Il ritorno dietro la cinepresa di Dario Argento e la sua presenza alla Berlinale 2022 nella sezione Special Gala avevano avuto una certa risonanza negli ultimi mesi, specialmente perché l’ultimo film diretto dal regista romano risale a ben dieci anni fa. Si trattava all’epoca di Dracula 3D, goffo tentativo di sfruttare la breve e infausta stagione degli occhialini di plastica: l’operazione costò 7 milioni di euro e ne ricavò solo 500mila. Certo, il maestro del brivido affrontava da tempo una fase calante e il genere horror andava mutando pelle, diventando più introspettivo e sofisticato, ormai distante dallo slasher di cui Argento era stato principale esponente. L’artigianato della paura, fatto di trovate originali ed espedienti a buon mercato in grado di risollevare trame non sempre solide, aveva ormai fatto il suo tempo

Ciononostante quello di Argento è un brand dell’horror il cui glamour non smette di attrarre insospettabili seguaci anche tra i registi à la page, da Luca Guadagnino con il suo remake di Suspiria alla vincitrice dell’ultimo Cannes, Julia Ducournau, a cui si ispira per i suoi body horror.

Anche per questo Occhiali neri è tra le pellicole più curiose della kermesse berlinese, se non altro per essere l’ultima opera di uno dei cineasti più influenti degli ultimi 40 anni. Protagonista del film è Ilenia Pastorelli, lanciata da Mainetti nel film Lo chiamavano Jeeg Robot a cui sono seguite partecipazioni in progetti non sempre azzeccati, ma mai scontati. In Occhiali neri Pastorelli interpreta il ruolo di una escort che perde la vista durante un incidente, mentre è braccata da un serial killer alla guida di un furgone. Diana – questo il nome del personaggio, che richiama la dea cacciatrice – sarà costretta ad affrontare il male nella sua nuova condizione, e allo stesso tempo a proteggere un bambino rimasto orfano nell’incidente causato dal maniaco. Ad aiutarla in questa impresa ci sarà un assistente per non vedenti, Rita (interpretata da Asia Argento), e un cane guida.

Il film si apre su un’eclissi a Roma in una giornata di tarda primavera. Diana percorre in auto le strade deserte e nota ai balconi numerose persone che scrutano il cielo. Decide quindi di fermare l’auto e, inforcati gli occhiali, alza lo sguardo al cielo per unirsi all’osservazione del raro fenomeno. Ma le lenti non sono sufficienti per schermare l’eclissi e la luce ferisce gli occhi della ragazza: segno premonitore del danno più permanente che subirà in seguito. Concluso il breve preludio, esplode la musica martellante di Arnaud Rebotini – e non dei Daft Punk, come molti speravano – che ci trascina nel ritmo furioso di una classica scena alla Dario Argento, con dolly a scrutare la facciata di un hotel e stacco sull’interno di una camera dell’edificio. Qui vediamo una prostituta congedarsi dal suo ultimo cliente uscire dall’hotel e andare incontro al suo destino di sangue, proprio a pochi passi dall’ingresso. Ed ecco il celebre close-up sulle mani inguantate dell’assassino, la corda che si stringe attorno al collo e poi il grande schermo che si inonda di rosso sangue.

Questo è il cinema di Argento, né più né meno, con una cifra stilistica riconoscibile e portata avanti con ostinazione nel corso dei decenni. Il film non presenta alcuna novità rispetto alla filmografia del regista romano, semmai un ritorno alle atmosfere delle prime pellicole, prive di riferimenti al sovrannaturale e più orientate al giallo poliziesco. Come in Suspiria o Phenomena la protagonista è una donna all’apparenza fragile, in grado però di trovare dentro di sé risorse insperate nella lotta contro l’orrore. Sfumature psicologiche e sviluppi caratteriali vengono trascurati come da tradizione argentiana, in un processo di stilizzazione delle paura che ricorda da vicino fumetti iconici come Dylan Dog (o forse è quest’ultimo a ricordare Argento?). Per molti aspetti il film sembra arrivare da una ormai morta stagione del cinema, con i suoi espedienti narrativi da b movie, dialoghi scarni e quasi da fotoromanzo, ma si apprezza per il ritmo e una certa anima grezza che molti film di genere hanno perso alla ricerca di vane auree autoriali. Per il resto Occhiali neri resta un’opera di maniera, che vive di autocitazioni (su tutte l’uomo sbranato dal cane come in Suspiria) e del culto del suo stesso regista. L’esercizio di una vera critica nei confronti di un film di Argento nel 2022 è pressoché impossibile. Lo si guarda con tenerezza, il piede che parte sul ritmo tecno della colonna sonora, mentre si aspetta il lampo della lama che fende il buio. Nulla più.