Seconda parte del dittico che dedichiamo al libro di Claudio Giunta Le alternative non esistono. La vita e le opere di Tommaso Labranca. Clicca qui rileggere l’articolo di Roberto Batisti.


Can poets (can men in television)
be saved?
W.H. Auden, Compline

In un articolo di qualche anno fa, Claudio Giunta lamentava l’arzigogolata vacuità della prosa critica italiana, opponendovi invece la chiarezza, spesso brillante e sempre accessibile, degli anglosassoni. Il topos è noto e l’argomentazione non delle più corrette, visto che ai vecchi tromboni italiani venivano opposti non altri accademici, ma scrittori, giornalisti, battitori liberi; se invece che con Gore Vidal il paragone si fosse fatto con Northrop Frye forse sarebbe riuscito meno impietoso. Cionondimeno, il senso dell’argomentare di Giunta era impeccabile: occorre scrivere senza retorica, senza il culto dell’inaccessibilità; occorre scrivere per essere capiti; e se si vuole sperare di dire qualcosa di utile sul mondo, bisogna sforzarsi di parlare una lingua che nel mondo possa circolare liberamente.
Comincio così per due ragioni. La prima è che questa lingua Giunta la padroneggia, e che è sempre un enorme piacere leggerlo (il piacere, purtroppo non così frequente, di leggere una persona intelligente che scrive cose intelligenti); le sue sono pagine distese, ben argomentate ma anche ricche di aneddoti e di spunti personali. La seconda, naturalmente, è che la padroneggiava Tommaso Labranca, il protagonista di Le alternative non esistono (Bologna: il Mulino, 2020). Protagonista, a dispetto del sottotitolo canonicamente dedicato a vita e opere, e non (solo) oggetto di studio: ma su questo torneremo poi.
Chi mi legge sa senz’altro, almeno a grandi linee, chi è Tommaso Labranca. Io prima di questo saggio ne avevo un’idea abbastanza generale: lo avevo letto episodicamente, limitandomi a Il piccolo isolazionista e Chaltron Hescon. Del resto, se il nome di Labranca ha sempre circolato massicciamente, lo stesso non si può dire per la sua vastissima opera, con pochissime eccezioni pubblicata prevalentemente da editori minori, o su riviste e quotidiani variamente irreperibili, o ancora sotto pseudonimo. Speriamo, anzi, che il libro di Giunta porti a qualche ristampa (un libro del Mulino: auguri). Sapevo che era, prima che uno scrittore (ma è stato anche scrittore), un critico culturale, per così dire; ignoravo che avesse scritto le biografie di Renato Zero e Pietro Taricone; ignoravo avesse fatto l’autore televisivo.

Pur non conoscendo l’autore nel dettaglio, avevo contezza del fatto che si trattava di un autore, in qualche modo, importante: di un autore che aveva scritto di fenomeni culturali essenziali dell’epoca in cui sono cresciuto e in cui vivo, e che lo aveva fatto con acume e senza risparmio. Anche per questo ho immaginato subito che il libro di Claudio Giunta sarebbe stato, in qualche misura, importante, se non altro come prima testimonianza critica su una figura così articolata e in penombra. Ma Le alternative non esistono è importante anche per un’altra ragione, ed è per la continua riflessione che porta avanti, interrogando il proprio protagonista, su che cosa significhi essere un intellettuale oggi.

Irregolare per definizione, estraneo a ogni conventicola e anzi in perenne litigio con tutti, acutissimo e sregolato, autodidatta e autosabotatore, Labranca è una figura intellettuale ubiqua tra gli anni Novanta e gli anni Duemila. Si potrebbe dire, in un certo senso, che il suo lavoro e la sua persona si situino contemporaneamente al centro e al margine della vita culturale del Paese. Al centro, perché quello su cui Labranca scrive è la cultura di massa, quella delle televisioni e della musica pop, dei film disimpegnati e degli ipermercati di periferia; al margine, perché l’attenzione a queste forme culturali, in Italia, non è mai stata perdonata a nessuno, e ha fatto di Labranca un autore che fin troppo spesso, in vita, non è stato preso sul serio.

