Leonardo Sciascia aveva un’intelligenza acuta e un’attitudine profonda alla meditazione. Quella specie di attitudine che rende veggenti. L’aveva dimostrata già all’inizio degli anni Sessanta svelando a un Paese ancora incredulo il volto della mafia (esercizio in fondo elementare per la sua sensibilità di siciliano) e poi l’aveva affinata cercando di ricostruire le trame occulte, i fili invisibili attraverso cui eminenze grigie e padroni del vapore gestivano il potere in Italia. Più tardi, negli anni di piombo, i tempi del compromesso storico e degli scandali massonici, si sforzò di applicarla alla politica, nel senso nobile di servizio alla comunità, che costituiva la sua più recente passione.

“In Italia non c’è che la sinistra per fare una buona politica di destra”. Con questo slogan, scandaloso all’epoca e oggi perfettamente comprensibile, Sciascia teneva a battesimo, almeno nella sua fantasia, la fase post-ideologica della politica italiana. Era l’autunno del 1978, segnato dal recente sconquasso dell’affaire Moro e dalla prospettiva di nuove elezioni politiche: lo scrittore rilasciava a Nico Perrone una lunga intervista-confessione destinata ad essere pubblicata di lì a poco sulle colonne del “Manifesto”, giornale di punta della “sinistra dissidente”. In realtà l’intervista sarebbe comparsa solo qualche settimana più tardi, rinviata e rimaneggiata dalle apprensioni della censura.

Nel fitto dialogo Sciascia si esprimeva sull’arte e la letteratura, Moro e il “metodo democristiano”, il Pci e la sua fresca esperienza di “scomunicato” dal partito, ma affrontava anche temi più generali, che sembrano tratti dalle pagine dei giornali di questi tempi e sono in fondo vecchi come il cucco. Il malcostume politico, lo scollamento tra il Palazzo e il paese reale, la “questione morale”… Alla politica rimproverava la logica conservativa e autoreferenziale, la “difesa di cose morte”; dei politici lamentava la scarsa preparazione e la dubbia intelligenza, incarnate dal “prototipo” Andreotti: fintamente astuto, volutamente cinico, tutto sommato mediocre. Addirittura lo scrittore giungeva a denunciare l’inconsistenza delle assemblee elettive, dai consigli comunali alle camere parlamentari. Un cane al guinzaglio di ben più potenti padroni, questo era a suo parere il Parlamento: una convinzione di cui Sciascia avrebbe cercato conferma tra i banchi di Montecitorio, deputato del Partito Radicale; una convinzione che avrebbe ribadito nel 1983, quando, annunciando la fine della sua carriera parlamentare, commentò amaro: “Il potere sta altrove”.

Ma allora, nell’autunno del 1978, Sciascia faceva un discorso più ampio sui mali del mondo, disegnava lo scenario avvilente di un gigantesco “suicidio nella stupidità”. La vita ha perduto di serietà, aveva fatto dire qualche anno prima a un personaggio minimo, e voleva denunciare lo scandalo di un mondo che procede ormai senza coordinate morali, un mondo dove gli uomini inseguono la felicità come andassero dietro a un accompagnamento funebre: senza gusto, forse senza sentimenti, per abitudine. Più della povertà e delle epidemie, più della guerra e dell’inquinamento, gli sembrava che il vero male di fine millennio fosse la “spersonalizzazione”: il perfido sortilegio che impedisce agli individui di sentirsi e agire come persone, la superficialità nei rapporti e nei sentimenti, il vuoto delle idee, l’assenza desolante di “calore umano”. Di globalizzazione all’epoca non si parlava ancora, ma Sciascia ne aveva già intuito il rischio più grave: l’omologazione. Raccontava la vecchia Sicilia, quella dei contadini e degli zolfatari, della famiglia estesa e del matriarcato nascosto, come una cosa della nostalgia, ombra di una dimensione perduta per sempre. “Ora è come dovunque”, e lo diceva con una stretta di dolore fisico.

