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Il giorno dell’ape e tutte le famiglie infelici, che lo sono a modo loro

Diletta CapocchidiDiletta Capocchi
22 Aprile 2025
in Letterature
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Il giorno dell’ape e tutte le famiglie infelici, che lo sono a modo loro

A gennaio Einaudi ha portato in Italia, con la traduzione di Tommaso Pincio, Il giorno dell’ape, dello scrittore irlandese Paul Murray. Si tratta di un romanzo di più di seicento pagine, definito da Bret Easton Ellis uno dei più belli del 2024, vincitore dell’Irish Book Award nel 2023, finalista al Booker Prize e ora anche al Premio Strega Europeo 2025. Il pubblico ricordava Murray per il suo Skippy muore, pubblicato ormai quindici anni fa, e le aspettative per la sua nuova uscita erano decisamente alte.

L’incipit del romanzo prospetta subito un’atmosfera cupa, con un racconto di violenza:

Nel paese vicino, un uomo aveva ucciso la famiglia. Aveva inchiodato le porte perché non uscisse nessuno; i vicini li avevano sentiti correre per le stanze, gridare, chiedere pietà. Finita l’opera aveva rivolto la pistola contro sé stesso (p. 7).

Tuttavia, il cuore del romanzo non risiede in questa scena iniziale. Poche righe dopo, fa capolino Cass Barnes, adolescente all’ultimo anno di scuola superiore, che si confida con la sua compagna di avventure, Elaine. L’uomo dell’incipit, così come la sua famiglia, verranno presto dimenticati, e mai più menzionati. Al loro posto, ci viene presentata la famiglia Barnes, che diventa il fulcro narrativo del romanzo: una famiglia borghese irlandese che avrebbe potuto benissimo essere presentata dalle parole inaugurali di Anna Karenina: «Tutte le famiglie felici sono uguali, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo».

I Barnes, lo capiamo subito, sono infelici, e proprio per questo sono ossessionati dalla speranza di ricominciare, di lasciarsi alle spalle il passato. Cass lo racconta con la sua storia di formazione, quella di un’esistenza grigia in un paese a due ore da Dublino e quella di una ragazza ansiosa di affrontare il futuro al Trinity College e di reinventarsi, ma anche spaventata dal timore che questo futuro possa non arrivare mai, soprattutto perché la concessionaria di famiglia è sull’orlo del fallimento.

Siamo negli anni 2000, segnati dalla crisi economica, e ciò che accade ai Barnes è probabilmente la storia di molte altre famiglie. La connessione empatica che il lettore sviluppa con i personaggi è uno degli aspetti più riusciti del romanzo. I protagonisti si muovono in un contesto che tutti conosciamo, affrontando sfide quotidiane legate alla recessione e ai cambiamenti climatici. Cass, ad esempio, deve raccogliere i dati sulla sua carbon footprint per una ricerca scolastica e suo padre, Dickie, la aiuta scoprendo con orrore quanto inquinante sia la sua attività di venditore di auto. In parallelo, la crisi economica segna la chiusura di molti negozi e un cambiamento nelle abitudini quotidiane della comunità. Aleggiano sull’intera vicenda sensazioni di fine imminente, ben incarnate dalla fissazione di Dickie per la costruzione di un bunker nel bosco dietro casa – un rifugio pensato per proteggere la famiglia da un possibile cataclisma.

Ma che roba è? chiede lei Cos’è?

Bè è un rifugio Immagino lo si possa chiamare così dice Dickie

Nel caso ci fosse un’emergenza dice PJ E avessimo bisogno di nasconderci

Nasconderci ripeté lei [Imelda]

Esatto se va via la corrente per esempio o se ci fosse una guerra O un attacco nucleare (pp. 332-333)

Entriamo, capitolo dopo capitolo, nella mente di ciascun membro della famiglia Barnes: dopo Cass è il turno di PJ, dodicenne geniale e molto nerd, poi di sua madre Imelda, bellissima e vanitosa, infine di Dickie. Lo stile di Murray cambia a seconda della mente che stiamo abitando, spaziando dallo slang dei videogiochi che tengono compagnia a PJ per gran parte della giornata, a un flusso di coscienza quasi joyciano quando seguiamo Imelda, la più inquieta dei quattro personaggi, nel suo tentativo di risollevare le sorti familiari. I primi quattro, lunghissimi capitoli servono a fotografare la famiglia nel presente, aggiungendo via via dettagli dal passato; dopo questi, le voci continuano ad alternarsi in maniera randomica, passando talvolta il testimone ad altri membri della comunità del piccolo paese irlandese. Il ritmo si fa  sempre più serrato, fino ad arrivare a una scena finale che ricorda uno spettacolo teatrale, in un alternarsi di voci, pensieri e dialoghi.

