino è il tramite che Luca Colombo sceglie per fotografare gli eccessi di mode e abitudini, la vuotezza della movida del sabato sera che somiglia a un rito meccanico, ripetuto secondo ritmi che sembrano aver perso ogni significato anche per i suoi officianti, e in cui l’unica ventata di freschezza è la presenza della mucca che spariglia le carte (e va incontro al suo amaro destino). Sulle stesse corde anche il milieu descritto da Roberto Conti: stavolta però il racconto ha quasi il carattere del resoconto di un’osservazione antropologica, tanto più critica quanto più è meccanica e insiste sui modi e i luoghi della vita cittadina ridotta a categorie elementari come in un manuale d’istruzioni estremamente semplificato.

Più esplicitamente satirico è invece il racconto di Antonio Mesisca, che costruisce la propria denuncia dell’ottusità di certa politica attraverso la ricerca spassosa e tragicomica di Vincenzino Santana, impegnato a seguire le tracce del figlio dalla Calabria a Novara, seguendo l’unico indizio di uno scorcio della cupola di San Gaudenzio apparsa sullo sfondo di un film pornografico di cui il figlio è l’attore protagonista. Comincia così un viaggio comico e stralunato attraverso i quartieri della città, che nella corsa verso il gustoso capovolgimento finale diventa anche lo specchio del decadimento politico e sociale della città.

I racconti di Carlo Tirinanzi de Medici e di Alessandro Barbaglia fanno parte a sé. Il primo – La stanza – è la storia di un amore improvviso e bruciante, che nasce e si esaurisce con troppa inaspettata facilità, ma è anche la storia di una fuga, prima da una realtà troppo arida che è soprattutto una condizione esistenziale, poi dalla città stessa. Il racconto ha toni pacati, misurati, che sembrano voler mettere una sordina al pathos, e corrispondono alla sordina che la città sembra mettere a volte alle vite dei suoi abitanti.

É così che crollano le cose sceglie invece un futuro non troppo remoto per evocare una fiaba fantascientifica, tutta giocata attorno al vuoto e al silenzio – vuoto di uomini, di cose ma pure vuoto di idee e significato, di senso – che sembra circondare la Cupola diventata una clinica in cui il protagonista dialoga con un Androide fanatico e sviluppa biotecnologie e impianti neurali inseguendo il sogno della creazione (e della resurrezione).

Questi, in estrema sintesi, i temi e gli intrecci. Quanto ai luoghi – allo spazio geografico che è soprattutto spazio narrativo – la Cupola di San Gaudenzio è il faro distinguibile anche da lontano che segna la città stessa e il suo centro. Ma è un faro che non funge più da guida (se non particolarissima, come nel racconto di Antonio Mesisca: «“La cupola di Novara”, aveva sentenziato leccandosi le dita nere a sfogliare una logora e sfatta enciclopedia. Così Vincenzino era partito»). E se continua ad ergersi sopra la basilica del santo, domina nel racconto di Alessandro Barbaglia uno spazio vuoto in cui regnano rovine e silenzio:

C’era una bella vista da lassù: non si vedeva niente.
Un niente compatto da qui a lì, e niente persino laggiù, dove una volta, tempo fa, il paesaggio affogava in quei campi d’acqua e fango. Risaie, credo si chiamassero. E Cupola, invece, credo fosse il nome di questa struttura solitaria che oggi è la mia clinica: l’unica costruzione svettante sulla piana di sabbia; Cupola di Santo Gaudenzio, riportano anche il nome i vecchi documenti: una grandiosa architettura verticale più simile a una torre, o ad un lungo razzo, che non a una cupola. È l’unica cosa rimasta integra della città su cui sorgeva: la mia clinica, la loro Cupola. Un dito di colonne proteso verso il cielo.

La ricerca di un nuovo statuto letterario per la città passa anche per la scoperta (o la riscoperta) di luoghi diversi, di spazi nuovi in cui ambientare le vicende dei propri personaggi, alla ricerca di un’identità parimenti nuova e più consapevole. Insieme ai luoghi, anche gli sguardi, se è vero – citando Proust – che il vero viaggio di scoperta non passa tanto dal cercare nuove terre, ma nel guardare con nuovi occhi.

Cambiano anche i totem a cui guardare, entro cui stringere il proprio orizzonte: non più il monte Rosa, non più i fiumi, il Ticino da una parte e il Sesia dall’altro, buoni ormai solo come titolo di una ricerca scolastica di quarta elementare nel racconto di Tirinanzi de Medici: «Resta lì a osservare la città. “La dolce terra tra i due fiumi”, come da titolo di una ricerca cui lo avevano obbligato in quarta elementare».

