Nel 2017 Andrea Bajani, a un incontro con gli studenti nel liceo in cui insegno, parlando di titolo, copertina e altri elementi paratestuali di un romanzo, costruì una lunga similitudine tra un libro e una casa. La sua ostinazione fa sì che questo tipo di parallelismo, che spesso gli balena in testa in modo repentino e che è peculiarità tanto del suo eloquio quanto della sua scrittura, sia poi sviluppato con estrema meticolosità in ogni dettaglio: in quell’occasione specificò a cosa corrispondono lo zerbino, il campanello, la cassetta della posta, lo svuotatasche in ingresso. Poteva sembrare un virtuosismo, e invece tutto filava, fino alla minima rifinitura. Perciò non mi ha stupito sapere che proprio in quei mesi aveva iniziato a scrivere un minuziosissimo libro sulle case, che è anche, fatalmente, se vale il suo paragone, un libro su tutti gli altri suoi libri.

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Ci sono persone che non fantasticano sulle case, altre che non sanno farne a meno. Persone che entrano nelle case altrui sbadatamente, troppo immerse nei propri pensieri o troppo annebbiate dal pudore, altre che vanno a osservare da vicino ogni fotografia e soprammobile, e altre ancora che di una casa colgono subito, senza bisogno di focalizzarsi sui singoli oggetti, l’anima, più o meno coincidente con quella di quanti la abitano. Ci si immagina gli scrittori come osservatori accaniti di interni, ma non è sempre così. A molti scrittori interessano più gli esseri umani dei luoghi, e subito, dentro una casa nuova in cui vada loro incontro il proprietario, è su quest’ultimo che fissano l’attenzione. Altri, invece, dai luoghi sono ossessionati, tanto da renderli il necessario punto di partenza della propria scrittura. In una casa in cui entrino per la prima volta saranno subito distratti dal tentativo di capire come si sviluppa, dove conduce una porta, se svolta il corridoio, se e dove si accede a un terrazzo. Bajani è tra questi.

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Ci sono poi persone che sono colpite dagli odori delle case, altre che non ci badano. Tra le prime c’è Jeffrey Eugenides. Ne Le vergini suicide le case sanno di «cera per mobili», «indolenza pomeridiana», «soap opera», «epidermide», «maionese», «popcorn stantio», «tra la camera mortuaria e il ripostiglio delle scope». Il libro delle case di Andrea Bajani, se fosse una casa, saprebbe di alluminio anodizzato, telefoni in bachelite, cibo rimasto sul piatto, fòrmica azzurrina, mangime per tartarughe, legno di arredamento alpino inciso con motivi floreali, texalfa, cabine telefoniche, cerate, parchi di cliniche, corpi sudati, treni provinciali, interni di vecchie macchine, palloni da calcio, polvere sul battiscopa, ascensori, parquet, passacavi in PVC, sabbia, terrazze su Roma.

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Il libro delle case, come Le vergini suicide, è un’indagine: ognuno dei suoi 78 capitoli è un tableau vivant attraverso cui si prova a ricostruire la scena di un delitto, che è poi quello della vita. Non sarà semplice, dopo la lettura del primo brano sulla Casa del sottosuolo, scacciare l’impressione di essere immersi nella lettura di un poliziesco su base planimetrica o nell’esperienza di uno di quei videogiochi archeologici in cui si entrava e usciva da stanze alla ricerca di indizi la cui utilità appariva piuttosto sfuggente, così come lo scopo del gioco. Non a caso Cluedo è richiamato in almeno un paio di passaggi e ad accompagnare il testo ci sono una decina di vere planimetrie, forse abbinabili ad alcune delle case evocate, forse no: di certo esibiscono, in un’algida riduzione catastale della vita, cosa rimanga ufficialmente a referto di quanto si dipana dentro gli appartamenti. E così tutto il romanzo lotta tra la perizia oggettiva e il magma personale, impone il tono del resoconto distaccato a una materia fervidamente privata. Da cui la necessità che il protagonista si chiami Io, ma se ne parli in terza persona. Fingere di scrivere di qualcun altro era l’unica soluzione plausibile se si voleva dire tutto di sé.

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«Da quando Flaubert ha detto “Madame Bovary sono io” ognuno capisce che uno scrittore è, sempre, autobiografico. Tuttavia si può dire che lo è un po’ meno quando scrive di sé, cioè quando si propone più scopertamente il tema dell’autobiografia» (Giuseppe Berto, Il male oscuro).

