The Dead Nation è la proposta di CineAgenzia in occasione della giornata della memoria 2019. CineAgenzia programma e distribuisce documentari e rassegne per festival, sale e associazioni culturali, ed è l’organizzatrice della rassegna Pagine nascoste al Festivaletteratura di Mantova. 


Guardo The Dead Nation, non ne so niente e penso: chi è questo qui? Chi è questo regista, questo Radu Jude? E sì che ne ho visti di film romeni, di quella che chiamano la “Nuova Onda” che da vent’anni a questa parte sta levando il cellophane ai non detti di Ceaușescu e fa il genere, e fa il dramma, e fa il grottesco. La definizione è derivativa, non ci ho mai badato troppo, perché si trattava di un cinema grosso e io amo sedermi al cinema e dire: questo è cinema grosso. Ma ora sono seduta a casa mia, davanti a un documento che fatico a definire, è cinema grosso, ma qualcosa mi sfugge; ho il presentimento e poi subito la certezza che questo regista cerchi una distanza. Che cosa sta facendo? Non è cinema politico questo, non è denuncia, non è storia, non è una prima persona che racconta, non è una voce off che scorre su una serie di fotografie. Non è solo questo. C’è un buco. Una voragine tra me che guardo, i sottotitoli che scorrono, la banda sonora, le fotografie. C’è qualcosa che non capisco. Ha a che fare con il tempo che è stato assegnato a ogni immagine, e con il modo in cui il regista vuole che io le guardi. Ha a che fare con lo sguardo. Il suo, il mio, esigono un incontro.

Non posso scrivere un pezzo su un documentario come questo, e non è solo una questione di poetica, mi serve la posizione sulla mappa (che poi cos’è la poetica, è la mappa spogliata dei nomi, è l’autore tolta la carta, la rete di strade, ciascuno le sue, di cui non ci si libera, è l’autore che mappa), quella da dove Radu Jude mi sta parlando.

Levo il sonoro e guardo. La cerco nel visivo muto, la poetica: il silenzio – mi dico – potrebbe aiutare l’occhio a indagare. La stessa fotografia per trenta secondi. Trenta. Nessuno guarda più la stessa immagine per trenta secondi. Lo si fa con qualcosa di sacro, o di potente. Lo si fa per forza, o devozione. Lo fa una vedova al cimitero, lo fa un pittore davanti alla Madonna. Lo fa qualcuno che ha un pensiero fisso, un’immagine interiore, un ricordo. Per farlo, serve la certezza che il semaforo a breve diventerà verde; è il semaforo l’ultima cosa che ho fissato per trenta secondi prima che Radu Jude calasse dal soffitto, è quello il tipo spiccio di speranza a cui il mio occhio è abituato. Mi convinco che Jude stia cercando qualcosa e, quando la trova, aspetta ancora un attimo; è l’attimo in cui io che guardo mi scoccio, mi chiedo: quando arriva la prossima? Allora Radu Jude passa oltre e comincia da capo. Parla con me? Con il suo popolo? Con l’Europa che sterza a destra?

Alzo il telefono chiamo un amico giornalista, chiedo di vedere l’ultimo suo, il documentario che era al Torino Film Festival a dicembre. Si chiama I Do Not Care If We Go Down in History as Barbarians, ne hanno scritto in tanti. Al conducător Antonescu non sembra interessare l’ardua sentenza dei posteri (anche in The Dead Nation), vuole cento ebrei impiccati per ogni quartiere (anche in The Dead Nation), vuole Odessa decimata – 30.000 ebrei in due giorni, 100.000 in tutta la Transnistria – (anche in The Dead Nation), vuole che l’antisemitismo sia spettacolo di piazza (anche in The Dead Nation), vuole che tutti guardino: anche in The Dead Nation.

Con questo oggetto il mio lavoro è più semplice, la Nuova Onda è più visibile: c’è una protagonista-regista impegnata, c’è Godard ogni volta che Mariana Marin (così si chiama, come la poetessa) si muove, c’è Isaak Babel letto a mezza voce (ma a lungo, con insistenza, Jude vuole il secondo di troppo, anche se Babel ha la lingua secca), c’è il metacinema marxista che crede nell’atto e rimette in scena per scuotere le masse. Le coordinate storiche, politiche, estetiche sono tutte lì, pronte per essere discusse, dal suo popolo, dal suo pubblico. Lo vedo tutto, un piano sequenza dopo l’altro, la meditazione sul ruolo dell’arte, sul bene e sul male che fa alla storia, perché anche l’arte è uno strumento, e fino alla fine non sappiamo se sarà in grado, se sarà buono, se la storia ne trarrà beneficio, se la storia sarà illuminata o solo diluita in un ridicolo teatro. Ma fino alla fine del discorso sono, siamo Mariana Marin-Radu Jude.

Poi stoppo. Rimetto il sonoro ai frammenti di The Dead Nation: scorre una carrellata di saluti romani diritti, perfetti, bambini e bambine verticali – i nostri balilla, li conosciamo, li abbiamo nei sussidiari, cos’hanno i romeni nei sussidiari? – e adesso, anche con la voce di Emil Dorian ebreo medico-scrittore-off che legge il suo diario, ci sembrano esagerati, presenti, eterni.

Vedo un cinema dove il politico nasce per giustapposizione di sguardo e di voce, di occhio e di orecchio. La parola è il politico, l’arte – quella di Jude, ma forse tutta – il mezzo con cui negoziare.

Sabato 26 gennaio 2019, alle ore 21, FilmTvLab e CineAgenzia proiettano The Dead Nation negli spazi della redazione del settimanale «Film Tv», in via S. Giovanni della Paglia 9, a Milano. I riferimenti sono qui. Questo è l’archivio fotografico di Costică Acsinte, il fotografo da cui provengono le immagini usate da Jude, il buco è consegnato a chi ci sarà. Il dubbio che The Dead Nation sia semplicemente l’homemovie di una nazione, l’intervista mediata a un popolo che fatica a riconoscersi responsabile resta. Io di Radu Jude non so niente, ma sono convinta che chi usa il cinema per fermare l’immagine, voglia frenare un istinto (basso, violento, occultato ma presente), rivelare la complessità e invitare all’azione.