Maiser (marcos y marcos 2017), ultimo libro di Fabiano Alborghetti, sembra essere impostato sulla visione tradizionale di una ciclicità storica, in cui apparentemente non cambiano i fattori e terminata la vicenda ci si ritrova al punto di inizio. Nulla sembra cambiato, ma non è così.
Sarà infatti con il passaggio del testimone ai figli che avrà fine la storia di Bruno, nativo di Amelia – piccolo paese in provincia di Terni – che sceglie la via dell’emigrazione in Svizzera, inseguendo come molti nel mito estero un’utopia di benessere di fatto però irrealizzabile. Il titolo, Maiser, traduce l’espressione “polentone”, “uomo del mais”, termine dispregiativo con cui venivano chiamati i lavoratori italiani in Svizzera e dice già molto su questo romanzo in versi. Non siamo infatti di fronte a una silloge di componimenti, ma ad una forma poematica. Il libro, diviso in tre parti a loro volta composte da sezioni, è scandito da indicazioni cronologiche tra 1948 e 2008; sessant’anni di vita quindi, ma soprattutto sessant’anni di storia italiana.

Il racconto prende le mosse dall’innamoramento di Bruno, che pedala da Mezzopicchio a Giove – frazioni di paese – per raggiungere Fermina al centro dell’Italia contadina e postbellica. Poi, la storia della loro emigrazione, dello sguardo di paesani spaesati, traghettati attraverso la grande Milano fino a Mendrisio, Canton Ticino. In mezzo a questa vicenda l’intrico del legame familiare, le storie dei padri, dei fratelli e poi l’improvvisa lontananza e la paura per quella catabasi in un mondo incognito, freddo e forse ostile.
Tema fondamentale al centro del testo è lo sradicamento, aggravato nelle contingenze da un mondo ancora digiuno di intercultura.
La decisione di abbandonare l’Italia corrisponde, in Bruno e Fermina, alla scoperta della realtà – avvenuta sulla base di necessità e bisogni –, a un viaggio nell’ignoto, rientrando in larga parte nei crismi del romanzo di formazione. Tuttavia, lungo il corso della narrazione, il desiderio di “tornare indietro”, il desiderio del nostos si fa sempre più solido, specialmente in Bruno, fino a diventare una profonda ossessione; vero e proprio ritornello dalla metà del testo in avanti. Bruno e Fermina pagano così lo scotto dell’esperienza, rischiando di restare invischiati in una contraddizione dal sapore nichilista: non si può tornare indietro (se non per le estati e i Natali), giacché si è partiti proprio per la mancanza di prospettive; allo stesso tempo, però restare significa soffrire una lacerazione.
Ciò che muove Bruno all’emigrazione è la consapevolezza contadina che «tutto ha un suo posto», che non possono esistere sprechi, nell’ottica religiosa per cui, chi lavora bene, bene sarà ricompensato («Che molto si trova in quel mare d’erbe / e non vanno sprecati. / Ci si fa i pani e tutto ha un suo posto, persino i ginocchi / consumati sul suolo, persino gli scarti / che scarti non sono ma suono di bocche.»). Eppure questo sistema di certezze salta non appena entrati in Svizzera, che si dimostra una salvezza illusoria, trasformata ben presto in inferno privato e collettivo, fatto di fatiche incessanti nel lavoro e di dura discriminazione:

                               Quanta tristezza e quanta la nostalgia
viver lontani da te, Italia mia
è questo che canta Luciano Tajoli e Bruno
lo sa, ed è una canzone che lui suona sempre
e accade talvolta che qualcuno la canti
seguito in un coro dalle voci di tanti.

pexels-photo-575102

Due disegni dipendenti tra loro paiono emergere con chiarezza all’interno dell’opera. Il primo è l’intento manzoniano di trascendere la vicenda del singolo e inserirlo nella grande Storia (e da Manzoni a mio avviso è ravvisabile un forte debito di impostazione narrativa, a volte anche velatamente citata: «Dei sindacati nessuno è d’accordo / e quel referendum non s’ha da fare.»). Il linguaggio si carica spesso di parole politicizzate (tra le occorrenze maggiori, il «padrone») evidenziando la condizione dei subordinati e la loro sete di diritti; sete, si badi, guidata non da fedi politiche, ma da necessità e bisogno, gli stessi elementi che muovono le migrazioni. Ma non è solo attraverso questi elementi che la Storia fa capolino nella vicenda privata di Bruno e Fermina. Proprio come in Manzoni, infatti, la Storia diviene un attore che invade con la sua durezza le vite raccontate: c’è il fascismo, la guerra e la paura, e poi la speranza, la televisione, ma anche le inquietudini degli anni di piombo, le alluvioni e i terremoti, la bomba di Bologna. Un’Italia che dispiega la sua narrazione a fianco dei protagonisti, divenuti anch’essi spettatori, prima di una disillusione e poi del pericolo («e Fermina che prega quando Chiara va a Como / come fosse l’Italia la parte sbagliata»), sempre però nella chiave fondamentalmente passiva di chi la Storia la può solamente subire, non modificare.
La seconda istanza è invece il tentativo, anch’esso dal sapore manzoniano, di raffigurare attraverso il passato alcune problematiche del presente sociale, prime tra tutte la crisi del lavoro e l’immigrazione. Proprio su quest’ultimo punto si spendono alcune delle pagine migliori del testo; la Svizzera infatti si dimostra un paese ostile sotto più profili:

Avere figli è ancora vietato
o meglio: si può
ma che restino a casa
che per via del permesso non è ancora concesso
avere famiglia e soprattutto la prole
che la Svizzera è aperta ma per dare lavoro
non è un asilo
e asilo non dà.

