1.

Una nebbia rada arriva da lontano, si addensa tra le poltrone e sotto il nero sipario. Le luci della sala sono ancora accese, ma l’auditorio è già pervaso da una presenza elettrica e straniante. Attendiamo, mentre lo spazio circostante lentamente si trasforma, per poi risucchiarci a precipizio nel pieno dell’azione drammaturgica.

Un angelo immerso negli abissi, gonfia la bocca tetra del mare, lo aizza e lo sconvolge, scatenando un naufragio: la tempesta. A scagliare l’incantesimo è Ariel, uno spirito benevolo al servizio del mago Prospero, il quale ha ordinato di distruggere delle navi in vista, costringendole all’approdo. Prospero, ex duca di Milano, vive su un’isola disabitata con la figlia Miranda da quando suo fratello lo ha tradito, privandolo del regno ed esiliandolo. Tra le vittime del naufragio scopriamo proprio Antonio, il fratello usurpatore, ora in viaggio con il re di Napoli Alonso, al quale si è alleato per ottenere il potere. In questo scenario carico di tensione inizia il nuovo spettacolo di Alessandro Serra[1], che porta in scena, tradotta e riscritta, l’ultima grande opera di Shakespeare, La Tempesta.

Al di là degli intrecci sottesi alla trama, il dramma narra innanzitutto la distanza di un popolo dal suo vero re e dalla sua mirabile figlia. Si avverte forte questo senso del distacco, che credo costituisca un nodo cruciale dell’intero testo. Esso si intensifica se spostiamo il focus dalla parte dei naufraghi sopravvissuti; il dolore di Alonso infatti deriva allo stesso modo da una separazione, stavolta non dal regno, ma dal figlio Ferdinando, creduto morto in seguito al dirottamento. All’indomani di questa presunta tragedia gli altri due personaggi principali, Antonio e Sebastiano, fratello di Alonso, ordiscono il loro perfido piano. Quest’ultimo sin dalle prime battute sembra rappresentare l’uomo “prettamente umano”[2], senza certezze, senza ragioni e in balìa del caso; l’individuo sull’orlo di una scelta o addirittura a ridosso di una possibile conversione. Sebastiano difatti viene posto di fronte ad un bivio, ascoltare o non ascoltare le parole e i piani diabolici di Antonio: uccidere o non uccidere il fratello per impossessarsi del regno. La storia si ripete![3]

I due, Antonio e Sebastiano, insieme al resto dell’equipaggio, approdano su una nuova terra; d’essa quest’ultimo ne scorge «una puntina di verde»[4], che per opera del compagno sobillatore presto e ineluttabilmente scompare ai suoi occhi. L’indegno duca riesce a convincerlo del fatto che il suo senno dorme, perché non ha ancora scorto le magnificenze a lui dovute; non importa se esse saranno macchiate del sangue di un fratello, non importa se il fratricidio conduca alla totale perdita della coscienza[5]. Sebastiano acciecato scambia il sogno con il sonno; gli è data la possibilità di entrare nella vita, come nella terra, ma non la coglie, perciò continua a dormire.

Il gioco si fa più complesso, se ci si rende conto che la terra avvistata non si riduce a quella di qua, ma si rivela sempre e soprattutto di , lontana, dell’altrove, immaginata e futuribile, presente e in qualche modo già viva. Perciò tale terra è anche quella sognata da Gonzalo, consigliere fedele di Alonso: «Oh se fossi il re di quest’isola… sapete cosa farei? Eh! Sapete che cosa farei? Silenzio. Nel mio regno… Farei tutto alla rovescia. Niente ricchezza, povertà, servitù. Niente contratti, successioni, confini. Niente lavoro. Tutti gli uomini in ozio, tutti, e anche le donne, ma innocenti, e pure. Nessuna sovranità»[6]. L’inesauribilità de La Tempesta risiede in particolar modo in questa carica utopica, che predispone ad un mondo iper-reale e rovesciato, e prelude a ciò che terra non può dirsi: al paradiso. Ma se l’eden fosse quello agognato da Gonzalo, la terra che l’autore mostra agli spettatori cosa rappresenterebbe? Questa presunta isola del Mediterraneo non appare sulle mappe, non ha nome e somiglia ad un oltremondo in fase germinale, spopolato e ancora da fare, da regnare appunto[7]. Un territorio in cui uomini, spiriti e divinità possono convivere e trovare accordo; un luogo per prima cosa scoperto, poi creato[8]. «E niente matrimonio tra i sudditi?»[9] chiede Sebastiano a Gonzalo riallacciandosi al suo discoro; perché proprio il matrimonio? Cosa c’entra la terra con il matrimonio?

