C’è la tendenza a pensare che la sintesi che si realizza nelle antologie, o ancora meglio nelle raccolte complessive sia quella che fa approdare alla canonizzazione. In tempi di maggior fortuna e lusso editoriale era la “corsa al meridiano”, oggi probabilmente a segno della maggior povertà, anche materiale, in cui versa la poesia è la corsa al “garzantone” o a qualcosa di simile.

Non è così per Giancarlo Sissa e questo gli permette di realizzare con Tamen, raccolta delle sue prose poetiche uscita per Moretti & Vitali nel 2023, quella che è invece la vera risorsa di un libro collettaneo: la rimeditazione del percorso e insieme il suo inserimento in un nuovo e diverso ordine architettonico di libri che, a questo punto, significano qualcosa in più o qualcosa di diverso da quello che rappresentavano alla prima apparizione in volume.

Così rileggendo le prose che vanno da Il bambino perfetto (Manni 2008) a Senza titolo alcuno, apparso in Senza respiro (Moretti & Vitali 2020), passando per Persona minore (Qudulibri 2015) e Archivio del padre (MCedizioni 2020) bisogna tenere a mente che è soprattutto Tamen che stiamo leggendo e se un senso di completezza esiste esso è vicino a quello che Goethe ipotizzava quale sviluppo della letteratura moderna dicendo «non sono lontani i tempi in cui gli autori redigeranno le proprie opere complete» che non significa solo lo sviluppo della letteratura come civiltà (o inciviltà forse oggi) editoriale, ma indica semmai come maggiormente, nello sguardo dell’autore, occasione della scrittura e sintesi della composizione dell’opera (l’idea avrebbe detto un triviale ma chiaro critico ottocentesco) diventassero legate.

Dunque direi che dunque Tamen,nelle intenzioni come nel risultato, sia un libro generazionale e romantico o meglio di una «lost generation» come la chiama Di Palmo, l’aspirazione: reiterata e dichiarata esplicitamente nella postfazione, è quella di dare voce a una condizione di incompiuta espressione di possibilità che ha attanagliato i nati tra gli anni Sessanta e Ottanta. («Dovevamo contribuire come ciechi al loro buio, morire in silenzio d’eroina o altro») Ciò è reso, tra l’altro, evidente dalla scelta di collocare in apertura il solo testo estratto dalle raccolte poetiche in versi, il poemetto Noi. Ora ci si potrebbe chiedere in che termini un diario poetico possa (o non possa) diventare anche una testimonianza generazionale. In effetti partendo da Il bambino perfetto la dimensione diaristico-individuale affiora via via in maniera preponderante fino ad arrivare all’annotazione quasi quotidiana negli ultimi capitoli (Nessuna prosa di Il bambino perfetto e Persona minore ha una data). Questo non significa solo un discorso privato, ma soprattutto in qualche modo un processo di soggettivazione passiva cui va in contro una generazione (ma sarebbe più giusto dire una classe) quando non riesce o meglio gli viene impedito di esprimerla attivamente in forma politica (intendiamo qui politica in senso ampio non necessariamente la dialettica della rappresentanza partitica) e quando la mobilità sociale precedentemente conquistata entra in crisi. Con le parole della prosa poetica: «Nemmeno alla morte hanno creduto. Sparire dovevamo, e basta, prigionieri della fibra vegetale abbattuta, cotta, invocata senza voce. Venne poi la sommossa, il mistero del risveglio. Non la solitudine facile e definitiva, non la follia, ci restavano, ma l’agra fratellanza, la smarrita compagnia, qua e là a contarci, ogni giorno fra ipnosi, narcolessia e scannatori di maiali dei quali si farebbe bene a non ridere troppo – la lama lucente dello sguardo levata a cercarci».

