Iniziamo oggi la presentazione dei libri finalisti del Premio Narrativa Bergamo 2022. Gli incontri con gli autori si terranno alla Biblioteca Tiraboschi di Bergamo: si comincia domani, alle ore 17.30, con Francesco Bianconi.


Come accostarsi ad Atlante delle case maledette, terzo libro di Francesco Bianconi? L’atto preliminare di immaginare la lettura del romanzo e di creare delle aspettative sulle pagine che ci si appresta ad affrontare è inficiato da dubbi e timori, gli stessi che sorgono ogni qual volta ci troviamo di fronte a un libro scritto da qualcuno che non è noto, almeno non principalmente, per la sua attività letteraria: per chi non lo sapesse – pochi, suppongo – Francesco Bianconi è il cantante e leader dei Baustelle, gruppo musicale di culto, che gode di buon successo da quindici anni almeno, dopo una gavetta nei circuiti indie di inizio secolo. Ad essere ancor più rigorosi, Bianconi non è semplicemente il frontman, è la vera e propria anima della band, autore (quasi) unico dei testi. Scorrendo la discografia dei Baustelle, si può senz’altro affermare che è sempre lui a dettare l’estetica e la direzione artistica; in varie interviste, i suoi compagni (Rachele Bastreghi e Claudio Brasini) non mancano di sottolineare l’importanza della sua scrittura per l’immagine e la proposta musicale del gruppo. In effetti, le canzoni di Bianconi hanno uno stile ben riconoscibile, in grado di tenere insieme la verve tipica della band pop (fin dal loro primo album abbondano i ritornelli catchy, acchiappa-radio) e, in misura invero crescente col progredire della carriera, la postura cantautorale. Così, prima di aprire Atlante delle case maledette, ci si chiede: cosa troveremo, in questo libro, del Bianconi cantante e musicista? Qual è la relazione tra le due sfere della sua espressione artistica?

La domanda non è banale, per almeno due motivi. Il primo non è legato a Bianconi, e riguarda i rapporti tra musica e letteratura. Senza entrare nel merito della disputa tra canzone e poesia, in anni recenti rinfocolato dalla vicenda del Nobel a Bob Dylan, non è difficile trovare un’affollata genealogia di musicisti che, passando all’espressione letteraria, hanno difettato – in modi più e meno evidenti – in qualità e convinzione. Dylan stesso ne è l’esempio più lampante: supremo nelle sue canzoni, che costituiscono indubbiamente una delle vette più alte della cultura popolare del Novecento, e però debole e impreciso come romanziere (si pensi a Tarantula, scarso scimmiottamento – per di più in ritardo – dei romanzi della Beat Generation). La quantità di cantanti che hanno tentato e fallito la strada letteraria, che fosse poesia o romanzo, scoraggerebbe chiunque. Ma il secondo motivo è più legato a Bianconi, e richiede una precisazione della sua poetica anche in quanto autore musicale. Mi riferisco all’idea che la sua forza espressiva derivi dalla sua capacità di riflettere, in vari modi, su alcuni nuclei tematici che costituiscono, per l’appunto, una vera e propria poetica. Cito qui quelli che mi paiono più significativi o per lo meno più fertili: l’inesorabile scorrere del tempo, la fine della giovinezza, il contrasto fra le illusioni coltivate in gioventù e il disincanto della vita adulta. Di conseguenza, ci si può chiedere: cosa ritroveremo delle canzoni dei Baustelle in questo libro?

Ora, sciogliere il primo dubbio significa concedere a Bianconi la possibilità di smarcarsi da questa sorta di “maledizione” dei cantanti che divengono scrittori, e sta a ogni lettore decidere, in cuor suo, se farlo. È invece il secondo dubbio che ci permette di adottare, forse, il punto di vista più giusto: trattare cioè Bianconi come un autore dai temi ricorrenti che ha deciso di cimentarsi in una forma espressiva diversa da quella cui ci ha abituati. In verità, Bianconi è qui alla sua terza prova letteraria: probabilmente la migliore, proprio perché quella in cui si presenta più libero – nella forma – dal suo alter ego cantante, difetto che appesantiva soprattutto il suo primo romanzo, Il regno animale (dove era presente, addirittura, una vera e propria trasposizione in prosa della canzone Le rane). L’impianto narrativo di questo Atlante è piuttosto semplice: il protagonista, Dimitri, è uno scrittore di successo che si ritrova costretto in casa dalla pandemia. Di conseguenza, passa il tempo a rievocare le varie case che, nella sua vita, hanno avuto un ruolo importante, o che lui ritiene tale: certo, case in cui ha abitato, ma anche appartamenti in cui ha passato una sola notte, o pochi giorni. Non è difficile scorgere nel protagonista varie caratteristiche di Bianconi: persino il modo in cui conduce la sua carriera da scrittore (viaggia molto, incontra fan adoranti) ha in realtà molto più in comune con l’immaginario del cantante pop che con quello di un autore letterario. Ma il libro non è dichiaratamente autobiografico (come invece lo è il contemporaneo Libro delle case di Andrea Bajani), né dalla questione della “professione-rockstar” discende un maledettismo particolarmente marcato: gli aneddoti raccontati di casa in casa hanno molto più a che fare con la vita quotidiana di un maschio bianco italiano nato in provincia nella seconda metà del Novecento.

