À quiconque a perdu ce qui ne se retrouve/Jamais, jamais!

Charles Baudelaire, Le cygne

Come ha dimostrato il numero esorbitante di pubblicazioni ed eventi organizzati lo scorso anno, in occasione del “centenario proustiano” (dalla morte, avvenuta a Parigi il 18 novembre 1922) Marcel Proust “fidelizza” ancora oggi, un numero altissimo di lettori “non specialisti”. Esistono di certo diverse spiegazioni di un fenomeno che ha davvero pochi eguali nella storia della letteratura (Dostoevskij, Shakespeare e quasi nessun altro) ma, per rimanere in ambito letterario, si potrebbe sostenere, in accordo con il celeberrimo Proust et le signes di Gilles Deleuze, che a chiunque accetti di seguirlo, Proust promette, e via via fornisce, un “sistema di segni”, di chiavi di lettura che non solo giustificano “dall’interno” la sua opera (e in special modo la Recherche, creando dei percorsi tematici che si snodano lungo tutto l’arco narrativo del romanzo: la percezione del tempo, l’amore e la gelosia, la mondanità e lo snobismo, l’arte…) ma sono applicabili anche al di fuori di essa, vale a dire alla “realtà esterna”, alla serie di convenzioni, convinzioni, alibi e idee che albergano dentro e fuori il lettore.

È in questo quadro che si colloca la meritoria, e da tempo auspicata, ritraduzione e ristampa della prima silloge di racconti proustiani, Le Plaisirs et les jours (I piaceri e i giorni, traduzione e curatela di Mariolina Bertini e Giuseppe Girimonti Greco, Milano, Mondadori, 2022), ampliata con alcuni racconti non inclusi dall’autore nel volume originale e con il commento e le note di Luzius Keller, ripresi dall’edizione Boringhieri del 1988 (ora fuori commercio). Molto più di una semplice “riedizione aggiornata” per esperti ed appassionati, I piaceri e i giorni è di certo avvicinabile come incubatore di tutti i grandi temi che ritorneranno poi nell’opera maggiore, ma d’altra parte il suo indubitabile valore letterario, certificato dai migliori tra i racconti che lo compongono, gli permette un ampio grado di autonomia anche in sede di giudizio critico. Salvo alcuni testi improntati ad un’affettazione eccessiva (mi riferisco ai Frammenti di commedia all’italiana, ma questa è anche questione di gusto imputabile a chi scrive), è quindi impossibile derubricare I piaceri e i giorni a una semplice prova giovanile, canovaccio abbozzato della gloria futura.

Una delle peculiarità che rende l’opera unica (o, perlomeno, non del tutto fagocitabile dalla Recherche) è il leitmotiv che tiene insieme i vari ed eterogenei racconti che Proust ha voluto riunire in volume, vale a dire il topos, variamente inteso e declinato, del fantasma come simbolo e come metafora dell’irreparabile. O almeno, questo è quanto ci si propone di dimostrare qui.

Nella sezione centrale del libro (i brevi poèmes en prose che compongono I rimpianti, fantasticherie color del tempo), troviamo un piccolo gioiello di appena tre pagine, Lo sconosciuto. Si tratta di un racconto fantastico che oscilla tra richiami ottocenteschi (la tradizione che da Hoffmann arriva a Maupassant) e nuove inquietudini novecentesche. Gioverà ricordare che qui si usa il termine “fantastico” nella sua accezione più “stretta”, quella definita (dopo una serie di aggiustamenti) da Ferdinando Amigoni: un racconto fantastico è un tipo di narrazione che crea un’impasse non aggirabile e stravolge il “senso di realtà” del lettore con un “qualcosa d’altro” che lo mina dall’interno e annulla il principio di non contraddizione.

In un racconto fantastico, quindi, è impossibile decidere se ciò che avviene cada nel perimetro della “realtà” oppure no. Ne Lo sconosciuto (L’Étranger, in francese, come il primo dei poèmes en prose di Baudelaire) avviene esattamente questo: Dominique, il gioviale e frivolo protagonista, attende la solita compagnia di amici e sodali per cena. Tuttavia, introdotto da un’atmosfera sulfurea che strizza l’occhio al XIX secolo, Dominique si trova faccia a faccia con uno sconosciuto, che pare materializzarsi nella stanza dal nulla e lo esorta a rinunciare alla vuota compagnia degli invitati per rimanere finalmente «in compagnia di se stesso». Nel “fantasma”, Dominique riconosce così la parte migliore di sé, talmente obliata sotto la stolidezza e l’abitudine da essergli divenuta ormai “estranea”, sconosciuta, tanto che infine la scaccerà per far posto agli ospiti che bussano impazienti alla porta. Come nella migliore tradizione, il fantasma riunisce su di sé la coincidenza di passato e futuro.