Il centro rimane certo ben presente: ma come specchio di uno spazio tutto interiore, come avviene ne La stanza, in cui suoni e colori si perdono a mano a mano che il senso di impotenza e di incompletezza (di vita, e di senso: «Non ha mai sopportato le situazioni d’incertezza. Ama le risoluzioni, ma non per gusto melodrammatico del climax, piuttosto perché finché non arriva una conclusione lui resta ad aspettarla, elaborando finali possibili finché il tempo non si consuma del tutto»). La città – come i suoi riferimenti tradizionali: la Cupola, la basilica, Casa Bossi, il Broletto, le risaie allagate – perde concretezza, si svuota:

Da una parte il Ticino, il confine con Milano sempre più virtuale. Dall’altra il Sesia, o come dicono i vecchi la Sesia, la sterminata campagna della Bassa. La città come la mansarda, i baluardi come le grandi finestre su un mondo distante che appare a tratti, tremolante d’azzurro per la distanza. Un uovo di vetro, un processo alchemico mosso dal denaro, dalla paura, dalla speranza, dai flussi migratori dall’Africa o dalla periferia di Milano. All’interno dell’uovo si scontrano due mondi e due futuri.

Resta una mappa dettagliatissima di negozi e locali alla moda: Melegari, il Cortile, Zara, la Brace, Ryan’s, Barlocchi, 049, Plaza, il ristorante da poco aperto di un celebre chef televisivo. Mercificazione, gentrificazione, flussi migratori, e poi sfruttamento, disagio, incomunicabilità: l’emergere di temi e problemi nuovi porta anche a una topografia nuova.

La geografia di questi racconti si sposta allora sempre più decisamente verso le periferie, verso i quartieri più lontani dal centro in cui si concentra la vita nella sua stratigrafia più complessa:

Sarebbe calato nei viottoli di sant’Agabio, verso la campagna, dove, dopo le chiuse del Terdoppio, al ritorno dal Burundi, suor Namiria aveva recuperato una cascina per farne un ambulatorio. […] Superò la pompa da benzina di corso Milano e poi, grattandosi la nuca, restò a guardare lo stradone che saliva al cavalcavia e, di sotto, i tanti tratturi che scendevano al canale. Era tutto così diverso da come lo ricordava da quando era ragazzo. Allora c’era tutta una città di bacchette di pomodori dove, in certi giorni d’estate, faceva un sole che marciva le uve dando nell’aria un odore di carne. Ora s’era tutto svuotato, come raggrinzito, e lui non riconosceva più nulla.

E poi un nuovo corollario di vie e quartieri: viale Giulio Cesare, viale Curtatone, corso della Vittoria, corso Milano, il cavalcavia della stazione, le vie strette del quartiere di sant’Agabio, il parco delle Betulle, la Questura, Veveri, il Torrione, il quartiere di San Rocco lungo la ferrovia che taglia la città in direzione Milano o Torino, la stazione ferroviaria e piazza Garibaldi a sfiorare il centro senza quasi toccarlo, oratori in stile fascista e palazzoni di edilizia popolare. Luoghi di transito o di passaggio. Paesaggi liquidi, a cavallo tra luogo e non luogo, che a volte perdono i propri contorni in tinte delicatamente surreali, come nel racconto di Ottolenghi:

Quando siamo arrivati in Questura nevicava, era la prima volta che vedevo una cosa simile. I fiocchi erano grandi e cadevano veloci, come se qualcuno, lassù, stesse sbriciolando le nuvole. Vedevo le palme del giardino sporcarsi di bianco, mi sembrava un’allucinazione.

Oppure, con colori più cupi, in questo breve scorcio di pianura ne Il re del mondo:

C’erano terra e sassi, pozzanghere e solchi di copertoni sul tratto che collegava casa mia all’ingresso del paese. C’era la noia dell’inverno a posarsi sul cadavere della campagna come una coperta gelida. La nebbia leggera che si levava dai fossi era complice dei miei sogni e mi restituiva un’illusione di spiaggia infinita, battuta da una parte dalla spuma delle onde e, nel punto opposto, da una criniera di pini marittimi che pungevano come aghi il dorso di una collina.

Il movimento è decisamente volto in direzione esterna, verso le strade che portano a Milano, verso la Lombardia piuttosto che verso le montagne e il Piemonte, lungo i viali e i controviali che delimitano – e separano – la città più interna da quella più viva, e aprono le strade alla campagna. Sono i viali deputati alla prostituzione, alla criminalità spicciola, anch’essa sottratti alle consuetudini e alla vita.

Se il centro cittadino si è svuotato fino a ridursi esclusivamente al centro delle mode, del consumismo, degliapericena, delle corse sfrenate allo svago e alla milanesizzazione, che è poi un’altra faccia della perdita di ogni identità, la periferia è anch’essa degradata, ma conserva – perché luogo di autenticità – almeno lo spazio per una fuga momentanea, per una pienezza faticosamente sottratta alle difficoltà della vita quotidiana e finalmente goduta:

Quasi senza accorgersi si ritrova sulla strada che, superando il Torrione, porta ai campi. È tanto che non ci torna, questa volta non gli va di correre o sgommare. Vuole solo guardarsi intorno, respirare l’aria frizzante di primavera, ammirare i campi che scintillano sotto i raggi del sole e sentirsi vivo.

In qualche raro momento, il paesaggio è ancora in grado di rispondere ai moti dell’animo con una corrispondenza piena, di aprirsi in squarci di autenticità. Tra «Novara e il west», la ricerca può finalmente concludersi.


noNO. Dieci racconti per un nuovo immaginario novarese, Effedì, Novara 2018.