Ripubblichiamo, in ricordo di Carlo Bordini (1938-2020), un articolo uscito su «Fondazione per la critica sociale» il 30 settembre 2019 e dedicato al suo ultimo libro, Difesa berlinese (Sossella, 2018).


Difesa berlinese di Carlo Bordini, uscito per Sossella, è un libro che pone il lettore in una dimensione in cui tutto è inaspettato e che, senza voler trarre mai una morale, ci fa entrare in alcuni momenti cruciali della storia e della politica del Novecento. Siamo di fronte a un’autobiografia che ha anche il passo del romanzo e del saggio. Ci sono la vita e la psicologia di un uomo nato alle soglie dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale – Bordini è classe 1938 – e ci sono l’Italia e l’Europa degli anni Sessanta, degli anni Settanta, del Duemila. Il privato e il pubblico serpeggiano di pari passo, a volte si sovrappongono, a volte sono in contrasto. Una narrazione intima, subliminale si incastra sempre con una di superficie, collettiva. L’effetto è interessante. Il primo motivo è che la combinazione di queste due narrazioni rende Difesa berlinese anche un libro di poetica, in cui ci è consegnata una visione sulla vita e sul ruolo dell’intellettuale e del militante politico nel secondo Novecento. Questa visione è il risultato di un lavorio di diversi decenni. Come I costruttori di vulcani, la raccolta che racchiude le poesie di Bordini dal 1975 al 2010, anche Difesa berlinese riunisce prose precedenti: Memorie di un rivoluzionario timido (iniziato nel 1976 e pubblicato nel 2006), Gustavo. Una malattia mentale (prima versione scritta nella seconda metà degli anni Ottanta e pubblicato nel 2006) e Manuale di autodistruzione (scritto tra il 1993 e il 1994, pubblicato nel 1998) – il primo è un memoir in prima persona, il secondo potrebbe essere una sua versione narrativa per frammenti in terza persona, e il terzo è una specie di prontuario che, come un distillato sapienziale degli altri due, contiene delle massime di comportamento il cui tono può far pensare al libro dell’I-Ching.

C’è una composizione stratificata e accurata dietro l’incastro tra autobiografia, romanzo e saggio, che offre una trama singolarmente irregolare, imprevedibile, simile alle confessioni di un uomo sdraiato sul lettino dell’analista. In questa dimensione dove, come si diceva, tutto può essere inaspettato, Bordini mette bene a fuoco un punto: la critica alle illusioni, come scrive Guido Mazzoni nel saggio introduttivo a Difesa berlinese. Il libro abbatte l’illusione delle ideologie politiche, in particolare quella del comunismo, e della figura dell’intellettuale militante; l’illusione di un eterno progresso culturale ed economico in Occidente; l’illusione dell’eterna fedeltà in una storia d’amore, di un amore che duri per sempre. È un libro che parla di fallimenti, di sconfitte, di perdite, desacralizza i miti della politica e degli affetti, ci presenta gli eventi della vita di un uomo e di mezzo secolo di storia in un pacato alone nichilista e ironico, e al tempo stesso in una condizione molto umana di fragilità, nuda, tenera. Tutto questo con una coerenza e una tenacia encomiabili, così come solo un nostalgico romantico può fare («C’è in me un’ironia, una tendenza alla comicità e al paradosso che si intreccia con l’aspetto romantico e passionale», scrive Bordini in Autoritratto). Verrà forse un dubbio: se è giusto smascherare le illusioni, di fronte alle sconfitte e ai fallimenti non c’è davvero altra risposta se non un nichilismo sagace e bonario, cioè non aggressivo? Bordini critica gli scrittori «di sinistra», gli scrittori «progressisti» perché «patteggiano spesso con la realtà»; nella prosa Gli scrittori di destra esalta le qualità di questi scrittori – Pound, Céline, … – per la loro capacità di essere crudi, disillusi, quindi veri. Chi è «di sinistra» e «progressista» sarebbe irrimediabilmente malato di speranza e la speranza non farebbe altro che alimentare le illusioni: «solo chi è disperato può dire la verità» perché «la speranza confina spesso con la menzogna». Molti esempi di letteratura generalmente definita nichilista, ma anche quella della Beat Generation, ci hanno abituato a posizioni del genere. Allora, di fronte a un libro come Difesa berlinese, può venire da chiedersi: non si potrebbe riflettere in modo diverso sul significato delle illusioni in rapporto al loro tempo storico, guardando con lucidità al comunismo per quello che è stato e per quello che non può più essere, all’idea di amore coniugale per quello che è stata e per quello che non può più essere, e pensando che la speranza in fondo non coincide necessariamente con l’illusione, ma con una progettualità critica che cerca non il sogno ma la consapevolezza, il coraggio e la responsabilità della consapevolezza?

