Sull’atmosfera morale dell’esordio di Simone Burratti (1990) si è già espresso con acume Stefano Dal Bianco in una prefazione che, pur aprendosi con doppia recusatio – quella, ormai topica, nei confronti del genere prefatorio stesso, più una protesta della “impossibilità, per un esponente di una certa generazione, di comprendere appieno la poesia delle generazioni successive” – di fatto coglie molto bene la duplice importanza di questo libro. Esso è anzituto una lettura acuta e per nulla compiaciuta dello Zeitgeist in cui l’autore – ma non lui solo – sta a mollo. Le pagine del poeta di base a Padova trasudano un solipsismo dolente, l’autismo di un recluso inetto alla vita e agli umani commerci; ma come osserva il prefatore, si tratta di “autismo collettivo”, qualcosa di già molto più grave del ‘mal di testa collettivo’ sanguinetian-zanzottiano. Dal Bianco propone, correttamente a mio avviso, una lettura storicistica: “la disperazione di Burratti è una disperazione storica”, il suo nichilismo depresso non è afflizione individuale ma fenomeno epidemico e altamente significante. L’io che parla da queste pagine è connotato dalle classiche marche maledettistiche della solitudine rancorosa, dell’eccesso alcolico e della perversione sessuale; si sente però che questi attributi non sono indossati per imitazione letteraria, né sorge mai il sospetto che vengano glorificati. Si licet, Burratti non è un maudit per la stessa ragione per cui Houellebecq (nume tutelare, anche indirettamente, di tanta letteratura d’oggi, al di là dei meriti delle sue stesse pagine) non è un Céline: niente compiacimento del male e della cattiveria, nessuna ribellione, solo un’impietosa analisi del proprio squallore, che non perciò aiuta ad uscirne. Il libro, però, non vale solo come documento della depressione da tardo capitalismo o da ‘classe disagiata’, ma è pienamente compiuto e maturo anche sul piano tecnico.

Burratti propone un libro quasi completamente in prosa, con pochissimi testi in versi (i primi due, il centrale In a Landscape, e certe sezioni di quello conclusivo). Ora, la scelta della prosa riflette una tendenza alquanto diffusa negli ultimi anni, e spesso associata proprio alle posizioni che si vogliono meno consolatorie. Per intenderci: se si sfoglia una qualche antologia recente di scritture sperimentali, dove la prosa (o comunque i non-versi) la fa da padrona, sarà difficile imbattersi in atteggiamenti non dico d’ingenuo ottimismo, ma almeno di sofferta fiducia nell’umanità, di scetticismo ironico ma garbato, o di calda immersione nelle gioie e nei dolori della vita. La GAMMMa emozionale andrà piuttosto dalla cupa denuncia al glaciale sarcasmo, dalla confessione d’impotenza al gioco beffardo, a un umorismo comunque tendenzialmente disumanizzante. La prosa poetica, in determinate sue forme contemporanee, sembra insomma essere lo strumento d’elezione di chi adotta uno sguardo problematizzante, di chi tormenta il mondo e sé stesso con un bisturi spietatamente demistificatorio: come se il verso, sia pure nelle sue forme irregolari, frammentate e frammentarie reduci da un secolo di dissonanze, fosse comunque troppo rassicurante per chi vuole indagare senza sconti le miserie sue, della società e della natura. Se si accetta a grandi linee anche per Burratti questa associazione di forma e animus, si può allora vedere in lui un poeta doppiamente, e coerentemente, sintomatico del suo tempo. La sua non è però tanto adesione, per quanto convinta, a una tendenza, quanto espressione originale e personale, declinata in forme stilistiche che a ben vedere non hanno oggi in Italia dei paragoni precisi.

La scelta della prosa, costante nel complesso, è modulata da Burratti in maniere leggermente diverse da testo a testo. Non è mai veramente ‘prosa poetica’, d’arte, nonostante alcuni passaggi più lirici (e da questo punto di vista ci sono diversi bei momenti: «un’aria gialla sigillerà la mente», «Resta lo sforzo nel sangue, come la percezione di un arto amputato», «Il cavatappi che scintilla nell’ombra del suo cassetto, come un’ancora al sicuro in fondo al mare»; ma su questo pedale Burratti spinge con moderazione). Neppure è la ‘prosa in prosa’ delle attuali avanguardie, anche se innegabilmente arriva a toccarla in diversi punti: in particolare nella terza sezione per il ricorso a tecniche sperimentali e a un punto di vista spersonalizzato. Non è, infine, prosa propriamente narrativa, anche perché sembra che poco succeda in questa stasi dove il movimento, se c’è, è circolare, e l’azione sconfitta in partenza: gli stessi eventi, peraltro minimi, cui si allude sono vissuti attraverso il filtro del ricordo e della rimuginazione, più che raccontati in presa diretta. Lo stesso andamento sintattico cambia da testo a testo, in solido con le variazioni stilistiche; s’incontrano così, fra gli altri:

  • frammenti di sapore diaristico, con notazioni tra gnomico e introspettivo: «ovunque, un giorno qualsiasi della mia vita. Essere ignorati o troppo conosciuti. Le sentenze peggiori escono dalle bocche distratte» (Deviazioni);

  • un brano simile al precedente, ma senza forme di prima persona, con osservazioni che prendono dunque una forma e un tono impersonale: «L’ultimo bicchiere non si vuole mai» (Quarti della notte);

  • una sintassi decisamente nominale, frammentata, in cui anche i verbi sono all’infinito e dunque nominalizzati (Scegliere);

  • una rimuginazione su vicende di coppia, giocata dunque su prima e seconda persona, e ancorata a un minimo accenno di struttura narrativa (Storia di una fine);

  • un monologo-confessione libera, ma stavolta sotto forma di oratio soluta che prosegue per lunghi paragrafi senza punti fermi (Esorcismi);

  • in Progetto per S., oltre a una disposizione quasi dialogica (ci sono perlomeno un io e un tu), e dunque al momento di maggior apertura discorsiva, in due sezioni la prosa si spezza in qualcosa di simile a dei versi, quantomeno per la presenza dell’andata a capo: mentre la prima breve sequenza, sulla masturbazione, è decisamente di tono sarcastico, nella successiva c’è davvero un’impennata della temperatura lirica; le due sono legate comunque da rime e assonanze: “soffitto” || “distrutto” | “scritto”;

  • 11h (nuovi modi per uscirne): una sorta di monologo pensoso, tutto di frasi brevi e lapidarie, a volte verbali e descrittive («La luce slitta lentamente sui grandi quadranti della mia stanza»), a volte al contrario solo nominali («Reazioni, soluzioni, adescamenti alla solitudine» );

  • una descrizione in terza persona, scandita in brevi paragrafetti (Avatar);

  • un testo scritto dal «sonno […] sotto l’effetto degli antidolorifici» che rappresenta, in realtà, l’apice di realismo narrativo della raccolta – relativamente, dedicato com’è a un episodio di disagio fisico e sociale, solitudine, desiderio insoddisfatto, in cui tutto sommato ben poco accade, raccontato in prima persona salvo precisare che «parla di cose che non mi riguardano» (Sotto sorveglianza);

  • un testo tra i più recenti e i più notevoli, ancora soggettivo, che si muove fra osservazioni concrete e meditazioni malinconiche, in un’ambientazione ospedaliera e sotto il segno della malattia e della morte (Astronavi);

  • infine, nel conclusivo True Ending lo sguardo è massimamente esterno, descrittivo, apparentemente quieto e razionale (almeno rispetto alle parti precedenti).

Sarebbe quindi possibile leggere Progetto per S. come una sorta d’esplorazione sistematica di tutte le attuali possibilità della prosa ‘quasi-poetica’ (giocando sulla nozione storico-linguistica di “latino circa romançum”, potremmo parlare di “prosa circa poësim). Tuttavia questa varietà di soluzioni e impostazioni, come si sarà capito, non è sfruttata per dare un saggio di tecnica compositiva, ma nel tentativo di articolare i vari momenti di un serissimo percorso introspettivo. Al di là delle modulazioni formali, i testi sono unificati da un certo spirito comune, uno sguardo iper-analitico che si sposta irrequieto dall’interno all’esterno, dal soggetto allo spazio in cui questi si muove, a un possibile interlocutore. Naturalmente questo si nota di più nei brani in prima persona, dove si toccano toni intimi e confidenziali; ma in ultima analisi quella proposta da Burratti è un’autopsicografia non lineare, un autoritratto cubista a toni atroci e terrei.

