Sono passati diversi anni dall’ultima volta che sono entrato in un cinema per assistere alla visione di un film di Bernardo Bertolucci. Era il 2003, terminavo il liceo classico in un istituto di periferia e il film era The dreamers. Una pellicola del genere giungeva, per me, quasi a salutare la chiusura di un ciclo e a propiziare l’inizio di un nuovo percorso. Nel film, infatti, si trovavano tutti gli elementi in grado di scatenare la mia immaginazione di ragazzo sulla soglia della vita universitaria: la Parigi del ‘68, la bohème, la Cinémathèque française, gli intellettuali da caffè, la trasgressione e il sesso, il tutto descritto attraverso l’originale e seducente prospettiva di tre affascinanti giovani chiusi in un appartamento a fingere la rivoluzione. Ne fui folgorato. Bertolucci proponeva una deliziosa versione scanzonata e naïf di Ultimo Tango A Parigi, senza perdere nulla in forza ed efficacia poetica. Le quattro mura tornavano ad essere rappresentazione di un mondo esclusivo e isolato, che tenta di reggere l’urto della prosa e delle responsabilità del mondo esterno, stabilendo regole alternative e paradossali.

È la storia di alcune forme di vita e bellezza, condannate all’assoluto e per loro natura fragili, che per  essere alimentate esigono una sospensione, lo scioglimento da qualunque vincolo con la realtà. Il mondo, però, preme con i suoi doveri e urgenze, finendo immancabilmente per penetrare le difese e smantellare il paradiso artificiale. Rivoluzioni private, quelle dei protagonisti di Ultimo tango a Parigi e The dreamers, che giungono al loro naturale termine per mancanza d’aria. Dopo nove anni, un’esperienza universitaria archiviata e con essa tutta una serie di speranze miti e illusioni, mi ritrovo, dunque, spettatore di Io e te, ultima prova del regista parmense tratta dal romanzo breve di Niccolò Ammaniti.

La trama è semplice: il quattordicenne Lorenzo (Jacopo Olmo Antinori), adolescente acuto ma incapace di relazionarsi coi coetanei, finge di partire per la settimana bianca e realizza nella cantina del palazzo in cui vive la sua idea di vacanza perfetta. Tutto quello di cui ha bisogno sono un po’ di provviste, sette lattine di coca cola, qualche libro, la sua musica e un formicaio. A scombinare i piani di Lorenzo giunge all’improvviso la sorellastra, in cerca di un posto dove passare la notte: la tranquilla vacanza in isolamento si trasforma per Lorenzo in un intimo viaggio alla scoperta dell’altro e del mondo.

Di nuovo, quindi, lo spazio chiuso come ambiente in cui sperimentare in vitro una realtà alternativa, decontaminata dal prossimo e dal disordine esterno. Lorenzo, come i protagonisti dei film citati, coltiva consapevole il proprio isolamento in una forma quasi snobistica, nutrendosi esclusivamente del suo ego. Ma nella sua personale battaglia non vi è nulla di poetico e nemmeno di tragico. La storia non riguarda più un uomo fatto a pezzi dalla vita e nemmeno furenti giovani in conflitto con la loro anima borghese. Qui si tratta di un brufoloso adolescente che non affronta la propria crescita. Lo spazio infatti è cambiato: niente appartamento sfitto vista Tour Eiffel o casa di buona famiglia colta piena di libri e stampe, ma una cantina polverosa zeppa di mobili appartenuti a una morta. Il protagonista vi si muove all’interno con circospezione, solo, braccato, come fosse un topo. Non vi è nulla di sublime in questo suo mondo alternativo sotterraneo e lugubre, anche perché non condiviso. Sarà l’arrivo della sorellastra, infatti, emissaria distruttrice del mondo di sopra, a dare forma e sostanza a quella che prima era solo un weekend passato a leggere libri e a osservare formiche. Come una Maria Schneider in versione dark, Olivia (Tea Falco) fa il suo ingresso avvolta in una giacca di piume nere, vera e propria incarnazione della nemesi. Il piccolo e asfittico Eden di Lorenzo viene avvelenato da questa Lulù tossica, in grado di mostrare agli occhi del fratellastro tutto il grande repertorio di dolore e bellezza che il mondo ha da offrirgli.

A differenza del romanzo di Ammaniti, dove il personaggio di Olivia entra in scena quasi come un oggetto misterioso e prende il suo posto nella narrazione in modo graduale,  il film tende a dare massimo risalto al personaggio femminile, a discapito del ragazzo, fagocitato dall’invadente personalità della sorellastra. Questo squilibrio di ruoli rischia, però, di fuorviare lo spettatore, che finisce per rimanere sedotto dalla bella e dannata Olivia, dimenticandosi di Lorenzo, sul quale Bertolucci torna nel fotogramma finale, un primo piano in frame stop che cita Truffaut e I quattrocento colpi, come a stabilire un parallelismo tra Lorenzo e Antoine Doinel, entrambi di fronte a una fase nuova e sconosciuta della loro esistenza. Se dovessimo pensare a Io e Te come al capitolo conclusivo di una trilogia dello spazio chiuso, si potrebbe dire che Bertolucci ne abbia decretato la totale sconfitta, riabilitando però il mondo quale portatore non solo di costrizioni, brutture e compromessi, ma anche di quell’assoluto che spesso viene cercato nei posti sbagliati.

Io e te (Italia 2012), 97 min., di Bernardo Bertolucci, con Jacopo Olmo Antinori, Tea Falco, Sonia Bergamasco, Pippo Delbono, Veronica Lazar..