Mi è rimasto nel cuore un momento del più bel romanzo femminile del Novecento. Sono pagine insignificanti probabilmente, perché l’architettura che le sostiene non prevede logiche di selezione, di preferenza. Una bambina – è Dolores Prato – riceve in regalo da un’anziana signora un giocattolo:

[…] non assomigliava a nessuno: su di una cassettina lunga e stretta, due a due quattro coppie di cavalli con un cavaliere ognuno sulla groppa; girando una manovella i cavalli si alzavano sulle zampe di dietro e ricadevano su quelle davanti. Ne volevo sapere il nome. […] Si chinò, me lo porse, disse scherzosa: «Cavalleria Rusticana». Per tutta la vita solo queste due parole (pp. 22-23).

Quando entra in collegio, la giovane Dolores ha ormai perso il giocattolo. A Roma, una sera, viene invitata ad andare a teatro: in scena va la Cavalleria rusticana di Mascagni, evento che Dolores descrive come “una felicità di cui nessuno suppose l’esistenza”. È allora che avviene la grande letteratura. Dolores ricorda del balocco, ricorda dei cavalli e dei cavalieri. “Ero tutta proiettata sul palcoscenico e aspettavo di vederli arrivare gli otto cavalli a coppia”. I cavalli non arrivarono mai.

 

Questo è Giù la piazza non c’è nessuno. Romanzo che rimane pressoché sconosciuto al grande pubblico, Dolores Prato inizia a scriverlo a gran ritmo attorno al 1973, esordiente e ottuagenaria – l’età aurea per le confessioni, come insegna Ippolito Nievo. Alla fine degli anni Settanta comincia un lungo e travagliato processo editoriale con Elena De Angeli e Gian Carlo Roscioni, presso Einaudi. Il romanzo è voluminoso, 1058 fogli. Natalia Ginzubrg procede a un lavoro massiccio di taglio e ritaglio, proponendo un titolo non amato dall’autrice, Fiume disperso: da settecento pagine il libro arriva a trecento. La Prato, in un articolo apparso sull’Espresso, viene definita «rabbiosa» per il lavoro radicale operato dalla Ginzburg. La stessa autrice concluderà la faccenda così: «ma poi ho capito e ho finito per volerle bene anche per questo. […] Avevamo ragione tutte e due». Novantenne, Dolores Prato rimette mano al romanzo agli esordi degli anni Ottanta. Sarà Giorgio Zampa a proporre per Mondadori, alla fine degli anni Novanta, l’edizione originale di Giù la piazza, quella che oggi leggiamo (rivista e ampliata) nella bella edizione Quodlibet, ma il romanzo è destinato a rimanere, malgrado tutto, di fatto mai concluso. Leggere i critici, dal dubbioso Raboni a Carlo Bo, significa comprendere come solo recentemente il romanzo impossibile – così la dicitura di Mario Baudino – venga in parte riletto finalmente senza scetticismo e senza cinismo, per essere salvato come il capolavoro che è. Questi, d’altra parte, sono stati spesso i tormenti di certa critica.

 

Ma che cos’è questo grande libro di più di seicento pagine? È un romanzo? È un monologo interiore? È un lungo diario? Tentare di rispondere è un atto riduttivo e poco affettuoso nei confronti di Giù la piazza, atto che terminerebbe con le solite, ritrite chiose: nessuna di queste cose, tutte queste cose. Di fatto la sua così singolare posizione all’interno del palinsesto letterario del saturato secolo scorso ci permette di evitare domande che, – davvero – per tentare di entrare in questo testo senza porte, in questa intricata tana, questo patchwork, questo ordigno meraviglioso di scatole, ridurrebbero il testo banalmente a ciò che non è.

 

Giù la piazza è innanzitutto il tentativo estremo da parte della sua autrice di raccontare la sua esistenza di bambina a Treia («Treja» per Dolores), comune incantucciato nelle Marche nella provincia di Macerata, ripercorrendo con una sensibilità assoluta e un’acribia a tratti irrequieta ogni momento della sua infanzia a cavallo tra Otto e Novecento. È superfluo tentare di rintracciare delle genealogie letterarie, ma non è indebito pensare a Proust quando si legge Giù la piazza, così come a Gadda, almeno per il virtuosismo descrittivo e lessicale. Con una correzione però per ciò che riguarda Proust, perché il tentativo tramite il gesto letterario di raggiungere il cuore del mondo che Proust realizza all’insegna della ricerca di un tempo perduto, nella Prato si realizza principalmente tramite lo spazio: Giù la piazza sembra davvero una Recherche dei luoghi perduti. Ho un sogno impossibile: far leggere Giù la piazza a Gaston Bachelard, perché La poetica dello spazio è forse uno dei pochi testi in grado di fare da lanterna per la lettura di un romanzo tanto fenomenologico.