Non è  questo processo qualcosa che si legga in modo esplicito quanto nelle concrezioni formali della prosa di Sissa: in Il bambino perfetto le prose sono lunghe e si avvicinano alla dimensione di un racconto (per quanto allucinato) e prevale una dimensione descrittiva, spesso di quelle periferie che sono l’habitat naturale e storico, reale e  biografico di questo poeta, ma già a partire da Persona minore le dimensioni si restringono e la notazione si avvicina a una intenzione fotografica (questo capitolo è, più degli altri, un diario di viaggi) e negli ultimi due le prose sono rarefatte ed essenziali e una dimensione narrrativo-lirica, se ancora esiste, può essere colta solo nell’insieme.

Parimenti se, a mio avviso, è una costante un certo surrealismo (sotto la cui egida Pasquale Di Palmo vuole inscritta l’opera in prosa di Sissa), soprattutto nella forma di libera associazione di immagini e di un uso della metafora e analogia che spesso è svincolato (problematicamente ma anche felicemente) dalle normali associazioni semantiche o semiotiche (si veda ad esempio: «Vent’anni dopo, nella coerenza del disastro, tu ti sei ucciso, ultimo chicco di una semina atroce. Quanti e quante ti attendevano nella madreperla dell’assenza. Da allora ho scritto la tortura del silenzio, le slogature della speranza e il senso della colpa. Anche oggi guardo ragazze e ragazzi incontrarsi e non ho falce per lavorare il prato, o colore per ritoccare lo sfondo. Sono io stesso una pietra che parla, una foglia, il nero del papavero, il buio della lava che si rapprende, il ricordo di chissà chi».) è pur vero che questo “surrealismo” non ha sempre lo stesso volto e alla libertà e sovrabbondanza associativa del bambino perfetto segue in un certo senso la scrittura mitografica, l’esplorazione sciamanica e onirica di Persona minore, Archivio del padre fino all’esortazione libertaria-liberatoria (25 aprile 2020), «Voi, liberi, ditevi in che modo intendete essere presenti al vostro sogno», con un percorso parallelo a quello che, sulla scena, lo vede affiancato al lavoro drammaturgico di Alessandra Gabriela Baldoni, compagna del poeta ma anche raffronto intellettuale di non poche pagine di questo libro.

Romantico dicevo probabilmente anche oltre i termini generazionali che Sissa immagina (in poesia moriremo tutti romantici, è uno dei tratti della modernità) se già Baudelaire, affine a Sissa non solo per il comune uso del poema in prosa, ma per averlo situato tra l’esplorazione senza investiture storiche e il coeur mis à nu, poteva scrivere del Tramonto del sole romantico ma si tratta in realtà di un tramonto lunghissimo i cui raggi giungono fino a noi.

Ciò che però probabilmente è specifico di questa generazione quale ultima non è tanto la liricizzazione, l’uso del mito e di strategie regressive, l’essenzializzazione della poesia (tutte cose che fanno parte dell’arsenale potente, ma anche molto ambiguo ereditato dal romanticismo), quanto il fatto che sia possibile, per Sissa, dire io e raccontare la propria infanzia come fenomeno su cui ci si intenerisce (forse troppo, ma comunque con una valenza di segno positivo), laddove le più efficaci rappresentazioni dell’infanzia delle generazioni successive sono quelle che premono sulla costruzione del bambino piccolissimo soggetto-consumatore e sull’infanzia come mercato (si confrontino i revolver con il tappo di plastica del cortile di via Conciliazione con, ad esempio, il supermercato veneto di Antonio Francesco Perozzi trasformato in un cimitero di Pokémon pelouche di cui l’autore perde il conto).