In ogni caso, è innegabile che Difesa berlinese sia un libro che con tenacia porta alla luce la poetica di uno scrittore ex-militante della sinistra extraparlamentare degli anni Sessanta e Settanta. La voce di Bordini ha attraversato di contrabbando quegli anni senza volersi mescolare con i “generali della letteratura” come li chiamerebbe Amelia Rosselli, e oggi, anche grazie alla distanza che ci separa da quegli anni, appare nella ragione del suo percorso. I Sessanta e Settanta sono stati anni in cui la poesia si è orientata prevalentemente secondo due tendenze: una politica e ideologica, della Neoavanguardia, di Sanguineti, ma in forme diverse anche di Fortini, e una confessionale, concentrata sull’espressione del vissuto. In Difesa berlinese troviamo la psicologia di un uomo e la politica; nei Costruttori di vulcani un testo come Poema a Trotskij fonde la voce dell’io e la storia. Bordini, attraversando furtivamente più di mezzo secolo, «vivendo ai bordi» e «imparando a ribellarsi strisciando» come afferma in Memorie di un rivoluzionario timido, ha fatto collassare la scrittura ideologica e quella confessionale una nell’altra (forse anche grazie alla critica alle illusioni: una poesia tutta ideologica e una poesia puramente confessionale non appaiono oggi ingannevoli?). Bordini parla di iperverità, un’idea di letteratura con una prospettiva fluida: tra la voce dell’io, che siamo abituati a chiamare lirica e che in Difesa berlinese è espressa soprattutto con tecniche che rimandano alla psicoanalisi, e la riflessione sulla politica e sulla storia. In particolare, paragona la poesia a una sorta di organismo con una struttura interna simile a quella del frattale, «perché ripete ed esprime simbolicamente a livello di microcosmo ciò che esiste a livello di macrocosmo». I due livelli si trovano anche nel titolo, piuttosto allegorico. Nel gioco degli scacchi la «difesa berlinese» è una delle «trappole» in apertura della partita chiamata «spagnola», ed è una delle mosse più antiche e più attive a disposizione del Nero. Ma “difesa” allude anche alla vita del rivoluzionario timido, che sceglie la militanza extraparlamentare, che passa dal comunismo istituzionale al più appartato e ribelle trotskismo, così come in poesia rifiuta le istituzioni letterarie. E a che cosa può alludere “berlinese” se non alla storia e alla politica del Novecento – non è Berlino unanimemente considerata quel luogo simbolico solcato, distrutto e ricostruito, attraverso guerre mondiali, nazismo, comunismo, fino alla caduta del muro?

Come per i rapporti tra microcosmo e macrocosmo nella struttura del frattale, gli incastri tra l’io e la storia di Difesa berlinese producono così una dimensione in cui tutto è inaspettato. Da un sogno allucinato o da un ricordo d’adolescenza ci si ritrova in una comune con ciclostilati sottobraccio, da una massa di giovani assiepati in un’assemblea di partito si passa al racconto di una passeggiata solitaria in un caldo pomeriggio romano. Da una prosa come Autoritratto, in cui l’autore parla con chiarezza di sé e della propria poetica, si arriva a una prosa come La zona grigia dove un occhio da storico ripercorre gli anni Settanta. Oppure ci si sposta da brani con una scrittura chiara e decifrabile a brani in cui l’ortografia è alterata e riproduce una sillabazione e una scansione sintattica inconsce. L’autobiografia, il romanzo e il saggio si allacciano in un continuo «svariare», come dice Bordini, la cui idea di sperimentazione si ispira alla musica jazz. Questo “svariare” è la caratteristica di una testimonianza che, senza voler fare una morale, da un lato riconosce il fallimento di un’illusione politica, un adattamento conformista a un posto di lavoro che garantisce la sopravvivenza e enuncia ironicamente frasi del tipo «opportunista come un vecchio rivoluzionario»; dall’altro lato, in prose come Ma noi mangiamo, attacca l’avidità degli uomini, la loro hybris, inneggiando romanticamente a un senso di colpa collettivo e una nuova cultura critica che pensi un modo diverso di vivere su questo pianeta. Ecco, dunque, un altro motivo per cui l’effetto della combinazione tra l’io e la storia è in Difesa berlinese interessante: questo libro fa vedere il rapporto tra la vita di un uomo e la collettività come una “zona grigia” tra nichilismo e speranza, progressismo e ipocrisia. Possiamo allora concludere la lettura sapendo che un immaginario letterario critico e onesto si misura sempre con la complessità dei rapporti tra il vissuto e la storia: scava e si sporca nel vissuto e cerca la storia, qualche senso sociale di noi.