Come scrive Giunta, «nonostante la sua dipendenza congenita dalla TV, l’Italia è un paese che non rispetta la cultura di massa e chi se ne occupa; e in generale non ama chi, anziché fare la faccia seria, atteggia il volto al sorriso o al riso: è un paese che tende a prendere sul serio quelli che si prendono sul serio» (p. 15; ma su questo aveva scritto estesamente Pierpaolo Antonello nel bel Dimenticare Pasolini. Intellettuali e impegno nell’Italia contemporanea). L’idea che forme espressive popolari, dal gotico al cinepanettone, dalla fantascienza al varietà alla pornografia, possano essere studiate seriamente, non solo come documenti di un collasso estetico o morale, ma per quello che hanno da dire sul mondo, è molto dura da fare accettare agli intellettuali italiani. Io stesso, che mi occupo di fantascienza italiana (“Cioè gli Urania?”, “Sì, più o meno”), sono abituato a sguardi pieni di orrore quando spiego a un collega su cosa lavoro. Qualche anno fa, ne La letteratura circostante, Gianluigi Simonetti riesumava il ferrovecchio critico della paraletteratura, e promuoveva quella di qualità abbastanza alta, graziosamente, al rango di nobile intrattenimento (letterature prive, naturalmente, di «rovelli introspettivi»!; p. 15). Per occuparsi di cultura di massa con strumenti meno rugginosi e meno incerti occorre andare (è un luogo comune, ma non privo di verità) all’estero, e soprattutto in quei paesi anglosassoni dove la cultura di massa ha guadagnato sin da subito un ben diverso status intellettuale, ed è stata guardata con meno sospetto in ambito accademico.

tommaso labranca

Per gli individui della mia generazione, e per gli accademici in particolare, questo sospetto di lunga data ha dovuto subire uno sdoppiamento, per così dire: è lecito interessarsi alla cultura di massa, ma a patto che questa sia coperta da una patina di esterofilia che aiuti a indorare la pillola. Per i miei coetanei di media e alta cultura è diventato accettabile guardare la televisione solo quando questa è uscita dalla televisione e si è trasferita sul laptop: guardare una serie poliziesca svedese è ammesso, guardare Montalbano no. In alternativa, la cultura di massa può essere avvicinata (e quello che avviene nel caso dei, e attraverso i, meme) sotto spessi strati di ironia che, se da un lato non ha più la funzione anestetizzante che aveva nel postmoderno, permette un accostamento obliquo alla materia, e dunque relativamente privo di vere responsabilità. Allo stesso modo, gode di discreto credito in Italia solo chi, da Umberto Eco a Walter Siti, si è occupato di cultura di massa avendo già prodotto solide prove accademiche che ne testimoniassero inequivocabilmente l’appartenenza al mondo degli studiosi seri.

Ecco, se il libro di Giunta è così importante, è perché rende giustizia a chi ha, senza mezzi termini e imbarazzi, dedicato la sua intera opera a una rivalutazione seria (ma mai seriosa o meramente semiotica) della cultura di massa: «Labranca ha ampliato la sfera del criticabile, mostrando come parlare delle cose triviali senza essere triviali a propria volta». Il triviale (e poco sotto l’effimero) di cui parla Giunta è quella cultura di massa che poteva essere trascurata in passato, quando il Paese era ancora in via di modernizzazione, ma che ora rappresenta la totalità di quello che ci circonda; e anzi, «l’etichetta di effimero sembra un po’ fuori luogo quando la si applica a industrie come il cinema, la TV, la moda, i videogiochi, che fatturano fantastiliardi: effimera semmai è la siderurgia» (p. 162).