Il progresso proprio non lo “faceva persuaso”: dietro alle luci di facciata tendeva a vederne il risvolto oscuro e pericoloso. Il trionfo del mercato e dello scambio si accompagnava nella sua testa a un sinistro bagliore di decadenza, un senso di fine incombente, vicino al clima dell’Europa alla vigilia della Prima Guerra Mondiale ma ancora più drammatico, perché legato a cambiamenti vorticosi e dirompenti, a una rottura completa della continuità storica, a un distacco suicida dai valori della tradizione. La sua generazione vi aveva contribuito in maniera decisiva, commettendo errori imperdonabili, piegandosi all’adorazione di falsi idoli, sacrificando mille “inutili” verità all’unica verità suprema, il “sol dell’avvenire”: l’idea che un mondo perfetto si potesse non solo concepire ma addirittura costruire con la forza di una rivoluzione. Alle contraddizioni del capitalismo capi politici e raffinati intellettuali avevano risposto soffiando nel mantice di un’utopia mostruosa. Cose ovvie, verità evidenti, che Sciascia svelava ben prima che la storia le certificasse. Alla caduta del muro di Berlino mancavano dieci anni, ma nella testa dello scrittore nessun muro restava delle prigioni costruite dall’ideologia, delle vuote cattedrali consacrate al mito del progresso. Niente restava, se non il vuoto e una confusione al limite dell’anarchia, e il desiderio di scavare tra le macerie, raccogliere i brandelli per rifondare un ordine.

“Non vorrei avere vent’anni”, ammetteva candidamente Sciascia; e in quella confessione c’era tutta la pena per gli spaesati ventenni di allora, la stanchezza di una generazione che al destino chiedeva solo di consumare il suo tempo, la triste consapevolezza che in un mondo “vecchio” la saggezza, scabra dolorosa saggezza, è un valore più prezioso dell’esuberanza.

Non si trova traccia di antidoti in quella lontana intervista del 1978: nessun percorso di redenzione, nessuna formula di riscatto. Il riscatto, quello suo personale e del mondo che lo circonda, Sciascia lo affida alla letteratura e alla testimonianza di vita, alla riscoperta delle radici e al culto dell’armonia, al viaggio a ritroso nelle origini e nelle ragioni della nostra cultura. La “sicilitudine” e il meridionalismo dello scrittore di Racalmuto sono, più o meno consapevolmente, richiamo alla classicità. All’equilibrio tra il negozio – il rapporto sociale e lo scambio economico, che tanto nettamente hanno preso il sopravvento nella società dei consumi – e l’ozio, nel doppio significato di riposo e meditazione, solitudine pensosa e rigenerante.

La modernità ha perso il ritmo, si è votata a una velocità sterile, ha imboccato una spirale di ansia, insoddisfazione, isterismo che lascia poche speranze per il futuro. L’uomo ha superato se stesso, in una dimensione molto diversa da quella, spirituale, auspicata da Nietzsche, nell’incapacità di sostenere il progresso che egli stesso produce. Eppure esiste, sempre più stretta ma esiste, secondo Sciascia, una via d’uscita. È lo stesso scrittore a spiegarlo in una rara apparizione televisiva all’inizio degli anni ’80. “Dio è morto, Marx è morto, ma io sto bene”, dice tra l’orgoglio e l’ironia, “e prometto di vivere e riflettere, guardare e andare a fondo nelle cose”.

Gli restava, in realtà, non molto da vivere e un cruccio ancora più grande del male che lo minava: il tarlo di una visione sconcertante, una terra devastata da ipocrisie e approssimazioni, che mai fino alla fine smise di combattere. L’attenzione, l’approfondimento, la cura – nella forma e nei contenuti del pensiero – un agire sofferto e “sensato”, al di là della coerenza e dell’incoerenza, sono il grande messaggio che Sciascia consegna alla nostra civiltà malata.