Ci si può chiedere da chi, verso chi siano, esattamente, le confidenze. Fin dal titolo appare l’ambiguo senhal “S.”, la cui presenza non è però così centrale come ci si potrebbe attendere. In Camera e ritorno, ultimo testo della prima sezione, S. è una donna, apparentemente una ex, che peraltro nel fantasticare della voce narrante è detta confondersi e sovrapporsi con altre figure femminili. Nel Progetto per S., ultimo testo della sezione seconda, si ribadiscono l’assenza, e la confusione (“Mi manchi? Non lo so. C’è solo qualche immagine confusa”). Assente dalla terza, S. ritorna ad aprire e chiudere la quarta e ultima sezione: ma in Avatar si tratta di un uomo, alter ego – a ogni evidenza – dell’autore, del quale paragrafo dopo paragrafo si offre, dietro lo schermo della terza persona, un ritratto non certo edificante (“una persona bassa e insignificante [] conosce tutte le debolezze una per una”) misto di pennellate comico-grottesche (“soffre di meteorismo. La parola meteorismo gli piace”) e affondi più cupamente seri (“mente a sé stesso dal giorno in cui ha imparato ad accettarsi”). S. pare ancora riferirsi al protagonista, sempre in terza persona, nella chiusa memorabile di True Ending e della raccolta tutta, su cui tornerò più sotto.

Queste ambiguità, forse dettate semplicemente dall’anagrafe (S. è iniziale dell’autore, e chi vieta che fosse davvero anche quella dell’altra persona a cui si rivolge?) possono essere per critici e lettori un congegno divertente, ma non essenziale, da smontare; l’importante è che sono funzionali, insieme ai continui cambi di focalizzazione, a dare stratificazione stilistica e complessità psicologica alla scrittura. Per questo tramite l’autore ci depista quanto basta, senza esagerare in fumisterie. Più rilevante è che, moltiplicando gli sguardi e mettendo il suo dolore al centro d’un gioco di specchi, Burratti evita il ben peggior rischio del memorialismo ombelicale, della soggettività non mediata.

Senza quindi estromettere programmaticamente l’io dalla sua scrittura, Burratti tuttavia vira a momenti verso un certo oggettivismo, quasi come sfogo estremo della sua postura psicologica, trovando provocatoriamente in congegni elettronici (l’Hp6730b dell’omonima prosa) o mondi virtuali quell’empatia che gli sfugge fra gli umani. Questa strada è battuta con la massima decisione nella sezione terza, intitolata Appunti per un distacco, dove il distacco sarà dunque quello dalla soggettività, o dall’umanità stessa, ma anche dalla maniera frequentata nelle pagine precedenti. Questi testi nell’economia della raccolta non sono un corpo estraneo, ma certo una parentesi, collocata infatti prima di una sezione finale in cui soggettivismo e lirismo rientrano di prepotenza (pur sempre nel modo indiretto e non ingenuo che s’è visto). Come si accennava, sono queste le pagine che più direttamente richiamano la prosa in prosa: per l’assenza del soggetto, il tono pseudo-trattatistico, la composizione machine-assisted. Si trovano qui, oltre alla citata dedica al notebook, testi partoriti tramite googlismo (Poesia dello zenzero e Scarborough Fair), o scritti sulla traccia di un brano prog-metal e di un videogioco (Stinkfist), fino a Cronologia, totalmente costituito da chiavi di ricerca (abbastanza kinky, anche se c’è di peggio) su un sito porno. Beninteso, se tutto il libro si affidasse a esperimenti di tal fatta – o se, al contrario, si trattasse di una trovata isolata e avulsa dal circostante – risulterebbe certo deludente: una gimmick giocata su un effetto di scandalo facile, e tecnicamente non ardua da realizzare. Questa prende invece senso come tassello di un’opera costruita con grande attenzione ai richiami interni. Si veda come anche in due testi confezionati ad arte per apparire enciclopedici, impersonali e del tutto irrelati alla materia del libro, come Poesia dello zenzero e Scarborough Fair, siano inseriti di soppiatto riferimenti alla scabrosa e infelice vita amorosa dell’io protagonista («Nelle pratiche sessuali di SM e BDSM consiste nell’inserire nell’ano un pezzo di radice di zenzero…»; «Un utente su tre cerca relazioni online. Sono in tanti quelli che, tra chat e videochiamate, hanno costruito relazioni profonde»).

Ciò dimostra anche che le tecniche googlistiche (o pornhubbistiche…) sono state impiegate, come sarebbe sempre opportuno, con una certa supervisione umana: non esperimento fine a sé stesso o bandiera ideologica, ma strumenti con la stessa dignità degli altri nel silenzio del laboratorio autoriale. Non è strano che un autore nato negli anni ‘90 dimostri una naturale dimestichezza con tecniche e temi del mondo 2.0, e che proprio perciò non senta più, ormai, il bisogno di ostentarli. Così, riferimenti a videogiochi e manga coabitano con le citazioni più ‘alte’ (cf. la Nota di p. 63), impiegati con la stessa discreta naturalezza di queste e senza voler cercare effetti di scontro dall’accostamento: a Burratti, come ad altri poeti venti-trentenni d’oggi, Sant’Agostino o John Cage servono così come serve Zelda.