Perché non possiamo non dirci cialtroni

Il primo merito di Le alternative non esistono, naturalmente, è di ricostruire il pensiero di Labranca. Senz’altro può sembrare esagerato parlare di pensiero in senso forte per uno scrittore così aneddotico ed eterogeneo, ma la verità è che, almeno a linee generali, l’opera di Labranca è attraversata da una sorprendente coerenza, e le sue premesse teoriche sono chiare, ribadite a più riprese tra il serio e il faceto. Si va dal trash di Andy Warhol era un coatto (1994), e cioè  «aspirare a fare o a essere qualcosa che altri fanno o sono e che però è al di sopra delle proprie possibilità, quindi fallire nel tentativo con effetti comici, grotteschi, patetici» (pp. 36-37), al binomio cialtronismo/anticialtronismo, in cui Giunta vede un aggiornamento della vecchia opposizione italiana tra retorica e antiretorica, collocando Labranca accanto a, tra gli altri, Giuseppe Berto e Alberto Savinio (pp. 79-80). È anche una coerenza estetica, perché l’opera di Labranca, quando prende una piega memorialistica o narrativa, è ambientata senza eccezioni nella periferia milanese, nei vasti quartieri dormitorio che circondano la capitale, morale o meno, della Macroregione, e che trovano la loro apoteosi ne Il piccolo isolazionista.

Il perno del pensiero labranchiano, se si vuole, è quello che l’autore definiva «pregiudizio estetico»; e qui sta anche, credo, la sua grande attualità:

Chi cade sotto l’influenza del pregiudizio estetico/scolastico ritiene che esista un valore intrinseco agli oggetti artistici che noi leggiamo, ascoltiamo, vediamo, un valore che si impone con evidenza a chiunque sia dotato di cultura, e pensa che la definizione di questo valore sia legata all’autorità della scuola, dell’università e in generale degli esperti, e che questo valore si associ agli oggetti artistici secondo un sistema di rapporti grosso modo costante: 1) i generi artistici tradizionali (poesia, romanzi, pittura) valgono più di quelli di nuovo conio (cinema, canzone, fumetto); 2) all’interno di un genere, ciò che viene prima di solito vale più di quello che viene dopo; 3) il drammatico e il tragico valgono più del comico (p. 45).

Questo pregiudizio (questo dogmatismo) sta alla base della chiusura alla cultura di massa cui si faceva cenno sopra; e rinunciarvi non significa sostenere che non esistano gerarchie di valore o di qualità tra gli oggetti artistici, chiosa Giunta, bensì rinunciare ad applicarle, invece che agli oggetti, ai generi a cui questi oggetti appartengono. Si tratta di saper rinunciare, in altre parole, all’aura di autorità dei prodotti “alti” solo in quanto “alti” (senza cadere nel rischio opposto, e cioè «di dignificare ogni forma di cultura popolare solo perché popolare», p. 47). Al contrario della facile trasgressione del mescolamento di “alto” e “basso”, «Labranca pensava che non ci fosse bisogno di mescolare alcunché, e che ogni oggetto o prodotto culturale meritasse di essere conosciuto e apprezzato in sé, sullo sfondo della propria genealogia» (p. 48).

In Estasi del pecoreccio. Perché non possiamo non dirci brianzoli (1995), Labranca scrive una lettera divertita e livorosa a Roberto Calasso, invitandolo in due parole a lasciare da parte gli esoterici volumi che, com’è noto, compongono la biblioteca Adelphi («personaggi dai casati impronunciabili: Ulfeldt, Schwob, Szczypiorski, Güiraldes, Ödön von Horváth, Ka’us Ibn Iskandar e […] altri […] che non sto a riportare poiché il mio modestissimo PC ha una limitata tastiera italiana», per interessarsi a, anzi, per diventare Fiorello. Le austere e classicheggianti copertine degli Adelphi, la superciliosa e altezzosa severità del catalogo diventano, nel mirino di Labranca, segni incontestabili di cattivo gusto, che non vendono, se non a pochissimi, «Ulfeldt, Schwob, Szczypiorski», ma semmai l’esperienza di comprare Ulfeldt, Schwob, Szczypiorski; e che, soprattutto, fanno da lasciapassare a libri assai più mediocri (nella lettera di Labranca, Piero Meldini).