Non è un discorso nostalgico, entrambe le prospettive sono elegie per il valore d’uso, in Sissa simboleggiato dal tavolo costruito dal «dal nonno materno, falegname e violinista», presente in tutti i capitoli e destinatario di una commossa prosa aggiunta ad Archivio del padre e di cui si dice che è «la prima parola che serve ai bambini per scrivere i loro sogni». Tuttavia, e qui cominciamo a inoltrarci nel Tamen che guida il libro, allora questa nostalgia per il valore d’uso non era solo spia di ipotetiche regressioni reazionarie, ma anche riconoscimento di progetti sociali alternativi-collettivi e di un acquisito potere di acquisto che sanciva una reale mobilità sociale. «L’operaio che amava i libri» figura paterna, protettiva, prometeica e divina di Archivio del padre è soprattutto concretamente un padre operaio che vuole il figlio dottore (o peggio poeta) e c’è una differenza consistente tra il padre che dice «me a t’ho mandà ar liceo perché te sapia die la to raxòn» in una Lunigiana (ma Mantova, la città lontana, provinciale, e in quanto provinciale matrigna, che fa da sfondo a molti testi non è differente) degli anni Sessanta in cui ai circoli parrocchiali arriva la «Monthly Review» e la convinzione, inculcataci a forza dall’industria culturale del nuovo millennio, che la “nostra ragione” cioè il nostro io, sia unico, inimitabile, illimitabile e da affermare in competizione costante e costante mercificazione, di questo tipo di Ragione Sissa anzi scrive «si spostino da me quelli che hanno. Ragione.» come, evangelicamente, qualcosa che dà scandalo).

Razós, ragioni, erano anche le biografie o giustificazioni, spesso fantasiose e romanzesche, premesse alle poesie dei trovatori provenzali nelle raccolte medioevali, e in un certo senso anche Sissa ha, con queste prose che raccontano in controluce la sua maturità e l’avvicinarsi della vecchiaia (quale segno più forte di questi passaggi della morte del padre?) la sua Razó che può ancora diventare una “nostra ragione”.

Traduciamo dunque l’esortazione così «io ti ho insegnato a leggere e la poesia perché tu sappia raccontare la nostra storia». Ed è la storia dei tanti amici che, in epigrafi ineludibilmente funerarie, costellano il libro e abitano nell’anima del poeta «piena di ulivi in fiamme» (il Mediterraneo, la Grecia, la Spagna emergono spesso quale simbolo e richiamo di una vitalità sorgiva).

Che cosa ha imparato Sissa o di cosa si serve per raccontare questa storia? Anzitutto, come rileva anche Di Palmo, di tutta la complessa tradizione del poema in prosa francese, ma aggiungerei anche di quello spagnolo (da Lorca a Cernuda, a Panero) e di quella che Sissa stesso richiama nella postfazione come «poesia de la experiencia» o «de la calle», ma inevitabilmente anche di una certa tradizione di ballata folk cantautoriale diffusa nei decenni cui tante volte si è fatto riferimento e che, sostiene Sissa, al momento del suo affacciarsi alla poesia costituiva la principale alternativa alla dominante Neoavanguardia. Non saprei dire se questo sia un dato reale, ma indubbiamente mentre si è fatto (e si fa ancora) ampio ricorso a testi poetici musicati in molte zone periferiche del capitalismo europeo in sviluppo (Spagna, Grecia, Portogallo, Irlanda) ciò non è avvenuto e non avviene, che io sappia, in Italia, fatto che, almeno in parte, ha una parentela con la natura della letteratura italiana (e specialmente della poesia) quale espressione umanistica, cosmopolita e aulica-accademica  (quand’anche di rottura neoavanguardistica, sperimentale o di commistione di registri) e non nazionale popolare. Da tutto ciò Sissa trae il suo surrealismo che del resto, dai manifesti di Breton ai surrealisti spagnoli riletti da Bodini, è stato anche un elementare progetto politico anarco-ribellistico (e anarchico probabilmente si considera Sissa), appello a changer la vie.

