Quelli che ami non muoiono è il titolo di un libro di Mario Fortunato, pubblicato nel 2010 per la casa editrice Bompiani. Ad accompagnarlo, in quarta di copertina, è posta questa frase: «Fortunato ci mette di fronte a una verità semplice e assoluta: solo grazie alla scrittura, la memoria può diventare racconto e dare immortalità alle persone che abbiamo amato. Come in un romanzo». Tra i 42 capitoli che compongono il testo, ve n’è uno, il terzo, che riguarda Pier Vittorio Tondelli. Si tratta di un racconto di poche pagine, in cui l’autore descrive alcuni episodi della storia di un’amicizia profonda, che trovava radici nel grande sogno della letteratura. Un’amicizia che è durata gli anni della giovinezza e che è stata costretta a una fine prematura dalla morte di Tondelli di Aids, avvenuta il 16 dicembre del 1991. Qualcosa però deve essere rimasto in sospeso, se anni dopo Fortunato ha deciso di riprendere in mano quelle pagine per espanderle fino a dar vita a un libro, Noi tre, uscito quest’anno sempre per Bompiani. Fortunato lo ha ascritto al roman-mémoires, un genere complesso per la sua duplice valenza finzionale e di realtà, e che trova ragion d’essere nella citazione di Nabokov a esergo del testo: «è solo la finzione letteraria a dire il vero».

Ma quale verità sta cercando l’autore e perché, dopo così tanti anni, ha deciso di mettere mano ai propri ricordi per dar loro la forma di un romanzo? Fortunato prova a spiegarlo rifacendosi a tre scrittori di cui si sente epigono e che costituiscono la genealogia artistica comune con gli altri due protagonisti che compongono il Noi tre del titolo, Pier Vittorio Tondelli e Filippo Betto:  «Isherwood, Auden e Spender – all’epoca molto giovani – non si erano posti tante domande sul senso e la finalità delle rispettive storie e, quando era venuto il momento, chi in età matura chi prima, avevano scritto, ognuno a modo suo, il romanzo della propria giovinezza meravigliosa e irrevocabile. Non nutrivano l’ambizione di raccontare la totalità dell’esperienza, perché non erano filosofi né accademici, e perciò cercarono solo un punto di vista individuale e forse contraddittorio, limitandosi a spingere il linguaggio un passo avanti, in direzione di se stessi, cioè di un territorio sconosciuto, dove nessuno aveva ancora messo piede. E così facendo scoprirono che “time…worships language”, il tempo onora il linguaggio». Fortunato accetta la sfida e opera sui propri ricordi un intervento di risignificazione, non per trovare delle risposte, delle conclusioni – da notare che il romanzo, è lo stesso Fortunato a scriverlo, non ha conclusione – ma per porsi quelle domande che da anni gli premevano al petto ma che mai prima aveva avuto il coraggio di affrontare. Per complicare le cose, come solo un romanzo può fare.

E se per altri scrittori quel passo in avanti è una scelta, per Fortunato è un atto dovuto, per due ragioni: perché dopo Tondelli anche Betto è morto, il 6 aprile del 2009, per un infarto probabilmente causato dall’abuso di alcol e barbiturici, lasciando l’autore nella condizione di ultimo testimone; perché il periodo in cui i tre scrittori si sono conosciuti e frequentati risale a quegli anni Ottanta carichi di speranze che, con il loro spegnersi, hanno lasciato tali delusioni da provocarne una rimozione collettiva, sigillata da un senso comune di superficialità e spreco. Uno stereotipo che necessita di essere scardinato da chi quel decennio lo ha vissuto, in tutte le sue contraddizioni.

Il percorso narrativo che Fortunato ha deciso di imporsi trova il suo principale ostacolo in quella che è la prima motivazione che lo ha spinto a scrivere Noi tre: la valenza affettiva del soggetto trattato, per cui la scrittura diventa un tentativo di elaborazione del lutto. La ricerca di riportare in superficie un passato che a lungo l’autore ha dovuto reprimere, per il dolore e i rimorsi che esso portava con sé. Al fine di compiere questo passo del linguaggio verso se stessi Fortunato, che oltre a essere scrittore è anche critico letterario, chiede soccorso agli strumenti del mestiere, e in particolare al Roland Barthes di La camera chiara:

«il semiologo francese dice a un certo punto che “tutte le fotografie del mondo formavano un Labirinto”. Per ognuno di noi, al centro di quel Labirinto, c’è una sola foto che rivela in un attimo l’essenza dell’essere amato. Quest’unica immagine può appartenere a un tempo e a un mondo in cui noi che guardiamo non c’eravamo ancora, può discendere dall’esperienza di altri e non dalla nostra, può essere il frutto dello studio o del caso: non importa. Ciò che comunque essa dice è qualcosa (“un’aria”) che noi riconosciamo subito. Barthes cita Nietzsche: “Un uomo labirintico non cerca mai la verità, ma unicamente la sua Arianna”».

