La neonata casa editrice milanese Taut inaugura la propria attività con un’antologia di ‘nuovi’ poeti: Planetaria. 27 poeti del mondo nati dopo il 1985, curata da Massimo Dagnino e Alberto Pellegatta. Il sottotitolo già chiarisce i due criteri che hanno orientato la selezione: la volontà di dare alla selezione un respiro internazionale, affiancando agl’italiani loro coetanei di altri paesi e tradizioni linguistiche; e la classe anagrafica, qui assunta “come strumento formale […] senza promuoverla a categoria critica” (p. 6). I curatori ammettono infatti la superiorità del principio bibliografico (data di pubblicazione dell’opera prima) su quello biografico, sperimentata da Marco Corsi e dallo stesso Pellegatta nella recente antologia Velocità della visione. Poeti dopo il duemila della fondazione Mondadori (2017), ma di avervi dovuto rinunciare per ragioni esterne. Se la diffidenza rispetto all’abusato criterio generazionale è condivisibile, il taglio cronologico individuato merita qualche commento. Non è scontato, infatti, che la categoria di ‘poeti under 35’ che ne emerge abbia – anche solo limitandosi alla scena italiana – alcuna unità interna. Più visibili sono forse (io credo in generale a livello antropologico, ma anche limitatamente all’attività letteraria) le differenze fra i nati fino, all’incirca, alla fine degli anni ‘80, e quelli degli anni ‘90. Ma vediamo come gli autori inclusi si suddividono lungo l’asse cronologico, lustro per lustro: dal periodo 1985-1990 provengono 7 autori, di cui 5 italiani; nel 1990-1994 si concentra la gran maggioranza degli antologizzati, con 15 poeti, di cui 9 italiani; se però si aggiunge il contiguo 1995, con altri tre autori, tutti italiani, si vede come la prima metà degli anni ‘90 faccia la parte del leone in Planetaria. A questi si aggiungono, fra i più giovani, un autore del 1998 (il marchigiano Riccardo Canaletti) e addirittura un 2001, il calabrese Mario Gennatiempo, unico rappresentante dei nati nel nuovo millennio. L’inclusione di due esordienti assoluti (lo stesso Gennatiempo e Augusto Ficele) testimonia un lavoro di scouting che non si è limitato allo spoglio delle pubblicazioni.

Non credo che la preminenza dei ‘90, per quanto – come dirò – in parte conseguenza di scelte d’ordine stilistico, sia casuale. La generazione dei nati negli anni ‘80, a differenza di autori di poco più anziani e poco più giovani, non si è certo affacciata sulla scena in modo travolgente. La prima antologia che cercò di presentarla in modo organico (La generazione entrante. Poeti nati negli anni Ottanta, a c. di Matteo Fantuzzi, Ladolfi, 2011) soffriva di alcune esclusioni già allora discutibili[1], e gravitava, per numero e rilevanza, su autori nati nella prima metà del decennio (esclusi, dunque, dalla selezione di Planetaria). Presentava, comunque, già allora un profilo complessivo poco coeso e relativamente debole, nelle parole dello stesso curatore “un’identità sfilacciata e solitaria, debole e poco battagliera, una potenziale nuova ‘generazione in ombra’” (p. 8). Altrove, Luca Rizzatello[2] ha sostenuto che quella dei nati negli anni ‘80 sia, almeno in poesia, una “generazione mediamente non degna di nota per quello che ha prodotto […], mediamente composta da persone con poco talento, e con una disciplina non sufficiente dal punto di vista autoriale” (per quanto l’attività dello stesso Rizzatello, classe 1983, come poeta, editore, artista multimediale e organizzatore culturale basterebbe a smentire la generalizzazione). Può darsi, però, che in alcuni casi si tratti semplicemente di una generazione i cui talenti migliori sono late bloomers. Si veda il caso di un autore che ricade appena al di fuori del periodo preso in esame da Dagnino e Pellegatta, come Luciano Mazziotta (1984), che nell’anno appena trascorso ha dato con Posti a sedere (Valigie Rosse, 2019) una prova eccellente per densità linguistica e concettuale, di molto superiore alle sue precedenti raccolte.