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I dati e le informazioni ci vengono allora presentati con un tono descrittivo e cronachistico non lontano da quello di un verbale: ci troviamo davanti a elenchi, campionamenti, inventari, fermo-immagini, nature morte, appunti e didascalie per micro-sceneggiature di ricordi, modellini in scala ridotta dentro cui si muovono sagome umane di cui non si fornisce mai il benché minimo identikit (sono Madre, Padre, Nonna, Sorella, Moglie, Bambina, Parenti, Occupanti…), perché è subito chiaro che il delitto non è risolvibile. Se nei grandi romanzi del ’900 questo era il punto d’arrivo, qui è il punto di partenza. Che si incarna, come detto, in una casa sotto il livello del suolo nel 1976 a Roma: dominano l’ombra e il silenzio, ci cammina una tartaruga e ci gattona un bambino. È evidente che sta per succedere qualcosa. Ma il capitolo successivo ci porta in un’altra casa nel 1998. E il terzo in un’altra casa nel 2009. Cosa incombe su quel bambino?

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Ancora da Le vergini suicide: «Alla fine avevamo le tessere del puzzle, ma comunque le disponessimo c’erano sempre spazi mancanti, vuoti dalla forma bizzarra delineati da ciò che li circondava, come paesi di cui non conoscevamo il nome».

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In questa autobiografia esternalizzata e costruita per tessere di puzzle ciò che balza all’occhio è soprattutto l’impossibilità di riconoscersi nei tanti io che si è stati, è l’evidenza di come ogni casa in cui abbiamo abitato abbia trattenuto con sé una parte di ciò che ci fa dire io, e la fatale incongruenza del quadro finale, nonché la sua incompletezza vista la grande quantità di ricordi fuoriusciti (memorabile l’ultimo capitolo, da brividi), è salvifica. Questo libro ci dice che a liberarci è proprio il fatto di non avere tutti i pezzi e di non poter comunque riconoscere, anche a ritrovarli uno per uno, il disegno complessivo che andrebbero a formare, rivelandoci chi siamo.

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«Era una notte buia e gelida, e una vecchia signora che aveva la passione di costruire puzzle se ne stava seduta in salotto al suo tavolo a completare il suo nuovo puzzle, ma mentre metteva i pezzi insieme si accorse con grande stupore che l’immagine che si formava era quella del suo salotto, e la figura al centro del puzzle, una volta composta, era lei stessa; con le mani tremanti sistemò allora gli ultimi quattro pezzi e fissò inorridita il volto di un pazzo furioso alla finestra. L’ultima cosa che la vecchia signora udì fu il rumore dei vetri infranti» (da L’attimo fuggente).

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Capita che i bambini, viaggiando in macchina coi genitori, guardino fuori dal finestrino e giochino a decretare la casa più bella. Nel mio caso vincevano sempre quelle misteriose, di cui, spesso dietro una fitta cortina vegetale, si intuivano anfratti, meandri, sottotetti, torrette, bovindi, dépendance, ali aggiunte, capricci architettonici, sviluppi solo parzialmente intuibili dal rapido passaggio in automobile. Non erano necessariamente belle case: spesso apparivano trascurate se non in abbandono. Ma avevano qualcosa di ammaliante, una strana aura che è poi quella della poesia, di cui Il libro delle case è intriso. È un libro in prosa, naturalmente, ma funziona come una raccolta di poesie, e come tale va frequentato, con continui ritorni, riaperture casuali, riletture per frammenti, riattraversamenti tramite percorsi alternativi, ben sapendo che tutto si tiene, anche se il disegno generale continuerà a sfuggire, e consapevoli che questa natura irrisolta non metterà mai fine, anzi darà più godimento, alla rivisitazione del singolo brano. Il quadro vivente si riattiverà, le stanze si rianimeranno, i figuranti riprenderanno a muoversi e a ripetere le stesse battute, e sempre con lo stesso contegno pieno di vuoti e reticenze, eppure è in quella incessante replica di un fallimento che ci sentiamo vivere di più.

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E però non si può dimenticare che è la struttura a fare la casa. C’è una direzione di senso nella configurazione che Bajani ha scelto di dare ai 78 quadri di questo libro: va riconosciuta, rispettata, indagata nei suoi salti temporali, negli stacchi spaziali, nelle variazioni, nei ritorni, e poi, come in tutte le raccolte poetiche, tradita, nel momento in cui capiamo che in quel labirinto stiamo per trovare qualcosa che riguarda anche noi.