Nel caso di Dominique, l’apparizione è da un lato il rimpianto/rimorso, l’impossibilità di tornare indietro e liberarsi di ciò che è stato, e dall’altro la raffigurazione dell’avvenire prossimo e remoto, vale a dire la certezza che neppure col tempo si potrà deviare dal solco ormai tracciato, che si procede a passo di marcia verso la morte, estetizzata da molti personaggi proustiani, ma soltanto finché non si presenta per davvero. Infine, occorre segnalare che, seppure agghiacciato dal terrore e dall’angoscia, Dominique prova al contatto visivo il fantasma «l’ebrezza di una felicità sconosciuta» (p.184 dell’ed. italiana). Non da ultimo, quindi, il “fantasma” figura anche come l’attimo evanescente di una felicità possibile, spesso accompagnata da un ricordo di struggente bellezza. Generalmente, come accade con i fantasmi, la consistenza di questi attimi di felicità piena, è destinata a dissolversi presto.

Venendo così ad alcuni tra i testi maggiori raccolti nei Piaceri, i “fantasmi”, per come li abbiamo fin qui descritti, abbondano e si moltiplicano. In ciascuno di questi brani, qualcosa di irreparabile (indipendentemente dalla coscienza che ne hanno i personaggi implicati) è già successo, qualcosa a cui non si può o non si potrà porre rimedio. È proprio il racconto di questa perdita irrimediabile quello che si srotola, di volta in volta, davanti ai nostri occhi. Regna così un’atmosfera sospesa, rarefatta, non per difetto di vita, ma, al contrario, per eccesso, per l’estenuante battaglia che in Proust s’ingaggia sempre tra “sensualità” e “spiritualità”, tra vivere, comprendere e sentire, non semplici polarità opposte, ma passibili ad ogni livello di purezza o corruzione (e, per di più, questi ultimi due concetti non di rado trascolorano l’uno nell’altro).

Così, ne La morte di Baldassare Silvande, visconte di Sylvania, ritroviamo il fantasma della morte, che (nemmeno troppo) paradossalmente rende più “vivibile” la vita, perché addolcisce il nostro inferno sulla terra, rappresentato dai sartriani autres che invece si riuniscono premurosi al nostro capezzale, tanto che l’eccentrico visconte, oberato da piccole e grandi meschinità, proprie e altrui, guarderà con crescente timore al progressivo ritorno in salute. Quando poi le sue condizioni si aggravano di nuovo, e definitivamente, entra in scena uno degli “spettri” più temuti da Proust, quello snobismo o fatuità mortifera che avvelena la sensibilità e la cui essenza è tra le più “fantasmatiche” che esistano (si vedano in proposito il “museo degli orrori” de Una cena in società e il satirico pastiche Mondanità e melomania di Bouvard e Pecuchet). Baldassare vorrebbe così “dirigere” la propria morte come un gran cerimoniere, orchestrare gli ultimi incontri con le persone amate, assegnargli le giuste battute di un copione che lo vede sempre al centro della scena.

Ma l’approssimarsi della morte spezza ogni difesa, e antichi desideri e acredini, vecchi e nuovi rimpianti mandano a monte ogni piano e sprofondano il visconte nella follia, fino al memorabile scioglimento. A dominare invece i due brani successivi Violante e la mondanità e Malinconica villeggiatura di Madame de Breyves è invece il “fantasma” di una promessa di felicità non mantenuta. Nel primo, lo snobismo miete un’altra vittima: Violante, bruciata da una delusione d’amore, vede nella “società” dei mondani l’unico modo per ottenere ciò che desidera e vi si addentra a tal punto da perdere tutte quelle qualità confinanti con la grazia e l’intelligenza che il “bel mondo” erode e consuma proprio perché in sé ne è privo.

In seguito ad un’occasione sprecata per vanità, Françoise de Breyves insegue invece un amore “fantasmatico” del tutto immaginario, che si trasforma in una vera e propria monomania. Ne La fine della gelosia, invece, il fedele-a-modo-proprio Honoré si strugge, con un certo grado di ipocrisia, quando gli viene il sospetto che la sua amata Françoise lo possa tradire con altri uomini. Il fantasma della gelosia e una, al solito, sfrenata immaginazione lo costringono ad una serie infinita di tribolazioni, alla ricerca di prove e controprove, incapace di guardare Françoise come prima (qualcosa di analogo succederà allo Swann della Recherche). Anche qui è il rimpianto di aver dato ascolto una sola volta ad un fatuo pettegolezzo a sospingere il racconto verso un finale tragico.

