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 Bisogna dire innanzitutto, per non tradire la verità storica dei fatti, che la Titìna nella lampara di suo nonno Tata Cosi se n’è portati tanti. È un’abitudine che ha preso fin da ragazzina, quando nelle sere d’estate andava ad assistere ai tornei di bocce organizzati dalla Proloco di Gallipoli nell’entroterra coltivato a ulivi, a poca distanza dal Porto Vecchio. Lì erano ambientate tutte le storie che sentiva raccontare su Tata Cosi, pescatore abilissimo e conquistatore di donne, noto soprattutto nelle osterie con mescita sparse lungo la direttrice della Costa Ovest. Forse per via del fascino che quelle storie antiche hanno esercitato sulla sua mente di giovinetta, forse per il gusto innato della caccia seriale ereditato dal nonno, fatto sta che la Titìna nelle torride sere d’estate è sempre in pista, cominciando dalla consultazione diligente dei programmi di feste danzanti disseminate sul territorio della Regione Puglia, fino al rito notturno delle tenerezze in mare, sempre uguali e sempre nuove. Nuove, s’intende, per chi non conosca approfonditamente le abitudini della Titìna, o anche per chi, come Leopoldo De Cumis, della Titìna non sapesse nulla del tutto e per sovrappiù si fosse innamorato. Lui, il suddetto Leopoldo, non è mai stato un ragazzo timido e impacciato, come qualcuno di voi potrebbe pensare, e non è nemmeno uno sprovveduto: vincitore di svariati tornei regionali di tennis, tiratore di scherma non spregevole, campione provinciale di pallanuoto con segnalazione speciale nella classifica dei marcatori, ottimi voti al liceo classico “Amerigo Vespucci” di Galatina e primo premio assoluto al concorso di poesia “L’angolo di Virgilio”, a cui ha partecipato nel lontano 1979 con un testo underground in anticipo sui tempi, intitolato Manifesto degli straccioni, che vi riporterei qui di seguito in forma antologica, ma che sono costretta ad omettere per ragioni di spazio. Vi dirò solo che in un punto si leggevano le seguenti parole: «senza soldi allora/senza soldi oggi/senza soldi tutta la vita», precisando, per dovere di cronaca, che il passaggio qui citato non era autobiografico: la famiglia De Cumis, infatti, pur non avendo ascendenze nobiliari (il De davanti al cognome lo ha fatto apporre a pagamento un avo del Leopoldo, contadino scaltro divenuto proprietario terriero in seguito a speculazioni riuscite e non del tutto limpide avviate ai tempi della Grande Guerra) si è arricchita considerevolmente con l’edilizia popolare e la gestione di cinque farmacie nel territorio di Gallipoli. Viaggi-vacanza in California, dimora storica con terrazza rocciosa sulla baia naturale di Porto Selvaggio, yacht di medio cabotaggio, auto di grossa cilindrata e nove cani (di Peppo, uno spezzer gigante protagonista di avventure notevoli, diremo in seguito). Il Leopoldo, vuoi per le sue doti di studente modello, vuoi per la posizione sociale della sua famiglia e vuoi, non da ultimo, per l’aspetto aggraziato del suo viso e per certe stravaganze nei modi, era tenuto d’occhio dalle compagne di classe e dalle ragazzine in soggiorno turistico temporaneo nella costa Ovest della penisola salentina, blandito e corteggiato per un aiuto nei compiti pomeridiani o per un’uscita serale al chiaro di luna, mangiando lupini e semi salati di girasole. Un bel giorno il Leopoldo, che aveva avuto svariati flirt con le coetanee più scaltre fin dai tempi del ginnasio, portandole nella dependance in cui si era ritirato per non avere a che fare, ad esclusione delle ore pasti, con gli altri membri della sua famiglia di borghesi sfruttatori, mentre passeggiava sul lungomare di Gallipoli durante la festa patronale di Santa Cristina, aveva visto dall’alto della strada che conduce al Porto Vecchio due signorine in shorts e occhialoni da sole che facevano lo slalom fra i banchi del pesce e le cassette dei ricci di mare impilate in equilibrio instabile, dando di gas fino alla quota massima e ridendo come matte scatenate. La signorina alla guida del mezzo sopracitato era la Titìna, naturalmente. Per il De Cumis era stato un colpo al cuore, un fulmine a ciel sereno, uno squarcio nell’anda quotidiana delle abitudini leopoldine, regolate sugli orari delle palestre e scandite dalle letture dei filosofi e dei poeti americani beat nelle rare traduzioni in lingua italiana. Leopoldo cominciò da allora a trascurare gli allenamenti in piscina, colando a picco nella classifica dei marcatori, poi disertò i tornei di scherma, poi fu la volta del latino e dei Minima Moralia, infine, fatto gravissimo, gettò la racchetta da tennis, abbandonandola in un angolo del giardino, sotto il ficus macrophylla, dove Peppo l’aveva scovata casualmente e l’aveva ingoiata quasi intera, con le corde di budello e tutto il resto. Leopoldo non pensava che a lei, alla Titìna, giorno e notte, e le scriveva lettere d’amore interminabili e segrete, che poi gettava via dalla finestra, sempre nel giardino (solo Peppo ne aveva mangiate un centinaio o giù di lì, tanto che la domestica aveva dovuto farne parola con la madre del signorino, la signora Fedra, temendo per l’animale un’intossicazione grave da cellulosa). Insomma, per farla breve, Leopoldo si mise a far la corte alla Titìna con lo stesso scrupolo diligente e la stessa strenua abnegazione con cui aveva parato i colpi di diritto e di rovescio del maestro di tennis, e tanto disse e tanto fece che la Titìna si accorse di lui, accettò i suoi regali, poi le poesie, infine le lettere d’amore (a cui tuttavia non rispondeva mai per ragioni di tempo). E fu così che il De Cumis, da allora in poi detto il Somarasso, si fidanzò con la Titìna, se la portò in vacanza in California e infine se la sposò, senza chiedersi che fine avesse fatto la sua racchetta da tennis, senza mai più rimetter piede in una piscina comunale, senza che gli venisse in mente, neanche una volta, di tentare il metro irregolare di una poesia underground, e senza sapere mai che sua moglie, la Titìna appunto, aveva ereditato fin dalla nascita la lampara di suo nonno, convenientemente ormeggiata in una baia solitaria, vicino al Porto di Gallipoli Vecchia.

PicsPlay_1357224882472Nunzia Palmieri