Il giorno dell’ape ha quindi un’architettura complessa, necessaria per raccontare una storia che, pur nella sua specificità, affronta interrogativi universali.

Al centro della dinamica familiare che muove l’intero romanzo c’è l’assenza di comunicazione. Murray mostra come il silenzio possa radicarsi nelle relazioni che coinvolgono persone che vivono sotto lo stesso tetto, avvelenandole, trasformandosi in una sorta di trauma che si tramanda come un’eredità genetica, deformando chi lo attraversa. Non è un caso, a mio parere – e Murray lo ha confermato nella recente presentazione a Testo, fiera del libro che si tiene a Firenze ormai da quattro anni – che l’autore abbia scelto di partire dai figli per narrare la storia, lasciando che le loro prospettive giovanili e le loro inquietudini ci introducano nelle vicende della famiglia Barnes. Solo successivamente, con il passaggio alla madre e al padre, si riempie il vuoto di comprensione che i giovani non hanno potuto colmare, svelando la radice di quella comunicazione interrotta che si estende come un’ombra su tutta la famiglia. Questo graduale ampliamento della storia ci ricorda quanto spesso i figli fatichino a vedere nei propri genitori delle persone con un passato, a loro volta figli, adolescenti, ribelli. E quanto (anche) le loro vite siano state plasmate, nel bene e nel male, dall’eredità dei propri genitori.

Un altro potentissimo tema del romanzo è la tensione costante tra aspirazione e realtà. Il desiderio di cambiamento, provato da più di un personaggio – Cass per prima, che sogna di fuggire e trovare risposte nella grande città; Dickie, che ci racconta dei suoi anni a Dublino e di aver provato le stesse sensazioni della figlia, ma anche Imelda, nel suo sogno di sposarsi e costruire una famiglia più funzionale di quella d’origine, e PJ, nel credere fino in fondo e ingenuamente che tutto si sistemerà – si scontra con l’inerzia delle circostanze e il futuro immaginato sembra sempre un passo troppo lontano da coloro che lo sognano. Murray esplora con precisione il momento in cui l’illusione di un possibile riscatto si incrina, rivelando quanto sia difficile spezzare i meccanismi che ci tengono ancorati a un presente insoddisfacente.

La trama è densa, e lascio al lettore la soddisfazione di addentrarsi nella “foresta” di casa Barnes. L’ape del titolo vola di capitolo in capitolo, di storia in storia, come a legare in un filo invisibile tutti gli eventi narrati – e come suggerisce la copertina originale. Per scoprire il vero significato del titolo, apparentemente chiarito nella prima parte del romanzo, bisogna invece attendere la fine.

Murray ci regala una potente storia familiare, con alcune scene estremamente comiche, soprattutto all’inizio:

Passare del tempo con sua madre voleva dire ascoltare una radiocronaca continua di quel che le frullava in testa. […] Devo prenotarti l’elettrolisi per quei baffetti che ti stanno spuntando, diceva; poi, mentre lei era ancora sbigottita, Che sono quelli, tulipani o begonie? C’è Marie Devlin, non ha il minimo senso dello stile, ma proprio zero, sai? È Arabo quello là? Si sta riempiendo di arabi ‘sto posto. Dov’è che fanno quel fantastico chutney? Kay Connor mi ha detto che Anne Blunny ha perso qualche chilo ma non nei posti giusti, secondo il medico. Pensavo ci fosse il sole e invece niente. L’hanno inventato gli arabi, il chutney? (pp. 11-12)

Il tono della narrazione si fa però sempre più tragico via via che ci si avvicina alla fine. Spesso accostato a Le correzioni di Jonathan Franzen, con cui condivide senza dubbio il respiro del “grande romanzo”, Murray ci consegna una storia di microcosmi vivisezionati e intrecciati a fattori ambientali, ricordandoci che la famiglia è un’arena, un rifugio e una condanna, e che spesso la più grande eredità che riceviamo non è fatta di beni materiali, ma di parole non dette e di ferite mai rimarginate.


Paul Murray, Il giorno dell’ape, traduzione italiana di Tommaso Pincio, Torino, Einaudi 2025, € 22, 664 pp.

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Tags: EinaudiIrlandaPaul Murrayromanzoromanzo familiareTommaso Pincio
Diletta Capocchi

Diletta Capocchi

Nata a Prato, è un’insegnante di lingua inglese in una scuola superiore di Lucca. Il desiderio di fare l’influencer è rimasto in lei a lungo latente, e si è finalmente manifestato con la decisione di aprire, nell’agosto 2023, il profilo IG @chiaredilettanti, dove assieme a una collega recensisce e commenta libri. Le piacciono anche i gatti e i podcast.

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