Il filo che Fortunato stringe nelle proprie mani è fatto di paura e non è un caso che le due immagini che l’autore possiede materialmente dei due amici, e che costituiscono il punto focale del romanzo, l’interrogativo da cui muovere il racconto, corrispondano a dei vuoti di comprensione e, in quanto tali, agenti di angoscia. La prima ritrae Filippo Betto, ed è la fotografia che compare nella banale ricerca su Google immagini del nome dello scrittore: mano posata sulla bocca a reggere una sigaretta, sciarpa nera intorno al collo, fronte stretta in piccole pieghe e sguardo distante, verso una preoccupazione che Fortunato riconosce soltanto a posteriori. L’altra è una fotografia scattata nell’agosto del 1991 ad Hammamet, Tunisia, «la stessa cittadina dove, neanche tre anni dopo, sbarcherà Bettino Craxi, leader dei socialisti ed emblema degli anni Ottanta italiani, per morirvi di collera e solitudine, come fu destino di quell’intero decennio». Tondelli viene catturato in una posa che Fortunato conosce bene, che sente familiare. C’è qualcosa però nei tratti dell’amico che gli è totalmente estraneo: l’ombra della malattia, l’imminenza della morte. L’autore chiede di nuovo soccorso a Barthes, che sempre nella Camera chiara scrive:

«Nel 1865, il giovane Lewis Payne tentò di assassinare il segretario di Stato americano W.H. Seward. Alexander Gardner lo fotografò nella sua cella; egli sta aspettando la propria impiccagione. La foto è bella, il giovane anche: è lo studium. Ma il punctum è: sta per morire. Io leggo nello stesso tempo: questo sarà e questo è stato; osservo con orrore un futuro anteriore di cui la morte è la posta in gioco».

Le due immagini che Fortunato descrive sono uno scoglio di comprensione, ma proprio per questo si pongono come punto di partenza per quel filo che può condurre l’autore ad Arianna, alla propria personale immagine dei due amici, che viene così a corrispondere con il racconto stesso. Seguendo un andamento cronologico, Fortunato ripercorre la storia della loro giovinezza e amicizia. Gli anni Ottanta trovarono atto di nascita nella pubblicazione del primo libro di Tondelli, Altri libertini, testo che diventò di culto per i giovani e che insegnò la libertà a un’intera generazione.  Viene rievocato il primo incontro con Tondelli durante un dinner party a Roma, in cui però i due quasi non si parlarono. La prima telefonata, poi, di Tondelli a Fortunato nella sede di «Reporter», rivista per cui lavorava prima di passare all’«Espresso». Il primo incontro con Betto non è invece descritto, Fortunato non si ricorda quando è avvenuto, perché lo sente come una figura “astorica”, una presenza costante nella sua vita. Vengono descritte le loro serate insieme, nell’appartamento di Pier a Milano, in via Abbadesse, con il sottofondo delle sempre nuove scoperte musicali di Filippo; le loro uscite, che cominciavano sempre con l’aperitivo al Camparino, locale amato da Tondelli, e proseguivano a tappe per i locali gay che animavano le notti milanesi. Scappati dalle piccole città di provincia in cui erano nati e avevano trascorso l’infanzia, appena sorta l’occasione, coincidente con l’università, i tre scrittori si erano trasferiti nelle uniche città italiane che potevano avvicinarsi allo status di metropoli, Roma e Milano. Qui cercarono la loro fortuna letteraria e scoprirono la ricchezza culturale che stava nascendo in quegli anni, favorita dal benessere economico: nella musica avevano preso il sopravvento le band neomelodiche, nella letteratura il minimalismo americano; nell’arte figurativa si tornava al colore con la Transavanguardia; a teatro assunsero grande rilievo gli spettacoli dei Magazzini Criminali, gruppo teatrale fiorentino nato attorno alla figura di Federico Tiezzi; la moda era quella di Enrico Coveri  e la pubblicità venne pienamente riconosciuta nel suo valore artistico. Questi erano gli anni Ottanta, che i tre amici percorsero con gioia e frenesia. Fortunato procede nel racconto con una leggerezza dello stile e un sense of humor che rispecchia il piacere del ricordo, e il sollievo che gli procura potersi sentire ancora vicino agli amici che ha perso. Non nasconde però i momenti dolorosi, anzi li espone in una prosa chiara e risarcitoria. Scrive della malattia che si celava in un acronimo e che cominciò a colpire prima personaggi di cui si leggeva sui giornali, come Foucault, Rock Hudson, Liberace; poi quelli di cui si dovette cancellare il nome dalle agende personali. Una malattia sporca, che infangava il nome delle sue vittime, tra le quali ci fu anche Tondelli.

Chiuso il libro, si riconosce esaudito il desiderio dell’autore di dare vita a un romanzo che seguisse le note di una «canzonetta dei nostri giorni andati – gli anni Ottanta del Novecento, la nostra piccola e volgare età del jazz». E nell’immagine di tre ragazzi abbracciati l’uno all’altro nella cucina della casa di via Abbadesse, si intravede il profilo di Arianna che Fortunato stava cercando.


 

noi treMario Fortunato, Noi tre, Bompiani, Milano 2016, 178 pp. 216€