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Se ogni casa in cui abbiamo abitato ha conservato un po’ di noi, la scrupolosa indagine di Io non potrà esimersi dal tentativo di recuperare i lacerti di sé impigliati nelle vecchie abitazioni ancora visitabili, che per l’occasione andranno violate, nella realtà o nella fantasia. Così si suona il campanello di quella che è stata casa propria, si ficcanasa dentro, o si fantastica, si gode, passando davanti alle finestre da cui un tempo ci si affacciava, della vibrante impressione che qualcosa nella vita torni a combaciare solo in virtù di quella prossimità geografica con gli spazi del nostro passato. Il libro delle case dedica non pochi capitoli alle case dopo di noi, e sono tra i capitoli più belli perché fanno toccare con mano «quanta vita è chiusa dentro ciò che muore».

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«L’abbandono dovrebbe evocare un senso di rovina, mentre per me è una parola in cui mescolato al perduto c’è qualcosa che viene restituito» (Giorgio Vasta, Absolutely nothing).

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Scrive Bajani in un capitolo dedicato alla Tartaruga, vero Leitmotiv del romanzo e custode delle case (lei che ha in sé stessa la propria): «l’abbandono produce, di base, o vittimismo o cura maniacale». Nel caso di Bajani ha prodotto, per il godimento del lettore, cura maniacale, non tanto applicata all’interno di un appartamento ma, facendo valere la metafora casa/libro, alle parole: Bajani passa dai fogli bianchi per i disegni dei bambini di Un bene al mondo alla carta millimetrata, da un lessico volutamente semplice e ridotto all’osso al gergo dei protocolli e all’esattezza dei registri catastali. Il libro delle case vede trionfare la parola precisa, l’affondo tecnico, il prestito da linguaggi lontani dalla letteratura, l’elenco geometrico di oggettistica e mobilio (con punte inventariali, ad esempio nel capitolo 74, tra Gozzano e Burchiello), e sempre però la visionarietà esplosiva della scrittura di Bajani riscatta quanto è denotativo se non burocratico e lo fa vorticare in un trionfo di analogie che scardinano il mondo, ne smontano in continuazione l’ordinata struttura, ne boicottano il grigiore nel momento stesso in cui rischia di rimanere cristallizzato sulla pagina. Ecco perché un libro così avrebbe potuto scriverlo solo lui: nelle mani di altri scrittori Il libro delle case sarebbe diventato un noioso elenco di descrizioni, che è esattamente ciò a cui potrebbe far pensare il titolo. Ma è proprio su questa ambiguità che gioca la scrittura di Bajani, qui quanto mai matura: si posano sulla carta le parole come palle sul velluto di un biliardo, e tutto sembra noto e prevedibile, ma poi si gioca a farle scontrare le une contro le altre nel modo più inatteso non tanto per provocarne attriti o cozzi ironici ma per innescare infiniti movimenti a catena (domina, non a caso, la coordinazione per asindeto), in una scarica variopinta che spesso, nelle ultime righe dei singoli capitoli, fa finire il lettore nella buca con un salto che lascia senza fiato.

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D’altronde non è facile la storia di Io. Ci sono violenza, paura, vergogna, senso di colpa, come in ogni famiglia di origine, ma a più alta intensità. E su questa base ci sono affetto, amore, tenerezza, speranze, come in un ogni nuova famiglia a cui si dà vita, ma con un inevitabile carico di complicazioni. Ci sono Aldo Moro e Pier Paolo Pasolini che si intrecciano alla sua storia e ne accompagnano i primi passi in rappresentanza dell’Italia che sta fuori dalle finestre e filtra dagli infissi. E poi c’è la scrittura: se il libro riesce a farsi romanzo e a raccontare una storia per somma di cunicoli e passaggi segreti da una casa all’altra, è anche grazie alla mappa degli altri libri di Bajani, cui il lettore attento troverà continui rimandi, come addentellati a cui la nuova opera si aggancia finendo per conferire all’insieme una struttura nuova. Una casa nuova. Naturalmente inconclusa.

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«Scivolando [in ascensore] verso il suolo, Io ha incontrato a mezza via il contrappeso che tornava indietro al posto suo».


Andrea Bajani, Il libro delle case, Feltrinelli, Milano 2021, 256 pp. 17,00€