Ritorniamo alla terra[10]. Essa, all’interno dell’economia dell’opera, è quella dell’approdo e del naufragio al contempo, e poi certo una terra di contesa, tra i sovrani – Prospero/Antonio, Alonso/Sebastiano – e tra gli amanti – Ferdinando/Caliban –, i quali desiderano la stessa donna. La connotazione di questo luogo però non si esaurisce in un’immagine concreta, essa non è solo suolo abitabile e governabile, ma anche pura allegoria, suggerita attraverso la figura di Miranda, principessa dal nome parlante[11]. A tal riguardo mi viene in mente una scena in cui, durante il corteggiamento con Ferdinando, i due rimangono soli, in disparte giocano a scacchi, si avvicinano l’un l’altro e lei, Miranda, rimane per un attimo ritratta in una postura dell’accoglienza, dell’apertura, come immortalata nella movenza del parto, vergine restia e sensuale. La figlia del re Prospero incarna la terra che Ferdinando deve attraversare, per rincontrare il padre e deve sposare, per risolvere la trama della narrazione. I concetti di terra e matrimonio in tal senso sono strettamente correlati.

Vorrei riflettere su questi due temi appunto, risalendo alla loro matrice biblica[12], alla luce del fatto che giusto il tema del matrimonio viene proposto dall’autore, non solo nella storia portante dei due amanti appena citati, ma pure ribadito da Gonzalo, il quale menziona le cerimonie nuziali della figlia del re Alonso, Claribella, data in sposa al sovrano di Tunisi: «vorrei non aver fatto sposare mia figlia laggiù, perché al ritorno ho perso mio figlio, e credo di aver perso anche lei così lontana»[13]. Nella Bibbia con il termine sposa si intende allegoricamente proprio il popolo di Dio[14], a lui ricongiunto e alleato, in questa accezione sposato. Certo la sposa esige uno sposo, ed un uomo non basta, occorre un uomo divino; il figlio di dio. Ecco, allora Alonso che poco più avanti sembra vaticinare: «Ferdinando, mio erede di Napoli e Milano, quale strano pesce ti ha avuto in pasto»[15]? Per meglio comprendere i concetti di terra e di matrimonio – che non saranno mai del tutto chiari, perché in questa nota come nelle scritture più o meno sacre ci si può accostare ad essi solo per vie traverse, simboliche e irrazionali – bisogna meglio inquadrare proprio la figura di Ferdinando. Il valore di questo personaggio supera la trama di una classica – a mio parere comunque non stucchevole – storia d’amore giovanile, che rispecchia sì gli stilemi delle narrazioni sentimentaliste, ma oltrepassandoli. Quale strano pesce ha avuto in pasto Ferdinando? L’allusione cristologica è sottile, chissà se consciamente voluta da Shakespeare. I primi cristiani, per l’appunto, usavano incidere sulle lapidi o sulle pareti murarie, in riferimento al Nazareno, la parola greca ichthùs (letteralmente “pesce”, ma acronimo di Iēsous Christos Theou Huios Sōtēr = Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore), associandolo al disegno stilizzato del pesce, che vivendo sott’acqua senza annegare, simboleggia la vittoria dell’uomo divino sulla morte. Non è un caso che agli occhi di Miranda, durante il primo incontro, l’amato appare come uno spirito, un fantasma[16]. Gonzalo lo crede vivo, Alonso ha ormai tristemente abbandonato le speranze. È in questa dimensione che va collocato Ferdinando, sospeso tra la vita e la morte, come un cristo riemerso dal suo sepolcro.