 

Senza capitoli, senza parti, si può entrare potenzialmente da ogni parte per partecipare del cosmo di luoghi, oggetti, profumi, sapori, sensazioni, fantasie che tessono l’architettura di questa scrittura. La metafora migliore è senza dubbio quella del tessuto, del ricamo, del patchwork appunto, in cui i fili generano un intreccio complesso tanto sui piani della narrazione – l’uso della sintassi, il ruolo del lessico e della parola, i legami tra i luoghi, le affinità elettive tra gli oggetti, le persone, gli eventi. Si peschi un luogo qualunque del testo, dico davvero: le serie percorribili appaiono infinite, la sua geografia non rappresentabile. Mi è capitato con gesto ingenuo di tentare di marcare, territorializzare il romanzo mentre lo leggevo, con la speranza di avere delle pietre miliari per ordinare il percorso, e ho finito con il tappezzare i margini delle pagine con i nomi delle cose raccontate in quel momento dalla Prato – bauli, gelo, lardo, crema, portone, mura di Treia, a comporre una camera delle meraviglie, un cabinet de curiosité. Ci si rende conto di essere di fronte a un’autobiografia, certo, ma tra le più singolari: è un’autobiografia che si presenta in una forma enciclopedica, quasi come un trattato di tassonomia che tenta di assegnare un nome a qualsiasi cosa, dalla sala da pranzo invernale con il profumo delle mele cotogne all’angolo della stanza della casa, da una ciocca di capelli della zia Scolastica, al gambo di un tavolo, come se si potesse raggiungere il mistero più intimo delle cose seguendo il modo di camminare di un vecchio curato di Treia e come se l’interno di un confetto o di uno scrigno potesse diventare il più vasto dei mondi possibili:

 

raccolse un sasso che aveva in mezzo a due parti bianche una striscia interna rossa […]. Dentro un sasso di Treja cominciò il mistero dell’universo (p. 125)

 raramente aprivano lo scrigno [il forno di campagna], quando avveniva era come se vedessi l’invisibile centro della terra (p. 87)

 quelle tre confuse persone avevano una casa tutta per loro, una comune casa pulita con le persiane verdi; […] dentro era un fantastico mondo illustrato […] salire quelle scale, era andare in paesi favolosi, andare alla sorgente della creazione (p. 315).

Le pause tra un blocco narrativo e l’altro, l’indecifrabile spazio bianco del silenzio, della parola non detta, è il segno del respiro di una narrazione discontinua, segnata da improvvise epifanie. In questo senso Giù la piazza è anche un’opera in musica, in cui tutto si gioca nel legame segretissimo tra il silenzio e il suono, tra memoria e oblio, tra assenza e presenza, tra nascosto e manifesto. La struttura è dettata dalla cronologia dei ricordi evocati e da una sintassi asciutta, paratattica, visiva ed essenziale, dove al ritratto di un evento o di un oggetto segue quasi sempre una verità epigrammatica, una frase breve e incisiva, che annunci qualcosa di definitivo ed autentico:

sono io che non ho né calendario né orologio: se appariva cosa che avvertissi, anche una volta sola, restava eterna in quell’eterno presente che è l’eternità (p. 82).

si battevano insieme i bicchieri; quello di Zizì era pieno d’acqua. […] Se avessi capito che lui vedeva quella che ero, quanta solitudine risparmiata. Invece fui io a non capire lui. Forse la condanna a non capire i nostri anziani è la linea penosa che separa le generazioni (p. 137).

Due sono i segreti di Giù la piazza: la sensibilità raffinatissima della sua autrice e il suo impareggiabile virtuosismo descrittivo.

 

Non si tratta però solo di un difficile lavoro fotografico, votato al realismo, alla ricostruzione o alla nostalgia: i luoghi, i volti, le voci, gli oggetti rivivono tutti solo tramite la lente dell’intimità di Dolores, il suo modo di sentirli, il suo modo di vederli, anche il suo modo di distorcerli se vogliamo, di mal intenderli. Hanno ragione Chiara Cretella e Sara Lorenzetti: si tratta della realizzazione di un’architettura interiore. In questo senso è importante quanto Dolores afferma su Treia, luogo dei luoghi, centro nevralgico della narrazione e, forse, suo vero, ambiguo e complesso protagonista: «Treja fu il mio spazio, il panorama che la circonda, la mia visione: terra del cuore e del sogno” ma “io non appartenevo a Treja, Treja apparteneva a me» (p. 4). Dolores cresce a Treia dagli zii, abbandonata da madre e padre: il suo trascorso nel borgo marchigiano è segnato anzitutto da un senso di solitudine, di abbandono. Di Treia Dolores arriva addirittura addire che «non gradiva la mia presenza per le sue strade». Eppure con Treia, con i suoi volti, i suoi luoghi, Dolores stabilisce un legame elettivo, profondissimo. Così inizia, infatti, iconicamente il romanzo, nel segno del nascondimento e della separazione:

sono nata sotto a un tavolino. Mi ci ero nascosta perché il portone aveva sbattuto (p. 3).

E su questo apparente paradosso si regge il romanzo: è il romanzo del non, il non che appare nel titolo, il romanzo del distacco, della separazione, delle negazioni che segnano la vita di Dolores e il romanzo delle sue infinite, intime, profonde affinità con la realtà che le sta attorno. Persino lo stile si modula su un contrasto, che consiste nel gioco tra la lunghezza del romanzo, infinitamente dilatabile, e l’icasticità della prosa.