Come storicizzazione dei poeti degli anni ‘90, il libro di Taut arriva appena dopo altre due recentissime operazioni: Abitare la parola. Poeti nati negli anni Novanta, a c. di Eleonora Rimolo e Giovanni Ibello (Ladolfi, 2019), e Poeti italiani nati negli anni ‘80 e ‘90, vol. 1, a c. di Giulia Martini (Interno Poesia, 2019); più simile, quest’ultima, nella scelta di abbracciare entrambe le decadi. Sono, queste due antologie, comunque molto più affini fra loro per quanto riguarda gli autori inclusi, e delimitano in qualche maniera un campo complementare, non necessariamente opposto, a quello di Planetaria. Il solo Simone Burratti appare sia in Planetaria sia in Abitare la parola, mentre quest’ultima ha quattro autori (più i curatori stessi) in comune con l’antologia curata dalla Martini.

Per quanto riguarda la geografia, gli italiani di Planetaria appaiono ben distribuiti fra Nord (7), Centro (5), e Sud (7) – anche se le attribuzioni tengono conto del luogo di nascita, non necessariamente di formazione e/o attività attuale: se la sicilianità linguistica di Dina Basso non ha risentito del trasferimento a Torino, il sanremasco Micaletto, studente a Milano e da tempo residente a Roma, non sarà forse un tipico rappresentante della Liguria (ma non lo è, forse, dell’Italia), e ancor più nomade appare, ad esempio, la biografia di Michele Lazazzera, lucano di Matera ma cresciuto a Roma, studente in Francia e ora architetto in Belgio. Comunque, al netto delle preferenze stilistiche di cui si discuterà, la selezione di Planetaria offre una buona mappatura, per quanto non esaustiva, dei migliori poeti italiani nati dopo il 1985. Lascia più perplessi, quanto a rappresentatività, la selezione di autori stranieri, abbastanza squilibrata sul piano geo-linguistico: predomina l’area iberica, con tre autori spagnoli, un venezuelano, e un portoghese; l’anglofonia è rappresentata da un’autrice britannica (Ella Frears, 1991) e da una statunitense, di origini però cambogiane (Monica Sok, 1990); un russo, infine, Aleksandr Malinin (1991). Colpisce la completa assenza di due aree linguistico-culturali importanti, quella francese e quella tedesca; per tacere di tradizioni più ‘esotiche’. La preferenza per autori ispanici si spiega bene, fra l’altro, con la biografia professionale di Pellegatta, residente da tempo a Barcellona. Il lato lodevole dell’operazione sta nel fornire un termine di raffronto internazionale che purtroppo manca in buona parte alla contemporanea poesia italiana (con l’eccezione degli ambienti di ricerca, dove esperienze straniere, soprattutto franco- e anglofone, sono ben conosciute, tradotte e discusse). E proprio come contestualizzazione di una scena italiana ricca di talento più di quanto non si creda, ma troppo autoriferita, l’inclusione di autori stranieri ha senso; più che come autentica mappatura della poesia under 35 mondiale, che richiederebbe una campionatura molto più ampia e, in definitiva, un volume autonomo. Nel confronto, peraltro, mi pare che gl’italiani non sfigurino affatto di fronte ai loro coetanei stranieri.