A confermare ulteriormente tali ascendenze cristologiche cito la scena (Atto III, scena I) in cui il figlio sopravvissuto del re – deve prima sopravvivere alla terra, poi sposarla –, appare fiaccato dal peso di una croce, una trave per l’esattezza o ancora più precisamente – così riporta lo sceneggiato –«un’asse del palcoscenico-pedana»[17]. Il legno di cui porta il peso, si presenta come la trave portante di una nuova narrazione, di una nuova generazione, di un ponte che porta dalla storia alla metastoria; l’asse su cui il mondo del teatro e il teatro del mondo procedono. Ferdinando avanza infatti, riesce ad addentrarsi nella vicenda – e con lui il suo popolo –, perché naufraga in primis, ritorna e sposa la terra, ora esiliata e redenta, ora finalmente da fondare: «(…) il mio cuore è volato al tuo servizio, e là è rimasto, facendomi tuo schiavo. Ed è per amor tuo che ora…»; la battuta del giovane termina con questa reticenza, perché Miranda taglia corto: «mi ami?». A cosa per amore allora è costretto Ferdinando? Al lavoro, alla sofferenza, al calvario? A cosa è innalzato? Il figlio del re, al di là dei ducati, delle controversie politiche, traccia una parabola, che sottintende la dinamica della salvezza universale[18]. Credo sia la storia di questo amore che Shakespeare voglia intraprendere alla fine della sua carriera. Di quale amore? Ma quello di Ferdinando e Miranda, certo! E di loro padre Prospero il mago o altrimenti detto quello di un Figlio e di una Terra, data dal Padre in sposa, quasi che il matrimonio in fondo sia uno, la scelta una, l’uomo la terra il padre, uno. Uno nelle sue uniche variazioni sul tema, simile ad una sonata. Sul coronamento di questo amore e sulla conclusione del dramma ci ritornerò.

2.

Un altro aspetto interessante è la tenuta onnicomprensiva della struttura dell’opera. Ci si chiede in che modo possano convivere le tematiche dell’onore, della gloria, della vendetta – il loro doppio senso allegorico e radicale – con la rappresentazione della mera superficie degli eventi. L’autore, anzi i due autori, non minimizzano, né tantomeno omettono ciò che di più becero esiste sulla faccia della terra, le turpi vicende scatologiche[19] dei personaggi, le falloforie più sfacciate, la sessualità d’osteria mista ad un sentimento comico solidale – dissacrantemente allegro e preoccupantemente divergente. Soprattutto nella versione teatrale di Serra questi aspetti risultano esasperati; molti ne ridono dalla platea, altri si scandalizzano, altri ancora vorrebbero piangere, chiedendosi dove sia finito il vigore reale, la grazia degli spiriti benevoli, la storia unica dell’amore tragico, di padri figli e figlie e il destino dell’umanità. Lo spettatore di fronte a questi inserti farseschi – tradotti dal regista nella lingua originale napoletana – viene depistato per effetto di una sospensione della tensione drammatica trasformata in un vuoto, che da testimonianza pratica del divertimento, del de-vertere: il deviare diabolico dal corso della “grande storia”, ma anche il poter prenderne respiro, sopravvivervi.  

Di questi episodi è protagonista Caliban, il demone mezzo uomo, che per vendicare l’uccisione della madre e strega Sycorax, si allea al mozzo Stefano e al buffone Trinculo. In questo personaggiosi intravede facilmente un alter ego negativo di Ferdinando; come lui porta il legno sulle spalle, come lui costretto ad eseguire gli ordini dello stesso padre-padrone[20]. Memorabile l’espediente tecnico utilizzato da Serra, che lo ritrae a lavoro con una sproporzionata gerla in groppa, la quale riproduce la forma di un nido abnorme, che riflette l’ombra di una natura rinsecchita e spettrale, di cui si deve portare il fardello. A tal proposito la figura del Caliban man – così intitola il regista uno degli ultimi capitoli del suo sceneggiato – sembrerebbe rappresentare l’uomo non ancora liberato dal male, che agogna la terra-Miranda e non può averla. Da un lato bambino, puro e violento, dall’altro uomo depravato e soprattutto deprivato del potere della parola, quello di Caliban è uno dei più controversi della vicenda. Attraverso lui si nota come la parola perda presa sul reale e allo stesso tempo muti in poesia: «lascia che ti conduca dove si trovano i granchi. Con le mie unghie affilate scaverò per te i tuberi più buoni. Ti mostrerò il nido della ghiandaia, ti insegnerò a intrappolare l’agile scimmietta. Ti condurrò dove le nocciole crescono a grappoli, e ogni tanto ti porterò i cuccioli di gabbiano dalle rocce. Vuoi venire con me?»[21].