Aneddoto non è però la parola più calzante, dal momento che – sebbene non ci sia una vera e propria trama – dai quadretti legati alle varie case si può ricostruire la vicenda biografica di Dimitri. Una prima, netta separazione riguarda le case in provincia e le case nella grande metropoli, vale a dire Milano: se in alcune delle prime – come, ad esempio, quella al mare – lo sfondo sociale che se ne può dedurre è quello del disfacimento della piccola borghesia e, più in particolare, il tramonto del piccolo sogno di benessere italiano, la casa milanese è invece al centro di una riflessione sulla gentrificazione di alcune zone della città. In questo senso, il riferimento al già citato Libro delle case appare ovvio; vi sono però alcuni momenti del libro di Bianconi che richiamano alla mente Condominio Oltremare di Giorgio Falco: ma lo sfondo sociale in Falco è al centro di una lucida disamina, qui in Bianconi è tratteggiato e rievocato con una certa nostalgia.

Più in generale, i racconti mantengono uno stile medio, elegiaco, senza sfociare in toni drammatici o apertamente comici, nonostante ci siano alcuni passaggi dotati di un buon ritmo in quest’ultimo senso. E proprio su questo tono elegiaco si innestano i vaghi riferimenti all’horror e al fantastico, condotti sempre secondo un’ottica citazionista: così, ad esempio, non v’è traccia di veri fantasmi o apparizioni infernali nel racconto del castello infestato; oppure, più significativamente, in uno degli intermezzi – brani in cui si raccontano vicende non legate a case esistenti – il protagonista ricorda che da bambino rimase colpito dalla prima visione di Profondo rosso, i cui interni gli ricordavano la sua casa. Finisce per riconoscere persino sé stesso nel personaggio del bambino-assassino del film, e va incontro a una sorta di educazione estetica agli horror (e, nel ricordare l’avvenimento, compone un piccolo canone personale degli horror ambientati in una casa, da Argento a Raimi ad Avati).

Queste osservazioni possono depistare, facendo apparire Atlante delle case maledette quasi un trattato sociologico narrativizzato sull’Italia tra anni Settanta e Duemila. Non è così, perché il tono elegiaco di cui si diceva assume una forma peculiare, trasferisce questo sentimento nella materialità delle cose. È per questo che ogni racconto è detto “scheda”: riporta in esergo dei dati riguardanti la costruzione della casa in questione e ogni abitazione è sempre, all’inizio della vicenda, descritta con una certa minuzia. E altrettanto dettagliate risultano le descrizioni degli oggetti che nelle case fanno la loro comparsa, l’insieme combinato di arredamento e prodotti di consumo che restituisce l’idea di un’epoca sociale (come avviene nei racconti dedicati all’infanzia negli anni Settanta di Dimitri) e di una fase della propria vita (le descrizioni delle fatiscenti case universitarie, o di quella del primo trasloco a Milano).

Nel 2013, quando la loro popolarità era forse ai massimi storici dopo il successo degli album Amen e I mistici dell’Occidente, i Baustelle hanno pubblicato il loro disco più complesso. Si intitola Fantasma, dura poco più di settanta minuti. È un album pop barocco e sofisticato, in cui ogni brano ha un arrangiamento orchestrale. Esattamente a metà della tracklist, quasi come se rappresentasse il cuore del disco, si trova la canzone più significativa, che si chiama Il futuro. Musicalmente, è ricca di echi morriconiani, che conferiscono al pezzo un tono epico; il testo consiste però in una fredda analisi del tempo irrecuperabilmente perduto. C’è un passaggio, in particolare, che mi sembra utile per imbastire un discorso attorno al libro: nella prima strofa, Bianconi canta: «Ho guardato la casa / che una volta abitai / perché quando te ne vai / è davvero come se / capissi per la prima volta / l’uomo che sarai». Al di là della corrispondenza ovvia (l’idea di questo libro era già in quella canzone di quasi dieci anni fa?), mi sembra che nel pezzo si esprima l’idea di un io scisso, la cui identità giace nel passato, e al tempo stesso da questo passato è irrimediabilmente separato. In questo senso, l’evocazione feticistica degli oggetti nel romanzo ha esattamente la stessa funzione: è come se il protagonista dicesse di riconoscersi e contemporaneamente di non riconoscersi più in quelle case. D’altronde, che lo spazio in cui abitiamo abbia un’influenza sulla nostra psiche è cosa nota fin dai tempi di Jung e Benjamin, saggiamente evocati all’inizio e al termine del testo.