Ai due criteri oggettivi, storico e geografico, va naturalmente associato quello stilistico. Nella prefazione, intitolata programmaticamente Fuori dall’amalgama, i curatori dicono di aver ricercato “una poesia il più possibile immune all’effetto amalgama, assai diffuso, che quasi delinea una sorta di poeta-massa” (p. 5); i poeti di Planetaria, ci viene spiegato, non necessariamente unificati sul piano dei contenuti, “conseguono una riconoscibilità immediata e incontrovertibile attraverso lo stilema”, per la loro “capacità di pensare e agire sulla struttura dei testi, di eludere i modelli standard di approccio alla poesia” (p. 7). Quale sia questo poeta-massa o ‘poeta standard’ (per usare un sintagma reso memorabile dalle satire della pagina Nuova poesia troll), non viene specificato, per quanto l’interscambiabilità stilistica di molti esordi recenti, che proseguono in modo troppo inerte koinai ricevute, sia rilevata a buon diritto da diversi critici[3]. Ho scritto koinai, al plurale, perché va osservato che non esiste uno standard, quanto alcune vulgate stilistiche egemoni: la neo-orfica, la visceralistica, la ‘lombarda’, la civica, la bamboleggiante; a cui va ormai aggiunta anche una koiné della poesia orale-performativa grande novità, nel bene e nel male, degli ultimi anni. Aver dato spazio ad autori che si distinguono per la spiccata personalità della voce (e in certi casi non solo di quella) è un indubbio merito dell’antologia. Va detto che fuori restano non solo esponenti poco brillanti dei vari standard di cui sopra, e – più in generale – bravi e intelligenti verseggiatori forse un po’ troppo epigonici del Novecento e per indole poco interessati a una poesia ‘di rottura’; ma anche poeti di valore per nulla accusabili di genericità o scarsa originalità. Mancano autori che praticano, in modo personale e con risultati notevoli, poesia marcatamente sperimentale quanto alla (distruzione della) forma: dalle scritture deflagrate di Simona Menicocci (1985) e Fabio Teti (1985), all’iperlingua metallica di Daniele Bellomi (1988), al sempre più multimediale Andrea Leonessa (1989). Mancano, altresì, poeti legati alla tradizione non solo novecentesca che rivisitano con intelligenza le forme e le metriche classiche: dal saporito eclettismo di Bernardo Pacini (1987), al manierismo teatrale ed erudito di Marco Malvestio (1991), al romanticismo metalinguistico di Giulia Martini (1993). Quelli appena citati sono, a puro titolo d’esempio e senza pretesa di completezza, nomi che io includerei senz’altro se dovessi compilare un’antologia col medesimo criterio anagrafico; così come, per tornare sul versante orale-performativo, avrei quantomeno incluso un Julian Zhara (1986), per la sua capacità di coniugare questo filone con quello più ‘lineare’ e ‘cartaceo’ (la vera e definitiva antologia della performance dovrà essere su supporto audiovisivo, per necessità di cose). Un’altra linea storicamente importante nel nostro paese che qui trova poco spazio è la poesia dialettale, rappresentata solo dalla catanese Dina Basso con il suo siciliano “non […] museo, ma […] strumento del quotidiano” (p. 24).

Ma l’antologia di Taut è e deve essere, appunto, riflesso delle predilezioni non mie, ma di Dagnino e Pellegatta; e non tanto gli esclusi mi colpiscono, ma, anzi, l’inclusione di diversi autori a me cari che credo siano davvero fra i migliori della loro generazione. Penso, soprattutto, a Simone Burratti (1990)[4], con le sue prose scaturite dalla tensione fra “un’incallita precisione strutturale, da un lato, e l’assecondamento delle spinte irrazionali e deformanti dall’altro” (così Pellegatta nella nota critica, p. 40); a Gabriele Galloni (1995)[5], la cui poesia “ha l’urgenza della cura e la solida struttura di una diagnosi” (p. 80); ai versi “disturbanti e disinfettati” (p. 141) di Manuel Micaletto (1990)[6]; all’irriverente e ferino Francesco Maria Tipaldi (1986)[7]. La cifra che accomuna questi autori così diversi si può cercare, oltre che nel dato estrinseco (ma forse non del tutto senza rilevanza, nella misura in cui trapassa dall’ambito caratteriale a quello stilistico) di personalità brillanti e in certi casi provocatorie, nel felice connubio di stilizzazione e irruenza. Tutti lavorano ‘a togliere’ partendo da un nucleo denso e rovente. L’acribia millimetrica con cui è costruita ogni pagina colpisce a prima vista nel lavoro dei primi tre scrittori qui citati. Non così, apparentemente, nello spettinato e svagato Tipaldi, che pure non a caso riesce al meglio quando sa sublimare la sua tendenza alla divagazione selvaggia e alla fantasmagoria psichedelica nella concisione memorabile della vignetta di pochi versi o, più recentemente, della massima pseudo-sentenziosa dal sapore surrealista.