Continuando il paragone tra i due personaggi, se ne ricava che la condizione di asservimento di Ferdinando sia solo momentanea, e ha a che fare più con la prova che con la colpa: «Se ti ho punito troppo severamente, la tua ricompensa ne fa ora ammenda (…). Tutti i maltrattamenti che hai subito erano prove per il tuo amore, che tu hai superato»[22]. Il percorso del figlio acquisito di Prospero comprende sia la perdita sia il ri-trovamento che annuncia la conquista. La parabola tracciata dal suo alter ego mostrificato invece ridurrebbe l’intera vicenda a poco più che una farsa, ad un gioco perverso, ad una scenetta o ancor peggio una scenata in costume. In questo senso la parte più spiccatamente comica della pièce tramuta in tragedia e lascia sospesi in uno sbigottito disgusto. Ariel[23] abbindola il trio Caliban-Trinculo-Stefano facendo apparire dei vestiti colorati, che occupano la scena sospesi in un incanto; ne risulta però solo un travestimento e non una “vestizione”[24], un intermezzo burlesque e idiota, che vanifica la storia delle storie e con esso il significato metastorico da essa protratto. Ne viene un nulla mascherato da un riso mascherato. Che ce ne facciamo delle storie se esse non ci permettono di riflettere sulla storia dell’uomo e che ce ne facciamo dell’uomo se esso non è in grado di inserirsi nella sua storia? Visto in questa prospettiva il teatro non è ancora proprio da buttare! Eppure, lo scenario si fa più complesso e preoccupante qualora si intraveda in questa parodia una critica o meglio una vera e propria decostruzione del processo teatrale tout court, avanzata tra l’altro da uno dei più grandi drammaturghi di tutti i tempi.[25].

Con la fine del teatro si potrebbe presupporre anche la fine della narrazione, ma per grazia non è così. Per la conclusione dell’opera tocca aspettare gli ultimi due capitoli (in Serra), che riassumono l’atto finale, il quinto (in Shakespeare). In esso il protagonista è senza dubbio Prospero, il semidio che governa gli spiriti e la materia a loro sottomessa, l’uomo a cui Alonso restituisce il ducato in cambio della restituzione del figlio. Ora se, seguendo il filo dell’allegoria biblica, in Prospero si vedesse un re celeste e in Alonso un re terreno, che figlio concederebbe il primo se non il “Figlio dell’uomo”[26], figlio del terrestre e anche paradossalmente figlio di dio, cioè unico vero erede e sposo. Più volte, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, il messia e Gesù stesso si identificano con questo appellativo; il termine indica la storicizzazione del Cristo, puro spirito divino fattosi mortale e incarnato nel ventre di una vergine. A questo punto della trattazione il parallelismo dovrebbe essere maggiormente comprensibile: da una parte Ferdinando, prostrato dalla sua croce, che con la stessa trave innalza una linea verticale, indicando il cielo e quindi la sua provenienza[27]; dall’altro Miranda creatura delle creature, amore a primo sguardo[28], aperta ad accoglierlo e a sposarlo. L’atto di unione tra Ferdinando e Miranda siglerebbe, non solo la scelta del dio biblico di riconoscere e perdonare il peccato originale all’uomo sua creatura, tramite la concessione del figlio diletto, ma anche e soprattutto l’atto di riconoscenza di Miranda, che risponde ad una chiamata, ad una voce, in quanto terra e simbolo di ogni creatura sposata. «Ci gridò di tornare dal mondo a lui, nel sacrario onde venne a noi dapprima entrando nel seno di una vergine, ove gli si unì come sposa la creatura umana, la nostra carne mortale, per non rimanere definitivamente mortale»[29].

