In attesa della cerimonia di premiazione della XXXVIII edizione del Premio Narrativa Bergamo, che si terrà sabato 30a aprile alle ore 18 in Sala Piatti di Città Alta (qui tutte le istruzioni per partecipare), proponiamo delle brevi interviste con i cinque autori finalisti. Nel primo, parliamo con Francesco Bianconi, in cinquina con Atlante delle case maledette (Rizzoli Lizard 2021).

Il tuo romanzo, come suggerisce il titolo, è un atlante di case: di ogni abitazione che il protagonista Dimitri racconta vengono forniti molti dettagli, da com’è costruita alla disposizione delle stanze. Sicuramente da ciò si evince che l’intenzione era quella di ritrarre il rapporto viscerale che ognuno di noi intrattiene non solo con alcune case specifiche, ma col concetto stesso di casa. Ecco, da questo romanzo s’intuisce che la casa può essere sia uno specchio della propria identità, sia una gabbia che invece ne ostacola l’espressione. Secondo te, quale di questi due elementi prevale?

La mia intenzione era proprio rappresentare l’equilibrio fra i due aspetti. Nella migliore delle ipotesi la casa è specchio dell’identità di una persona, rappresentazione scenografica e architettonica della sua psiche. Ma non sempre succede che una persona sia – come si suol dire – risolta, in equilibrio, in pace. Se come spesso succede nelle nostre vite, la nostra anima tende piuttosto alla turbolenza e all’inquietudine, allora anche la casa potrà trasformarsi in minaccioso teatro, castello dei fantasmi e assolutamente sì, ostacolo alla libera espressione dei nostri istinti vitali.

Il romanzo è attraversato da un profondo senso del tempo che passa; Dimitri racconta retrospettivamente la sua vita e rilegge il proprio passato non solo per dare una valutazione alle esperienze trascorse, ma anche per considerare con lo sguardo del dopo le proprie aspettative di un tempo. Pensi che a prevalere sia lo slancio verso il futuro – evidente ad esempio nel finale – o il rimpianto per le illusioni infrante, per ciò che poteva essere e non è stato? Peraltro, questi sono temi che ricorrono anche nella tua scrittura per la musica: c’è una continuità in questo senso…

Anche in questo caso, vince l’ambivalenza. E così succede anche nelle mie canzoni. Sono molto attratto dal potere drammatico che a volte lo scontro di due sentimenti apparentemente contrastanti dà. C’è una scena nel finale del film Drive my car di Ryûsuke Hamaguchi in cui i due protagonisti dialogano nella neve davanti ai resti di una casa distrutta e che è esemplare da questo punto di vista: non ho mai visto al cinema una rappresentazione così precisa, chirurgicamente antiretorica direi, dell’abbraccio fra il dolore dato dall’esperienza passata e lo slancio verso ciò che verrà. 

La speranza poi, è molto spesso malinconica, perché riguarda una previsione di felicità futura che parte dalla constatazione di un a priori passato “registrato” come negativo.

Un tratto che non può essere ignorato di questo libro è che è illustrato. Com’è nata l’idea di affiancare i disegni di Paolo Bacilieri al tuo testo e che dialogo si instaura, secondo te, tra racconto e immagini?

È stata un’idea del mio editore Pasquale LaForgia di Rizzoli Lizard. È stata sua l’idea di pensare alle illustrazioni come a una sorta di “amplificatore emozionale” dello scritto. Mi ha presentato Paolo Bacilieri, di cui ero ammiratore ma che non conoscevo di persona, ed è nata questa bella collaborazione. Bacilieri è un genio, ed è bravissimo nel rappresentare architetture ed urbanistica. Disegna un palazzo come se dipingesse una storia d’amore.

Infine, una domanda più leggera che da sempre rivolgiamo ai finalisti del Premio Bergamo: quale tratto del tuo libro pensi possa farlo vincere?

Ah, non saprei proprio. L’essere un po’ fuori dai canoni, magari?