In tutti questi poeti, a ogni modo, il senso profondo di necessità e l’originalità dell’ispirazione bruciano le scorie ‘culturalistiche’ e trascendono le (af)filiazioni. Micaletto ha importanti legami con l’area di ricerca e con le filosofie del negativo, ma è troppo disilluso per prenderne sul serio le tecniche nel momento stesso in cui le adotta, troppo talentuoso per farsi limitare dai limiti di certe posizioni ideologiche. Similmente, Burratti sa muoversi con competenza fra le varie declinazioni della prosa poetica, che adotta non per moda ma come medium di volta in volta più adeguato per la sua spietata autoanalisi. Galloni è più legato alla tradizione: tecnicamente facile da ricondurre a Penna e a certa scuola romana, ma anche, più indietro, ai simbolisti belgi e ai nostri crepuscolari, è un accortissimo calligrafo delle proprie ossessioni che finora è riuscito miracolosamente a coniugare il ritmo forsennato delle pubblicazioni con la qualità (e anche con una certa varietà di generi, fra versi, racconti, e teatro). Lo stesso Tipaldi pratica una scrittura associabile per temi e umori a un filone primitivistico ‘meridionale’, ma la declina in modi che fanno di lui un unicum nella poesia italiana recente. Dunque: personalità spiccata, irriducibilità a mere appartenenze culturali, lavoro formale accurato ma non fine a sé stesso. Anche, direi, scarso o non necessario legame col verso: fra di loro, solo Galloni (quando fa versi) è impeccabilmente adagiato nelle misure tradizionali. C’è un altro tratto comune fra i quattro: sono tutti ‘boy writers’, secondo la categoria spirituale e non anagrafica di Paul Auster[8], cioè scrittori beffardi e vulcanici e continuamente innamorati delle loro trovate (sono infatti autori di cui si fatica a immaginare, né davvero si auspica, una maturazione in senso stretto).

La cifra che accomuna questi autori – messi qui in speciale rilievo, giova ripeterlo, non perché lo facciano i curatori dell’antologia, ma per mia convenienza – si ritrova, con riuscite individuali più o meno convincenti, anche negli altri. Non pochi sono i poeti che ho avuto il piacere di scoprire sulle pagine di Planetaria e che mi pare si attestino, o possano farlo in futuro, sullo stesso livello di quelli già menzionati. Si segnalano, ad esempio, Davide Cortese (1994) per l’acutezza di sguardo che si addensa in precise formulazioni linguistiche; l’esordiente Augusto Ficele (1992), per la fresca ironia scanzonata e la felicità icastica delle trovate; o Michele Lazazzera (1995) per la capacità di gestire un verso lungo dagli umori mutevoli, che incorpora frammenti di contemporaneità grottesca accanto a un lirismo più acceso. Spiccano anche due autori stranieri dal respiro tematico e metrico più ampio: lo spagnolo David Leo García (1988) “non si spaventa davanti al poemetto cosmico”, e così come sa suggestivamente descrivere il tempo profondo, nel notevole Nueve meses sin lenguaje dipinge ‘da dentro’ la perdita e la riconquista della lingua. Il venezuelano Adalber Salas Hernández (1987) è il più epico e classico dei 27, e la sua lingua – non solo quando riscrive l’Odissea – è prodiga di similitudini dall’omerica concretezza.