Ferdinando perde un padre (biologico) e ne trova un altro, che sembra costituirsi come una divinità[30]; Prospero, il dio esiliato, il dio re-istituito, e soprattutto il dio che si fa da parte e dona spazio: “prego dio affinché mi liberi da dio”, afferma il celebre padre domenicano Meister Eckhart nei suoi sermoni. Certo un dio che non può far altro che dare vita, dare terra, e perdonare, un dio che paradossalmente non vuole altro che essere perdonato, con un applauso, che lo spettatore è libero di concedere[31]. Proprio attraverso la forza redentrice del perdono i tasselli degli eventi si giustappongono, ponendo fine alla narrazione de La Tempesta. Anche questa però, in realtà, non sembrerebbe una vera conclusione, piuttosto un preludio di ciò che sarà o che potrebbe essere, perché il matrimonio è compiuto, ma nessuno conosce il seguito: la storia è appena cominciata. Della figura di Prospero, si potrebbe poi avanzare un’ultima lettura più plausibile di quella allegorica prima addotta, riconducendo il suo ruolo sotto il profilo di un padre sacerdotale o un homo novus, un homo divus, in grado innanzitutto di governare la terra e le sue forze, oscure e numinose, per poter lasciar spazio ad una nuova generazione proclamata da i due amati Ferdinando e Miranda, postumi Adamo ed Eva[32]. Sarà proprio lui, durante l’ultimo atto, a legare al suo cerchio di luce tutti i personaggi del dramma e con la stessa luce a sposare gli amati, i quali entrano dai lati opposti del palcoscenico, seguendo lo stesso raggio. Questo gesto è l’esempio di come il sovrano dell’isola venga investito di un ruolo da medium[33], per farsi vicario tra l’uomo e dio, altrimenti irrappresentabile, perché irriducibile. Il personaggio pertanto diviene memore di una specifica volontà di ricerca, di una restaurazione del significato e della pratica del sacro, attuata mediante l’esilio necessario dalle cose del mondo, verso una realtà più veritiera e complessa, sebbene confinante con le regioni del sogno. Come afferma Alonso nelle ultime battute del dramma: «Questo è il labirinto più strano che uomo abbia mai attraversato, e in tutta questa faccenda c’è più di quanto la natura abbia mai ordinato»[34].


[1] Organico artistico: Andrea Castellano, Vincenzo Del Prete, Massimiliano Donato, Salvo Drago, Jared McNeill, Chiara Michelini, Maria Irene Minelli, Valerio Pietrovita, Massimiliano Poli, Marco Sgrosso, Marcello Spinetta, Bruno Stori.

[2] Vedremo come gli altri personaggi principali all’interno di questa mia personale lettura dell’opera, nascondano sempre un senso aggiuntivo, allegorico, che va oltre il loro “essere umani”. Sebastiano no, è un uomo e basta.

[3] La vicenda si propone come un doppione della congiura ordita dallo stesso Antonio a discapito del fratello Prospero.

[4] La tempesta, dal testo alla scrittura di scena, W. Shakespeare / Alessandro Serra, Luca Sossella Editore, 2022, p. 165.

[5] In questa scena, tutta giocata sulla condizione del dormiveglia – dell’essere fuori o dentro il sonno, come fuori o dentro la storia –, rivivono i grandi miti biblici della Genesi, quello dell’albero del bene e del male e quello di Caino e Abele.

«Antonio: già amico mio, dove sta la mia coscienza? Se fosse un gelone mi farebbe mettere le pantofole. Ma io non sento nel petto questa divinità» (Atto II, scena I); La tempesta, op. cit., p.82.

[6] Ivi, p. 167.

[7] Anche l’isola è fatta della stessa materia di cui sono fatti i sogni: «siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni e la nostra piccola vita è circondata da un sonno» (Atto IV, scena I).

[8] D’altronde Prospero cos’altro fa se non studiare dai suoi rari libri sull’occulto questa terra, per poi soggiogarla al potere della magia.

[9] La tempesta, op. cit., p 167.

[10] Ripeto più volte il termine terra, riportandolo in corsivo durante tutto il corso della mia trattazione, perché vorrei sottolineare al lettore come non si stia mai parlando di un vero e proprio territorio, ma piuttosto di uno spazio neutro, forse quello potenziale dell’arte o comunque di un luogo altrimenti abitabile.

[11] Il nome della protagonista, sembra sottolineare una logica dello sguardo, del mirari mirando, cioè del “guardare meravigliandosi” o ancora meglio dello “sguardo meravigliato”.

[12] «Non sarai chiamata più “Abbandonata”, la tua terra non sarà più detta “Desolazione”, ma tu sarai chiamata “La mia delizia è in lei”, e la tua terra “Sposata”, poiché l’Eterno riporrà in te il suo diletto e la tua terra avrà uno sposo» (Isaia 62, 4).

[13] La tempesta, op. cit., 165.

[14] Interessante come questo popolo, soprattutto nei passi profetici veterotestamentari, venga presentato in qualità di regione o territorio, di terra appunto: Gerusalemme, Israele; sempre collegati ad una “Gerusalemme celeste”, una “nuova Israele”.