Un discorso a parte merita, infine, La confessione di una fanciulla, forse il più complesso tra i racconti dei Piaceri. Prima di procedere, è necessario un breve inciso. Come ogni opera giovanile, anche I Piaceri e i giorni omaggia e sfida i propri maestri. Ora, è noto in quale considerazione Proust tenesse, fin dalla giovinezza, la poesia di Charles Baudelaire, tanto da dedicargli un densissimo articolo, À propos de Baudelaire (pubblicato sulla Nouvelle Revue Française nel 1921). Proust, prima di moltissimi altri, ne elogiava non la sottilissima «intelligenza critica» (come avrebbe fatto invece Valery) e i componimenti più “classici”, ma si soffermava sulla natura scissa, lacerata, intrappolata tra la bêtise e il problematico gnosticismo-dandysmo del grande poeta (come farà Benjamin Fondane).

I Piaceri sono dominati in più di un senso dall’ombra di Baudelaire. Non solo per la forma del poème en prose e per una serie di rimandi interni, ma proprio in rapporto a La confessione di una fanciulla, racconto più che mai “baudelairiano”, che compendia quanto si è cercato di argomentare sinora. Innanzitutto, Baudelaire è citato direttamente in due dei quattro eserghi posti all’inizio di altrettanti capitoli, nello specifico nei due terminali. La prima citazione è tratta da Femmes damnées («Et le vent furibond de la concupiscence/ Fait claquer votre chair ainsi qu’un vieux drapeau», vv. 99-100), una delle poesie condannate durante il processo del 1857. I due versi delineano immediatamente il punto di non ritorno della storia, che si apre già quando l’irreparabile, l’irrimediabile (titoli di altre due celeberrime liriche baudelariane) è già avvenuto.

La protagonista del racconto, infatti, ha tentato il suicidio con un colpo di pistola, ma è stata imprecisa ed è condannata ad una lenta ma inesorabile agonia. A trascinarla fino al gesto estremo, la sua “brama di concupiscenza”, cui si contrappone la figura idealizzata ed angelica della madre (che ritornerà ovviamente nelle pagine iniziali della Recherche). La giovane donna è così dilaniata tra il desiderio di purezza e di innocenza e un altro di segno opposto, ma parimenti intenso, che la spinge verso ogni forma di depravazione. Si ripropone così il più classico schema baudelairiano della condizione umana perennemente scissa, abitata da istinti contradditori impossibili da armonizzare. La protagonista del racconto si abbandona così ad una vita dissoluta, finché le condizioni di salute della madre si aggravano terribilmente. La figlia si impone così di ritornare indietro, per amore di lei. Tuttavia, come segnala il secondo esergo, ripreso dal Cygne di Baudelaire, ciò che è perduto una volta, è perduto per sempre. Non c’è nemmeno bisogno di ricorrere all’escamotage “fantastico” dell’apparizione fantasmatica: la protagonista si è persa definitivamente, non potrà mai più riaversi indietro se non con la morte. Basterà infatti soltanto un attimo di cedimento per sbarrare ogni residua via di fuga, e trasformare il presentimento in ineluttabilità.

Tornando ancora per un attimo a Baudelaire, Proust non poteva ignorare che nelle Fleurs du mal esiste una sorta di micro-partizione “segreta”, una sezione composta da quattro testi (Les ténèbres, Le parfum, Le cadre e Le portrait) riuniti sotto il titolo Un fantôme. Leggo dal primo, Les ténèbres:

Dans les caveaux d’insondable tristesse/ Où le Destin m’a déjà rélégue;/ Où jamais n’entre un rayon rose et gai;/Où, seul avec la Nuit, maussade hôtesse,// Je suis comme un peintre qu’un Dieu moqueur/ Condamne à peindre, hélas!, sur les ténèbres;/ Où, cuisinier aux appétits funèbres,/ Je fais bouillir et je mange mon cœur,// (…) (vv. 1-8).  

Confrontatelo con l’incipit, con tutta la sconcertante crudezza, stilisticamente superba, della Confessione di una fanciulla. E chissà che Proust stesso non si sentisse talvolta un fantôme condannato a rimasticare il proprio cuore. D’altronde, basta scorrere gli altri tre elementi della suite baudelairiana: non vi sembrano temi terribilmente proustiani?


Marcel Proust, I piaceri e i giorni, tr. it. di M. Bertini e G. Girimonti Greco, Mondadori, Milano 2022, 372 pp., € 14,50.