Con una marca stilistica e cognitiva del tempo nostro il libro si chiude: «C’è il sole, come se niente fosse. S. lo nasconde con l’icona del cestino». In queste parole risuona forse la nota fondamentale di tutto l’esordio di Burratti. Per comprenderle appieno occorre soffermarsi sulla prosa conclusiva nella sua interezza. True Ending, come s’è detto, appare un quadrato di testo senza interruzioni, dai toni piani e distaccati. Come si addice alla conclusione di questa irrisolta odissea nell’angoscia, la scena è da quiete dopo la tempesta, ma con caratteristica variazione sul tema. Tutto è all’insegna dell’ambiguità e dell’assenza, del negativo: «è una mattina dopo un temporale senza tracce [] un’incapacità d’intenti [suicidarî, dato che immediatamente prima si constata “un balcone troppo in basso”?], una catastrofe avvertita e mai avvenuta». Di sicuro «nessuna mamma o donna è più comparsa sulla soglia della stanza»: la mancanza della figura femminile attraversa come una ferita tutte le prose di Progetto per S. «Comunque c’è il sole», e seguendo i suoi raggi il nostro sguardo entra nella stanza, si sofferma su un uomo che esibisce un’inquietante tranquillità, «nessuna sensazione, nessuna paura umana, nessuna presenza fuoricampo». E poche righe più sotto: «nessuna mancanza fuoricampo». Ancora il Leitmotiv: la quieta disperazione, la catastrofe introiettata e che perciò può permettersi anche di non avvenire, si fonda sempre sull’assenza di qualcun altro. Ecco dunque che anche l’occhio indifferente e disvelatore del sole non illumina che il vuoto, e può solo essere rimosso con annoiato fastidio da chi ha ormai perfettamente chiara la propria solitudine. Il sentimento, reso con abilità tutt’altro che didascalica lungo una sessantina di pagine, agghiaccia e commuove. Si veda però la finezza della sua resa linguistica: in una specie di triste parodia informatica del concetto freudiano di rimozione, questo lucifugus vir del 2017 cancella il dato più ovvio e ineludibile del mondo esteriore come se fosse un file. E anche se la normale operazione consiste, ovviamente, nel trascinare l’icona del file o programma che vogliamo cancellare sul cestino, che resta un destinatario affatto passivo, Burratti ottiene il massimo d’icasticità ed economia con una formulazione che sembra quasi ribaltare i ruoli semantici, come se il Cestino (maiuscolo!) attivamente si muovesse a oscurare il sole. Elegantemente, però, il poeta contraddice l’aggressività con un verbo delicato, quasi eufemistico, come ‘nascondere’, che implica d’altronde l’impossibilità di una rimozione effettiva e totale (anche i file nel cestino di Windows attendono un ulteriore passaggio per essere definitivamente eliminati…).

[Un’amica che preferisce restare anonima suggerisce un’interpretazione più semplice e letterale: il sole potrebbe figurare in una di quelle stucchevoli foto paesaggistiche che sogliono far da sfondo al desktop, e in tal caso sarebbe più normale sul piano pratico il gesto di trascinare l’icona a coprirlo. Riferisco volentieri questa lettura forse più plausibile, che nulla toglie, comunque, al valore simbolico del gesto.]

C’è per gli scrittori e gli artisti in genere una miniera cognitiva ancora tutta da sfruttare nelle nostre interazioni (anche minute, minime, come questa) con i congegni elettronici e le realtà virtuali che invadono ormai capillarmente il tempo delle nostre giornate, la nostra memoria visiva e muscolare, e soprattutto il modo di leggere la realtà ‘vera’: miniera da sfruttare anzitutto come repertorio immaginifico e metaforico, e poi a livello più profondo, più speculativo, più strutturale. Per fare ciò non è necessario, forse non è consigliabile, tematizzare fortemente questa dimensione e farne l’argomento delle proprie opere; in fondo, noi non lo facciamo nella vita quotidiana. Neanche Simone Burratti lo fa, e comunque riesce – fra i tanti altri meriti della sua scrittura – a impiegare giudiziosamente quel repertorio, dipingendo i suoi tormenti di millennial con una sincerità d’accenti che travalica le generazioni.