Culmine di tale ostilità è rappresentato dal referendum indetto da James Schwarzenbach nel 1970 atto a diminuire la percentuale di stranieri sul suolo Svizzero dal 54% al 10%. Questo, dice l’autore stesso in nota al testo, avrebbe potuto generare l’espulsione di circa 300.000 italiani. L’intolleranza con cui viene dipinta la parte xenofoba del popolo svizzero ricorda toni, slogan e frasi fatte che si fanno strada tra la gente in maniera acritica e viscerale, sulla scorta di un miope egoismo, cavalcato dai politici più accorti (fenomeno a cui siamo sempre più abituati e appetito con il quale dobbiamo fare i conti dentro e fuori le urne – come tratta La gente un lucidissimo saggio di Leonardo Bianchi):

                                                […] ma troppe già
ne han dette la gente, ripetendo e insultando
senza troppo capire
e ormai sono mesi che va avanti così.
Mandar via gli stranieri
pare il verbo comune o la religione […]
Un uomo è al centro di uomini forti
che tuonano e gridano
di volgarità, di numeri e braccia
e quote in eccesso
di confini e di ladri, di invasori bisunti
di mostri affamati senza arte né parte
che vengono qui a rubare le donne
il lavoro e le case, sul patrio suol.

Tale percezione degli eventi come pura passività circoscrive l’azione dei protagonisti al loro campo privato, alla limitata gestione della propria vita, nel tentativo di renderla solida di fronte ai colpi della Storia, senza però mai raggiungere un effettivo equilibrio. Bruno tenta di trovare il proprio posto nel mondo, illudendosi a tratti di esserci riuscito, ma riconfermando costantemente i propri dubbi, che si aggravano col passare del tempo portando agli estremi quella frizione già detta tra ritorno al passato e vita presente. La geografia personale inizia ad impazzire sovrapponendo tempo dell’azione e tempo della memoria: a Mendrisio si cerca Amelia e ad Amelia Mendrisio, in una lacerazione sempre più evidente, senza soluzioni, che toccherà anche i figli:

                                      Fuori posto e precari
perché brutale è talvolta
il non sapere che lato:
italiani o stranieri oppure svizzeri nati.
L’intera vita
che superficie slabbrata. È aritmetica
ed è il terrore
un pellegrinaggio di vinti tra i luoghi
del cuore
ma che cosa siamo?

Eppure è proprio ai figli che sarà demandata la sutura di queste ferite, dal momento che Bruno diverrà impotente, annichilito da un alzheimer – quasi oggettivazione delle sue ossessioni – che si scopre essere male ereditario, anche di padri e fratelli. Il motivo della malattia imposta tutta l’ultima sezione del libro, dedicata alle fatiche di chi deve accudire, agli imbarazzi dei figli e alla difficoltà del relazionarsi, dipingendo un quadro estenuato e riuscito – da affiancare senz’altro ad altre esperienze poetiche di rapporto tra poesia e alzheimer quali Ricordi di alzheimer di Alberto Bertoni o l’ultima Vivian Lamarque, oggi peraltro raccolte, insieme ad altre, in un’antologia di Franca Grisoni dal titolo Alzheimer d’amore:

Poi mi racconti di quando è stato l’inizio
i piccoli segni senza appiglio né storia
i nomi mancati o mancanti i dettagli
le chiavi di casa lasciate là
poi il più manifesto e fu dopo la spesa
la strada perduta dalla Migros[1] per casa
che è tutta diritta ma poi chissà
una svolta un cartello
e c’ha impiegato due ore
traversando campagne fino giù a Novazzano
bestemmiando incazzato con Fermina di lato
con le mani giunte dire Bruno hai sbagliato.