Tutto ciò porta con sé anche una dimensione più specificatamente letteraria, la quale è da un lato evidente a intensità crescente man mano che le pagine scorrono e la scrittura si fa meno fluviale e più disciplinata e dall’altro ha probabilmente un vertice (anche nel senso di maggiore aderenza al canone formale della scrittura) in Persona minore, non a caso in questo capitolo tutte le prose hanno un titolo (a differenza di quanto avviene negli altri), l’infrazione della sintassi è praticamente assente e le strutture formali e strofiche sono nettamente definite dalla presenza di numerazioni e sequenze. Questo maggior tasso di canonicità letteraria si traduce però anche in una supplenza delle strutture mitiche, classiche e idealizzanti (dei topoi letterari se si vuole) nel passaggio tra la sregolatezza accumulativa e magmatica del bambino perfetto e quella sottrattiva e dissestante sul piano sintattico di Archivio del padre e Senza titolo alcuno. In questo senso il limite può essere che lo sguardo del poeta sia comunque quello di un turista (per quanto sui generis, scalzo e bohémien), mentre si potrebbe essere tentati di apprezzare la compostezza e la forza mitografica e sapienziale, ma ritenere comunque migliori, euristicamente più vere, le prose che vengono dalla periferia o magari dal tinello (quello in cui viene scritto il diario di pandemia Senza titolo alcuno). Il vero rischio della prosa poetica di Sissa non è però certo quello dell’iperletterarietà, quanto a mio parere quello della regressione continua, allo stordimento, all’infanzia, al sogno, che è una promessa, ma anche una minaccia, giacché un poeta capace di raccontare l’infanzia è importante, un intellettuale che voglia tesaurizzare la sconfitta è prezioso, un uomo che sappia farsi evangelicamente piccolo o sciamanicamente parlare con i morti si ricorda e ci ricorda di dimensioni che non possiamo liquidare troppo facilmente, ma un autore che non sappia più uscire dal mondo dei sogni, che cerchi fughe risarcitorie per l’ingiustizia privata e storica e soprattutto che si conceda il lusso di sregolatezza logica e sentimentalismo che queste elargiscono perde se stesso e perde un’occasione per tutti.

Quando osservo quella che Bertoni ha chiamato «funzione sinestetica del bere» e la presenza di questo bambino «nato in un bicchiere di vino rosso» che occupa la scena, o di quel vecchio «pescatore di Zakyntos» che ricorre in molti capitoli a immagine della possibilità (e tentazione) di una fuoriuscita dalla storia, quando leggo passaggi di analogie vertigionse e calembour («E ogni alba conteneva già la sua morte e la mia. Fiorita nella vita sottosopra. Perché se la forza è una resa. Sogno che supera il sogno») ho un timore concreto di questa caduta e la consapevolezza che Sissa si muove sempre sul filo di questo abisso (non c’è niente di più banale della poesia come espressione consolatoria irrazionale) tuttavia anche questa volta, e questa volta per tutte le precedenti, da poeta di prim’ordine quale si dimostra, Sissa riesce a salvarsi da questo rischio. Si salva facendo dei suoi bambini e di lui bambino un’immagine nostalgica e idealizzata tamen anche una protesta contro la mutilazione personale, l’accettazione della propria funzionalizzazione produttiva che il diventare “adulti” implica in questa società, lo fa facendo del disegno e della mitografia qualcosa che è fuori dalla storia tamen anche contro la storia intesa come processo impersonale sovraordinato che noi (falegnami, operai, bambini, poeti senza “garzantone”) non possiamo disegnare per noi, lo fa cercando nella disarticolazione sintattica e logica una facilitazione espressiva tamen proprio perché l’espressione autentica gli appare impossibile in un linguaggio logico quando la logica è quella del profitto e del capitale simbolico («il coraggio di forzare le cose in controtendenza» scrive Sissa) ed è per questa ragione che, al netto di qualche eccesso sentimentalistico, questo libro fa piangere davvero.