[15] La tempesta, op. cit., p. 166.

[16] Miranda: «Cos’è uno spirito? Mio Dio, come si guarda intorno! Credetemi signore, ha una splendida figura…ma è uno spirito!» Ivi,pag. 160.

[17] Ivi, p. 187.

[18] Ferdinando inoltre rappresenta l’elemento di riconciliazione tra le due famiglie protagoniste, quella appartenente al ducato di Napoli e quella appartenente al ducato di Milano, le quali, alla luce di una trasposizione esegetica di stampo biblico, potrebbero senza forzature corrispondere ad altre due stirpi: la giudaica e la cristiana, riconciliate nel sogno concretizzato della nuova terra-Miranda, figlia e sposa, attraversabile e abitabile.

[19] Si passa dalla escatologia alla scatologia con rapidità sorprendente e perturbante.

[20] Già in questa doppia connotazione si potrebbe scorgere uno slittamento di significato sostanziale: dal padrone al padre, ravvisabile in una doppia postura nei confronti di Caliban e di Ferdinando; rapporto “servo-padrone” nel primo caso, “padre acquisito” nel secondo. Nonostante ciò nelle ultime battute, Caliban non viene ripudiato da Prospero: «questa cosa di tenebra la riconosco mia» e Caliban stesso aggiunge in discolpa (in inglese originale nel testo scenico): «Was I fool to take this drunkard for a god, and to worship him»; La Tempesta, op. cit., pag. 220.

[21] Ivi, p. 94.

[22] Ivi, p. 208.

[23]  Capitolo Banchetto, Ivi, p. 203.

[24] Ritornano alla mente i corpi che in Dante (Inf. XIII) penzolano dagli alberi come delle vesti, e penso all’uomo che non vuole indossare l’abito per andare a nozze, penso a questa specie di suicidio di massa, poi al vangelo: «Gesù riprese a parlare loro con parabole e disse: il Regno dei Cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire. Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: “Dite agli invitati: Ecco ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. (..) Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nunziale?” (…)» (Mt 22, 1-14).

Un banchetto tra l’altro viene imbastito anche alla fine della pièce, ma come visto in negativo, al cospetto della presenza di grotteschi spiriti deformi.

[25] Un fatto non indifferente è il significato etimologico che la parola “teatro” assume in questo contesto: dal greco theaomai “guardare, essere spettatore”, forse connesso a thauma “miracolo”, da cui thaumàzō “ammirare, guardare con meraviglia”, ma anche “onorare, venerare”. Il teatro criticato qui è forse quello inteso nell’ottica di una moltiplicazione e interpretazioni infinita di ruoli, la quale porterebbe a nient’altro che una divagazione.

[26] Cfr. Il figlio dell’uomo, Renè Magritte, 1964.

[27] Certo da accostare alla orizzontalità spianata dal trio Stefano-Trinculo-Caliban, in quanto vero e proprio asse su cui si muovono gli attori in scena.

[28] Il suo nome – Miranda = “degna di ammirazione” – e la logica dello sguardo ad esso connessa più volte menzionata in questo testo, ricorda anche il refrain di Genesi 1: «E dio vide che era cosa buona (…)».

[29] Agostino, Le confessioni, Einaudi, 2000, pag. 115.

[30] A suo stesso dire, rivolgendosi agli spiriti e agli elfi dell’isola: «(…) ho oscurato il sole a mezzogiorno, radunato i venti ribelli e scatenato una guerra tra il verde mare e la volta azzurra», La tempesta, op. cit. 212.

[31] «Prospero: (…) Ora sta a voi tenermi qui confinato o mandarmi via. Non fatemi restare col potere del vostro incantesimo su questa nuda isola, ma battendo le mani, scioglietemi da ogni legame», Ivi, p. 221.

[32] Miranda: «O meraviglia! Quante magnifiche creature… e com’è bella l’umanità. O splendido nuovo mondo che contiene simili abitanti». Prospero: «È nuovo per te», Ivi, p.215.

[33] A tal proposito anche l’isola, potrebbe costituire uno spazio di mediazione provvisorio, creato e immaginato – forse sognato – in preparazione di un’altra terra, alla quale può solo alludere simulando.

[34] La Tempesta, op. cit. p. 216.