1. Supermercato svizzero

pexels-photo

Perso Bruno la storia proseguirà su altri vettori: la morte dell’eroe consegna alla stirpe la possibilità di sanare i conflitti nel futuro. Ed è per questo allora che il narratore eterodiegetico si rivolge a Chiara, figlia di Bruno e deputata a tale compito, costruendo tutta l’ultima sezione e il finale su un meccanismo di allocuzione, totalmente assente nella narrazione precedente. La storia e il suo infinito potenziale migra nelle mani di nuovi protagonisti:

                                                 È qui
tutto quello che resta ed è molto
anche se lui non c’è più. Ci sei tu.
Ti chiedo d’iniziare daccapo
il racconto
la storia
iniziando da dove ti pare
da dove è più opportuno
qualcosa di te o Fermina o di Bruno
non importa da dove

La dimensione narrativa trionfa così nel finale, giustificandosi e motivando nel ciclo della storia in perenne rinascita, come le generazioni umane, la scelta della forma romanzo. La mossa dell’autore sembra chiara: solo attraverso il recupero di una chiave narrativa si può raccontare questo presente atomizzato, recuperando, insieme ad essa, la profondità della prospettiva che la Storia ci consegna. La soluzione delle forme epico-narrative è una via esistente ma minoritaria nonostante alcuni esempi brillanti (si pensi a Pagliarani, a Cefalonia di Ballerini o, tra gli altri, alle indagini di Vincenzo Frungillo). La difficoltà con cui si deve confrontare chi sceglie questo tipo di forma è senz’altro la modalità attraverso cui mantenere solida e senza flessioni una struttura del genere.
Il dettato poetico di Alborghetti risulta impostato sulla volontà di ottenere un ritmo quanto più costante. Tale ritmicità è scandita spesso dal doppio senario – il che avvalorerebbe la tesi manzoniana, dal momento che è il metro del coro dell’Adelchi – seguito da un distico di senari a spezzare o a concludere la cadenza. La metrica, comunque, pur non essendo sempre regolare tende a non voler perdere l’illusione della ritmicità; i versi lunghi oscillano infatti tra il decasillabo e il tredecasillabo, mentre le misure brevi tra il quinario e il settenario. Accanto a quest’uso del verso troviamo poi un largo utilizzo di ripetizioni e rime – specie baciate o al mezzo –, spesso molto insistenti:

talvolta con Nerio e più spesso è Urbano
dare un colpo di mano
che anch’esso è salito
e ha trovato mestiere nei cantieri a Lugano
dapprima operaio lavorando di mano […]

Altre volte invece si sfruttano figure di suono come assonanze, paronomasie, allitterazioni («e il pensiero di Bruno fa spire sperando»), fino ad un vero e proprio apparato di clausole formulari volte a connettere tra loro passaggi notevoli del testo. A titolo di esempio:

E conosce Fermina di altre famiglie
con figli bardasci o potti o neonati
da qualche parte in Italia
rimpatriati
e cresciuti dai nonni
come vuole la legge, famiglie divise
per mantenere il lavoro […]

Ripreso una decina di pagine dopo:

E conosce Fermina di altre famiglie
con figli bardasci o potti o neonati
rimpatriati
cresciuti dai nonni da qualche parte in Italia
di famiglie divise per mantenere il lavoro
come vuole la legge.

O ancora, riferendosi prima alla prigionia in Grecia durante la guerra e poi all’arrivo in Svizzera:

[…]
imparando la lingua per farsi capire
kalimera, kalispera, ephkaristò, parakalò
che differenza tra la vita o il morire
fu prima capire e poi somigliare

che diventa:

[…]
quella lingua imparata per tirare a campare
kalimera, kalispera, ephkaristò, parakalò
che differenza tra la vita o il morire
fu prima capire e poi somigliare

Talvolta, però, il dettato non tiene e i versi perdono di cadenza impantanandosi e risultando a volte stagnanti, altre traballanti. Ciò che infatti attenta alla struttura ritmica è proprio quella narrativa. I due poli, in tensione equilibrata per la maggior parte del testo, entrano a volte in contrasto regalando un andamento prosastico in frizione con l’apparato ritmico e retorico che risulta appesantire, in questi casi, i versi:

Calcando a ritroso nostalgia e silenzio
se n’è andato via.
Qualcosa c’è stato in tanta durezza
gli anni ad esempio
per la conquista di un futuro migliore
o troppi lavori che han sciupato la schiena
ma non si può stare
in due case diverse, né spezzare il cuore
o star vivi a metà.

Maiser resta però un libro notevole, soprattutto per alcuni aspetti, primo tra tutti l’indagine storica e il lavoro preparatorio che ha impegnato l’autore per sette anni alla ricerca di notizie, documenti e dati, tutti raccolti in un ricchissimo apparato di note in calce al libro. La meditazione storica che esso offre e la riflessione diacronica sull’impatto che i grandi eventi hanno nello strato più basso della società, unitamente ai riferimenti ad alcune problematiche odierne, fanno di Maiser un’opera attuale, portata avanti attraverso una lingua duttile e mimetica, spesso usando il dialetto umbro o un lessico settoriale, specialmente agricolo («Poi l’imballatrice, per compattare il foraggio / – qui nun c’è il pajaro e nemmeno lo staggio»).
Anche sul piano formale quindi è da menzionare la validità della ricerca. La volontà di recuperare il senso narrativo in poesia, attraverso i propri mezzi specifici, ben diversi dalla prosa, include Maiser tra i tentativi poematici di riguardo, dimostrando però come ancora le forme lunghe – non solo in questo libro – fatichino a trovare un loro equilibrio.