Il punto è che, subita quella sconfitta che è soprattutto marginalizzazione biografica, Sissa accetta, qui con realismo implicito del suo esplicito surrealismo, la nuova dimensione e la converte in risorsa euristica, il poeta si fa bambino o persona minore (traduzione di bambino in linguaggio giuridico-poliziesco, tra l’altro): trittico di bambino, maschera collettiva e emarginato dalla società: «E l’uomo gli rispose: parli di cose che non sai, io sono molti, non solo . Fuori sulla strada cominciò a cadere la pioggia. Quell’uomo, diceva qualcuno, scriveva in segreto, si chiamava Persona». È questa in un certo senso l’immagine del poeta che scrive queste prose che Sissa ci dice, e gli crediamo, «divengono adulte in maniera intransigente».

Un ultima vocazione di questo libro è anche, inutile negarlo, autobiografica, è la storia della vita di Giancarlo Sissa, figlio di Gianfranco Sissa, sopravvissuto all’eccidio per eroina degli anni Settanta-Ottanta, emigrato a Bologna da Mantova più o meno mentre Fortini scriveva dei vincitori di quello scontro la cui sconfitta è la voce della persona minore: «a quella élite non possono non corrispondere da noi masse di nuovo ceto piccolo-borghese o ex operaio, da nutrire a base di cultura di massa e da tenere a freno coi doppi lavori, la paura della disoccupazione, la realtà dell’inflazione e, al bisogno, droga o manette», ma parlava anche del capoluogo emiliano come del posto dove consolarsi leggendo «caritatevoli poesie di bambini cresciuti». Tamen, ultimo, questi bambini sono anche «i più antichi» e «di là», sono cioè non solo il passato, ma anche il futuro, qualcosa che chiede di essere realizzato.

Anche la menzogna, gli autoinganni e le mistificazioni fanno in qualche modo parte della verità: «E tuttavia la verità è l’intero. Menzogna compresa.», scrive un Sissa insospettabile dialettico e dunque se un nome va dato a questa cosa io proporrei quello di resurrezione, non però la resurrezione individuale e personale (anzi il libro è un percorso dal vitalismo espansivo dei primi capitoli all’accettazione e naturalizzazione della morte), bensì di quell’immenso deposito di lavoro morto che è la storia come opera dei padri operai e dei nonni falegnami, una nuova significazione: «ci serve un nuovo linguaggio apocalittico dove ardere un modo d’essere passato e fuori controllo e inaugurare una nuova memoria, una nuova cometa» scrive Sissa, poiché il poeta-sciamano può certamente proteggere il tavolo-valore d’uso e dargli una parvenza di vita, può far alzare le sedie in cerchio a parlare con i morti, ma solo una nuova memoria può compiere la naturalizzazione indicata in una bellissima poesia che infrange la norma di queste prose.

Aprono topi e piccioni minuscoli varchi
fra erba delle aiuole e poveri balconi
preludi a verdi nidi o minimi universi
luminosi e persi fra i fiori del giardino
cui si accede coi passi del silenzio
nell’incantesimo di poche parole buone
altissima assenza o vento fra i rami
del ciliegio antica vela di resurrezione

Infine, si potrebbe dire, di romantico in Tamen c’è anche l’anticapitalismo. Probabilmente è così e tuttavia oggi forse sono i testi che meno fanno professione di marxismo in senso stretto a ricordarci meglio a quale scopo il marxismo deve in ultima istanza servire (anche con la teoria marxista si possono fare meridiani e garzantoni) soprattutto quando, come direbbe Adorno, conservano in sé come storiografia la memoria del dolore accumulato.

Noi non pensiamo che una tale resurrezione sia al momento possibile, e forse neanche Sissa, tamen (il fascino della dialettica in questa parolina mi fa infrangere la promessa) scrive come se lo fosse e in quel “come se” deve continuare a scrivere e noi a leggerlo, e a criticarlo possibilmente, come se una civiltà editoriale e letteraria ancora (o già?) esistesse.


Giancarlo Sissa, Tamen, Moretti e Vitali, Bergamo 2023.