Questi sono chiari esempi di un pregiudizio estetico: non Adelphi in sé come editore, ma l’idea che Adelphi, in quanto editore “colto” che ostenta i parafernali della cultura, pubblichi solo prodotti di livello. «La sua élite [di lettori] », affonda Labranca, «è dunque costituita da fuoriusciti del pop, da esponenti della peggiore pubblicità in stile Barocco brianzolo che una volta fatta la grana pensano sia giunto il momento di diventare colti». Al contrario, Fiorello, che è naturalmente simpatico, che non ostenta e non simula, perlomeno non visibilmente – che non cerca, in altre parole, di vendersi per qualcosa che non è – è un modello di onestà a cui mirare. Non solo Fiorello è popolare, ma padroneggia perfettamente il proprio mezzo, e senza ipocrisie. Nel suo campo, Fiorello è migliore di quanto Calasso è nel suo: si astiene dal vendere mobili in stile.

Affermazioni del genere, deliziosamente paradossali, sembreranno, fuori dal gioco, inutilmente polemiche: Roberto Calasso è, in fondo, uno dei più giustamente celebrati imprenditori culturali italiani, e avere contribuito a costruire un brand riconoscibile non è certo una colpa intellettuale, ma semmai un merito. E senza dubbio c’è una pesante dose di teppismo nelle parole di Labranca, animo mercuriale e livoroso. Allo stesso tempo, resta vera e pressante l’osservazione che sta alla base del discorso di Labranca: e cioè che le forme artistiche e i prodotti culturali vanno osservati in sé, coi criteri dei loro creatori e del loro pubblico, e non promossi o scartati aprioristicamente per la loro collocazione in una presunta gerarchia degli stili (che poi sarebbe al massimo una tassonomia).

tommaso labranca

Quasi un romanzo

Questo per quel che riguarda le opere di Labranca; ma il libro, ricorda il sottotitolo, ne riguarda anche la vita. Giunta smette la misura dell’elzeviro e del pamphlet che aveva caratterizzato i suoi ultimi scritti e si produce, invece, in un saggio di ampio respiro: e Le alternative non esistono è composto sì di una parte teorica consistente, ma anche e soprattutto di un interesse biografico, frutto di chiacchiere con amici e conoscenti di Labranca, di interviste. Giunta, in altre parole, con l’opera vuole ricostruire l’uomo: e lo fa con un investimento immaginativo che ha veramente poco del saggio, e soprattutto del saggio accademico (cosa per la quale, non fosse pubblicato per il Mulino, nessuno lo scambierebbe). Non dirò che si legge come un romanzo, anche se nel libro ci si addentra con passione e interesse: troppe e troppo articolate sono le parti saggistiche. Eppure sarebbe bastato poco (un cento pagine di affari propri, qualche aneddoto sviluppato in senso più narrativo) perché ne venisse fuori un Limonov brianzolo (è andata decisamente meglio così). È vero però che Labranca risulta qui non solo un oggetto di studio, un insieme di opere fisse su pagina che il critico scheda, cataloga, analizza, ma semmai una figura vivida nelle sue antipatie, nei suoi difetti, nei suoi colpi di testa. La vita di Labranca, a partire dalle pagine iniziali che Giunta dedica al suo (presunto?) suicidio, disegna una parabola tragica, di una tragedia piccola e meschina com’è l’industria culturale italiana, e che suona come un avvertimento sinistro di come possono arenarsi in qualsiasi momento la vita e la carriera dell’intellettuale italiano (e quelli della mia generazione temo assai più che di quella di Giunta).

Un personaggio, dunque, Labranca; ma sarebbe meglio dire due, perché a lui si affianca, con discrezione ma costanza, Giunta stesso. Da diversi anni Giunta, medievista di fama, saldamente collocato in cattedra a Trento, coltiva una vena, anche lui, da commentatore di cose varie e diverse della cultura e della società contemporanea (e lo fa, va detto, con una dose di vanità significativamente minore di tanti suoi colleghi): dall’Islanda a Fantozzi, dai meeting di CL a Matteo Renzi, Giunta ha prodotto, in quest’ultimo decennio, una serie di libri ben scritti, intelligenti e illuminanti sul mondo in cui viviamo (cui si affiancano quelli meno eccentrici, intimamente antiretorici, e condivisibilissimi, sull’istruzione secondaria in Italia). Questi interessi, Giunta non ne fa mistero, si accompagnano a un progressivo disamore per la cultura umanistica, o perlomeno per la cultura umanistica così come viene tramandata, stancamente, nelle aule di liceo e universitarie:

La cosa non mi fa onore, ma devo confessare che la mia prevenzione, il mio sospetto, nasceva appunto da questo discreto mecenatismo. Vissuto sempre in mezzo ai libri, pagato per decenni dallo Stato, cioè dai contribuenti italiani, per studiare, scrivere e insegnare, ho finito per sviluppare un sentimento di stanchezza, a volte quasi di avversione per la cultura, soprattutto per la cultura che pretende di vivere al di fuori dei pochi spazi che tradizionalmente le sono destinati (scuola, università, giornali, case editrici); e come ogni spretato sono insofferente nei confronti di chi invece nella cultura disinteressata crede ancora, e disinteressatamente la finanzia producendo cose inutili come una rivista che nessuno compra e libri che nessuno legge (p. 29).

Il libro è affollato di critiche agli accademici e al loro noioso rigore; quando ripensa alla propria formazione, Giunta torna sempre sull’inutile altezzosità, sul senso ingiustificato di importanza che porta con sé l’educazione umanistica italiana; e per contro, come appare vitale nel testo, benché malinconica quando non disperata, la formazione di autodidatta di Labranca! Lo spretato Giunta (qualifica spaventosa, che parla da sé) sembra inseguire in Labranca il fantasma di quello che lui stesso avrebbe, insieme, voluto, potuto, e rischiato di essere.  

Questa dimensione fantasmatica non è da intendersi in senso biografico, chiaramente, ma in termini di postura intellettuale. C’è anche, però, un sottofondo più personale: nel paragrafo che conclude la seconda parte, intitolato 45 anni, Giunta, riflettendo sul fallimento lavorativo di Labranca, ormai pienamente palesatosi a quell’età, scrive che «attorno a quell’età […] si capisce chi si è e, soprattutto, chi si sarà negli anni che restano» (p. 183). Non penso sia azzardato dire che questo è il libro con cui Giunta, che ha pressappoco quell’età, vuole capire, e soprattutto far capire, chi è e chi sarà. Del resto, la dimensione fantasmatica (meglio: hauntologica) de Le alternative non esistono non è nemmeno così metaforica – il libro si apre con un necrologio e si chiude parlando di fantasmi.

C’è sempre un’alternativa

Questo bisticcio di riflessi (il professore e l’irregolare, il protagonista e il suo biografo) produce un altro nucleo di riflessione essenziale: se l’accademia è tanto stantia e da autodidatti si rischia di fare la fine di Labranca e scivolare in una spirale di commissioni sempre più avvilenti, come e da che posizione si può fare critica culturale in Italia? Come vivere, si chiede Giunta, «oggi, fuori, in coerenza con le proprie idee (cioè anche con i propri disgusti, le proprie antipatie, il proprio cattivo carattere, la propria indisponibilità al compromesso), per tutti quelli che non hanno il paracadute di una famiglia abbiente, di una rendita o – com’è il mio caso – di uno stipendio da professore (e uno studio, un ruolo, una biblioteca, fondi di ricerca, contatti con i colleghi…)» [?] (p. 15).

Una domanda senza risposta, a leggere il libro di Giunta, come suggerisce il titolo stesso: le alternative non esistono. Più che richiamare l’incontestabile «there is no alternative» che Margaret Thatcher riferiva al capitalismo, qui Giunta si riferisce semmai all’impossibilità apparente di prodursi in una critica culturale che non sia (solo) strettamente accademica, ma che possa «occuparsi dell’effimero con intelligenza e umorismo» (p. 162); che possa interagire con la realtà, ed essere, in quanto libera, anche produttiva. Ora, vengono due osservazioni. La prima è che davvero non sembrano esserci alternative, se tra gli eredi di Labranca che individua Giunta (Guia Soncini, Michele Masneri, Andrea Minuz, Guido Vitiello) due (Muniz e Vitiello) sono comunque anche accademici. La seconda è che Giunta pare contraddirsi, nella sua ricerca di un saggismo meno impastoiato e bituminoso, suggerendo che di certe cose occorra occuparsi con intelligenza, sì, ma anche con umorismo: quasi a intendere che, in fondo, non appartengono davvero all’accademia.