 

La parola ha qui, allora, un ruolo fondamentale. La parola per Dolores Prato accoglie mondi accavallati l’uno sull’altro, come nei caleidoscopi che tanto la colpivano da bambina. E misurarsi con la parola nuda, con le affinità e le eterogenesi dei fini che generano, con il loro suono e la loro costituzione, significa ottenere la forza della più potente delle lenti, lenti come quelle di uno scienziato, ma di uno scienziato delle immensità intime, per usare un ossimoro caro al solito Bachelard. Ma la parola non è solo un tramite per arrivare al reale: è essa stessa origine di un reale. Se Franco Brevini soprannomina Dolores Prato l’innamorata delle parole è perché la sua introspezione profonda non poteva non realizzarsi se non con la parola e in parola. Questo il dono stregonesco che Dolores stessa afferma di possedere: delle cose l’autrice è in grado – così dice nel racconto – di vedere «la favola dei loro nomi» (p. 234). Dolores dà i nomi alle cose, parla ai nomi e i nomi rispondono con le loro narrazioni. Ecco il mondo dietro Cavalleria Rusticana, il legame intimo, privato, di cui la Prato è unica spettatrice, che fonde il giocattolo d’infanzia allo spettacolo di Mascagni, la realtà al sogno; ecco la delusione dei cavalli che non arrivano, attesi con lo stupore del più innocente dei fanciullini. E da dove deriva questa chiaroveggenza? «Forse perché vivevo sola nel silenzio, tutto mi parlava, anche l’impagliatura di certe sedie antiche di noce. Ci vedevo il busto di una donna senza testa e senza collo, spalle vita e principio dei fianchi» (p. 123).

 

Qui sta tutto il senso del titolo del romanzo che la Ginzburg non riteneva appropriato: si tratta di un errore grammaticale che i librai e i bibliotecari continuano a correggere (fate la prova, non appena acquisterete il romanzo), lo storcimento di una canzoncina cantata durante un gioco fatto con una zia, Ernesta, la quale afferrava la piccola Dolores e fingeva di lasciarla cadere cantando “staccia, minaccia, buttiamola giù la piazza” (p. 51). Giù la piazza non c’è nessuno aggiungeva Dolores, ma in quell’errore e in quell’aggiunta (non c’è nessuno) c’è tutto il suo mondo. Nessuno è forse la grande parola di Dolores, non solo perché rende quell’indecifrabile e intimissimo titolo così suggestivo, così incantevole, ma perché in nessuno si intravede ancora una volta non solo la solitudine profonda di Dolores, ma anche quel silenzio fecondo che genera il senso, l’assenza che prelude alla presenza. Ancora una volta: «una felicità di cui nessuno suppose l’esistenza».

 

È stato il titolo, d’altra parte, ad affascinare Jean-Paul Manganaro, che ha tradotto il romanzo in Francia per Les Éditions Verdier. «C’è come una magia efficace in questo titolo, nella sua formulazione linguistica straordinaria» racconta Manganaro in un’intervista a proposito di Giù la piazza, che definisce come un unicum nel panorama letterario italiano. Il romanzo è «una favola costante, precisa e ondulante, come i nastri che certi giocolieri cinesi fanno volteggiare in sinuosi cerchi regolari e irregolari». Manganaro marca, inoltre, la femminilità del romanzo: seguendo il filo rosso, «prettamente femminile, del narrare favole» (le scantafavole che Scolastica raccontava a Dolores), si arriva ad accostare acutamente Dolores a Scheherazade, la narratrice per antonomasia. Ma qual è il gesto di Giù la piazza per Manganaro? «Afferrare il fugace: un po’ come voler afferrare l’occasione, il momento di grazia, il kairós […]. Il libro comincia con la presa di coscienza della vita e finisce con la presa di coscienza degli affetti non vissuti nel profondo di una verità impalpabile […]. Potrebbe essere infinito, continuare all’infinito […]. Pluralità di lingue, sintassi, tutto è preso nel vortice del se stesso farsi lingua, alla ricerca di un io nel quale riconoscersi potente e rivalutarsi in profondità, contro l’inadeguato confronto dell’umano e con l’umano, andando al di là di quanto gli altri pensino». Non avremmo saputo dirlo meglio.

giù la piazza

Bibliografia

M. Baudino, Prato, la rivincita del romanzo impossibile, «La Stampa», 5 dicembre 1997

G. Bachelard, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 2006

F. Brevini, L’innamorata dei nomi: l’opera autobiografica di Dolores Prato, Treia, Milano 1989

C. Cretella, S. Lorenzetti, Architetture interiori: immagini domestiche nella letteratura femminile del Novecento italiano: Sibilla Aleramo, Natalia Ginzburg, Dolores Prato, Joyce Lussu, Franco Cesati Editore, Firenze 2008

Sitografia

https://www.doppiozero.com/materiali/nel-deserto-di-dolores-prato-intervista-jean-paul-manganaro