Sulla base di questa osservazione, possiamo ora sciogliere le riserve iniziali, e affermare che il rapporto tra l’attività musicale e l’attività di scrittore di Bianconi scorre in entrambi i sensi: se il musicista spiega lo scrittore, lo scrittore senz’altro amplia, arricchisce il cantautore. Così, Atlante delle case maledette va letto non solo come libro a sé stante, ma anche – e forse più proficuamente – come un capitolo della carriera di Bianconi tout-court. Il feticismo verso il passato colto in oggetti e luoghi (che sembrano generare da sé le storie); il pastiche, la riproposizione nostalgica di forme espressive passate: tutto ciò acquista significato se interpretato, in controluce, come un lamento per i futuri andati perduti, nell’orizzonte sociale (il declino del welfare, la fine della piccola borghesia) e in quello personale (la fine della giovinezza, il difficoltoso ingresso nell’età adulta). Così, ancora, nel Futuro: «Il futuro desertifica / la vita ipotetica / qui la vista era magnifica / da oggi significa / che ciò che siamo stati / non saremo più». Per questo, in Atlante delle case maledette, il racconto più emblematico del tono generale dell’opera è quello riguardante la casa nel bosco, ossia la casa in costruzione dei genitori di Olga, una fidanzatina liceale del protagonista. I due immaginavano di viverci un giorno da adulti ma poi, per alcune vicende familiari di lei, la casa è stata venduta. Dimitri conclude così il resoconto:

Noi continuammo a stare insieme, a volerci bene. La Casa nel Bosco fu messa in vendita la settimana dopo il funerale di Marco, e trovò quasi immediatamente un compratore. Un pittore inglese. Io e Olga continuammo a vederci, a baciarci, a studiare insieme, ma dopo il funerale non andammo mai più nel bosco a sbirciare come gli inglesi portassero avanti i lavori, cosa succedesse a quella che avevamo immaginato potesse un giorno diventare la nostra casa. Chissà come sarà adesso la casa del nostro futuro. Se il pittore l’avrà trasformata o fatta andare in malora. Oppure lasciata intatta, e sconsacrata soltanto.

Quel futuro non è mai arrivato: è questo genere di rimpianti che nutre la penna di Bianconi come cantautore e scrittore.

Un appunto sulle illustrazioni, che inseriscono Atlante delle case maledette nell’ampio filone degli iconotesti o almeno dei libri appunto illustrati, che sta avendo grande fortuna nella nostra letteratura contemporanea. A cura di Paolo Bacilieri, i disegni sembrerebbero a prima vista semplicemente mettere davanti al lettore le case o le vicende di cui si narra; ma la precisione e la limpidezza del tratto, unite alla facilità con cui, in alcuni momenti, l’autore varca il confine e trasforma le illustrazioni in scambi quasi fumettistici, sottolineano come l’idea alla base del libro provenga davvero da un forte sentimento delle cose. Questo, da un lato, lascia intendere che la narrazione avrebbe potuto svolgersi anche in forma di graphic novel; dall’altro, punta a trasformare il libro stesso in oggetto da collezione, opera da possedere – richiudendo su sé stessa l’attenzione all’arredamento e al consumismo culturale che caratterizza le storie raccontate da Bianconi, in letteratura e in musica.

Dato il tono spesso dimesso e malinconico dei racconti, rimane a prima vista inspiegato il titolo stesso del libro. Di maledetto, come ha notato anche Andrea Cortellessa presentando il libro finalista al Premio Bergamo, queste case hanno ben poco. Cortellessa nota che si tratta di un dispositivo retorico simile a quello attuato – sia pur con altri mezzi – nelle canzoni di Bianconi: una ricerca del contrasto fra una veste volutamente goticheggiante e una realtà testuale più quotidiana. Forse, però, un’altra possibile spiegazione risiede ancora una volta nel tema della spettralità del passato: parlando della sua casa universitaria, situata in un castello senese, e della possibilità di tornare a visitarla, Dimitri scrive: «meglio lasciare indisturbato il fantasma di me stesso»; e Bianconi in Cristina, ancora dall’album Fantasma, canta: «Gli spettri abitano dimore gotiche / come succede in Edgar Allan Poe / ma quelli che fanno più paura sono qui / a ricordare il tempo agli uomini». Così, questo Atlante delle case maledette si configura come un tentativo di esorcizzare il trascorrere del tempo e la sua percezione soggettiva, sfociando, nel finale, in un’invocazione di un superiore “noi”:

Ogni casa dovrebbe essere / progettata per essere invisibile, / pensata per non esserci, / costruita per essere decostruita. / Al punto da disintegrarsi in quanto abitazione / e lasciare spazio agli abitanti / e al loro sottoutilizzato amore. / Non costruiremo più per abitare. / Costruiremo per aprire, / essere in comunione.


Francesco Bianconi, Atlante delle case maledette, con illustrazioni di P. Bacilieri, Rizzoli Lizard, Milano 2021, 228 pp. 18,00€