Sarebbe stato bello se questo inseguimento di Giunta, così preciso e generoso, fosse riuscito a rispondere a questa domanda: a suggerire una terza via per occuparsi «dell’effimero» che non sia quella dell’accademico con la tenure o del tragico irregolare; che fosse invece, magari, quella di un’accademia meno snob, meno sospettosa, meno dogmatica, e più aperta verso la cultura di massa (come avviene, ripetiamo, all’estero). Il che non significa, naturalmente, che l’università deve modellarsi sulla cultura di massa, adottandone i modi di comunicazione, la superficialità di analisi, la velocità nel cambiare argomenti di interesse, ma semmai che occorre riconoscere la liceità di occuparsi anche dell’ “effimero”, perché anche a partire da quello si possono produrre riflessioni utili su come si struttura il mondo e su come funzionano la letteratura e le arti. Sarebbe auspicabile, credo, che l’università stessa ampliasse gli ambiti del criticabile, e che questi non restassero patrimonio di precari cognitivi o del dopolavoro di professori di chiara fama. Nel libro di Giunta, oltretutto, il fenomeno-Labranca (e ancora di più il modello-Labranca) pare essere possibile solo con una certa dose di agiografia, che, per definizione, deresponsabilizza chi la legge – tanto distante, tanto irraggiungibile è il modello proposto, che in fondo non vale nemmeno la pena di cominciare a inseguirlo.

Al netto di queste questioni, se si vuole, epistemologiche, Giunta ha sempre chiaro, e lo ripete a più riprese, che la rilevanza di Labranca sta nella sua attenzione costante e priva di pregiudizi al reale, in tutte le sue forme, e questa è senz’altro l’importanza che deve rivestire il lavoro di Labranca anche per chi si occupa a vario titolo di humanities oggi:

Pochi tra gli intellettuali della sua generazione hanno vissuto immersi nel mondo tanto quanto questo asceta. Si potrebbe anzi dire che ciò che Labranca ha fatto a partire dalla metà degli anni Novanta è stato prendere in carico la realtà: che non era e non è fatta principalmente di coppie borghesi che si prendono e si lasciano, come succede nei film italiani finanziati dal Mibac, ma di televisioni private con le loro trasmissioni di numeri al lotto dati da veggenti, ipermercati, autogrill notturni, discoteche con l’ospitata di Scialpi. Il suo è stato uno dei ‘nuovi realismi’ più realistici che abbiamo avuto, perché ha saputo raccontare certi aspetti della vita italiana contemporanea su cui pochi sino ad allora avevano fermato veramente l’attenzione, perché in mezzo a questa realtà viveva senza patemi intellettualistici, e perché aveva una capacità di visione unica, piena di pietà ma quasi sempre scevra di moralismo (p. 212).

Io non mi interesso, né professionalmente né personalmente, alle cose a cui si interessava Labranca, perlomeno non nello specifico. Guardo poca televisione, la radio, per ragioni generazionali, non l’ho mai ascoltata, l’arte contemporanea la frequento poco; ma riconosco la legittimità e l’importanza di occuparsi di tutte queste cose. Qualche settimana fa Orietta Berti, sul suo profilo Facebook, ha fatto pubblicità con un breve video al libro del «prof. Claudio Giunta». Quando ho visto la cosa, non sapendo che la Berti e Labranca erano amici e avevano lavorato a un libro insieme, ho riso: come stanno presi al Mulino che devono scomodare Orietta Berti? Ma mi sono reso conto subito che mi sbagliavo. Perché la vita di Orietta Berti dovrebbe essere a priori meno interessante di quella, per dire, di Franco Fortini, per capire il presente? O, per rimanere nella fascia accademicamente accettabile di cultura pop, di David Bowie? E la mia non è una postura dandistica o apocalittica, come una forma di snobismo al contrario, né la constatazione amara di un disilluso per cui la letteratura, in fondo in fondo, ha perso di senso; semmai è la presa di coscienza del fatto che, affinché quello che facciamo continui ad avere un senso, il punto di partenza deve essere questo.


Claudio Giunta, Le alternative non esistono. La vita e le opere di Tommaso Labranca, Il Mulino, 2020, 264 pp., € 23.