La selezione, così attenta allo stile, non sembra essersi troppo preoccupata dei temi. Nella prefazione si rileva, fra i vizi della poesia recente, il “civilismo” dei poeti “immersi in una bolla atemporale in cui un nemico immaginario giustifica un’idea obsoleta di poesia”. Coerentemente con tale posizione, i problemi sociopolitici non sono direttamente tematizzati dalla maggioranza dei 27 autori; fra le eccezioni, l’accenno all’11 settembre di David Leo (debitamente rilevato da Pellegatta), e soprattutto la poesia di Monica Sok, che riflette però un trauma ereditario (il genocidio cambogiano fuggito dai suoi genitori) – la sua è perciò poesia civile di secondo grado, trasfigurata dal lirismo. Temi prediletti di molti antologizzati sono piuttosto le cose ultime ed eterne: la morte e i morti, l’amore e l’estasi, il rapporto fra corpo e mente o fra io e mondo. La cronaca e la quotidianità non sono assenti, ma trattate in maniera obliqua o deformate da uno sguardo lirico tutto personale. Un tratto inevitabile della contemporaneità discusso nella prefazione è l’irruzione di internet. I curatori rilevano, in modo del tutto condivisibile, che i testi italiani hanno accolto la rivoluzione informatica “quasi sempre a un livello superficiale, ovvero tematizzando anziché formalizzando”, con poche eccezioni (alcune delle quali, peraltro, dovute ad autori qui presenti); più sottile è a loro avviso l’impatto di internet sulla scrittura, e sta nell’accesso simultaneo e totale a stili, immagini e risorse, che per eccesso di possibilità condannerebbe gli scrittori a una paradossale immobilità. Proprio questo livellamento delle condizioni di partenza del lavoro farebbe individuare nello scarto personale, nella capacità di distinguersi, il criterio d’eccellenza. Positivo è invece il giudizio sui social network, spazio non solo del dilettantismo o dell’autopromozione più molesta, ma del nuovo dibattito letterario. Si può aggiungere, d’altronde, che anche dal cosiddetto sottobosco dei social e dei portali poetici sono emerse esperienze interessanti, parzialmente antologizzate pochi anni fa in un volume che si pregiava della prefazione di un giovane e validissimo critico ‘scientifico’ come Davide Castiglione. I versi degli anonimi del web gli parevano caratterizzati da uno stile “fortunatamente al riparo dalla poesia di maniera, ‘né carne né pesce’”, e capace invece di accogliere “la dismisura, la difficoltà e il gioco”[9].

Anche per i 27 di Planetaria, lo si è visto, questa descrizione sarebbe adatta. Ai curatori va dato atto di credere negli autori da loro proposti[10], e di aver confezionato un’antologia con alcuni squilibri, e assenze, ma che esprime un gusto preciso. Un gusto che, secondo gl’interessi dei curatori (Pellegatta è anche critico d’arte[11], Dagnino disegnatore oltre che poeta e autore di numerosi libri d’artista), predilige le qualità visuali e visionarie, il lavoro sulla lingua che però riesca soprattutto in immagini incisive; non è un caso che diversi poeti qui inclusi siano anche pittori, disegnatori, architetti o ceramisti. Si può contare sul fatto che l’attenzione per le arti visive in loro dialogo con la letteratura sarà un tratto distintivo di questa casa editrice dedicata ai fratelli architetti Bruno e Max Taut.


 

[1]Cf. ad es. la recensione di Elisa Vignali su “Atelier” 65 (marzo 2012): https://www.andreatemporelli.com/2016/07/26/la-generazione-entrante/.

[2]https://www.labalenabianca.com/2018/07/06/nella-palude-dialogo-luca-rizzatello-sulleditoria-poesia/

[3]Vd. ad es. M. Marchesini, ‘Il poeta Bovary’, ora in Casa di carte, Il Saggiatore, Milano 2019, 209-219.

[4]https://www.labalenabianca.com/2017/11/24/prose-della-volgar-vita-progetto-s-simone-burratti/

[5]https://www.labalenabianca.com/2019/07/11/gabriele-galloni/

[6]https://criticaimpura.wordpress.com/2015/09/28/su-manuel-micaletto-stesura-prufrock-spa-2015/

[7]http://www.inrealtalapoesia.com/downloads/download-info/ritratto-del-poeta-giovane-vitello-la-poesia-francesco-maria-tipaldi/

[8]https://bit.ly/2vLiAp6

[9]D. Castiglione, Prefazione a Tramontare dentro lo screensaver orange and yellow di Mark Rothko. 18 poeti dal web, a c. di Patti Schneider, Lampi di Stampa, Milano 2015, p. 13.

[10]Il che non è scontato: basti confrontare la citata antologia curata da Rimolo e Ibello, che si chiude con una lunga e abbastanza sconcertante postfazione in cui l’editore prende nettamente le distanze dagli autori inclusi, deprecandone “la qualità decisamente ‘preoccupante’” e l’“abbassamento sensibile di livello” rispetto ai precedenti decenni (p. 149).

[11]E, forse, c’è qualcosa della lingua della critica d’arte nella prosa dei suoi medaglioni, ricca di formulazioni suggestive (da cui, infatti, ho attinto volentieri) per caratterizzare il quid stilistico di ciascun autore.