Ma poi, alla fine, vince Silver o Ben Gunn?

Non leggevo L’isola del tesoro da più di vent’anni. Per il sapore amaro che lasciano certe letture acerbe, per il pregiudizio che, in fondo, dell’Isola sappiamo anche senza averne letto una pagina. L’ho riletto pochi mesi fa. Bene, anche grazie a un periodo di “inattività forzata”, e mi sono rimaste nella mente suggestioni di esili felici, secessioni volontarie, ritorni alla natura e poi quella domanda. Chi vince? Chi dei due la spunta, alla fine?

Presente di chi stiamo parlando? Long John Silver è il pirata con una gamba sola; il “cattivo”, il cuoco col pappagallo che si ammutina e assume il comando della nave Hispaniola, e briga e sgozza e sacramenta per prendersi il tesoro che gli spetta ai danni di una rispettabile cricca di nobiluomini inglesi venuti freschi freschi a soffiarglielo. Ben Gunn, il matto, è l’unico inquilino dell’Isola, scaricato anni prima da una teppa di compagni infedeli, rimasto solo a trattare con alberi e bestie: pazzo, talmente pazzo da aver trafugato il tesoro per metterlo al sicuro in un posto che lui solo sa. Entrambi, Ben Gunn e Silver, facevano parte della ciurma del capitano Flint, il famigerato occultatore del tesoro; entrambi avevano contribuito a conquistarlo, entrambi erano stati ingannati e ci avevano rimesso le loro spettanze. Più ancora il cuoco ci aveva rimesso una gamba e il selvaggio la vita “civile” nel consesso degli uomini.

Lasciate da parte le preferenze infantili, guardando con occhi scafati, e più a fondo, sono loro – la caricatura del pirata e il subumano reietto dell’isola – le figure più interessanti del romanzo. E finiscono per rubare la scena, nell’immaginario del lettore “maturo”, a personaggi edificanti come Jim Hawkins (il mozzo-eroe prototipo di tutti i giovani avventurosi) o il dottor Livesey e il capitano Smollet, che rappresentano il volto integerrimo della buona società e della marina inglese.

Silver e Ben Gunn, come inquieti eroi shakespeariani, hanno in comune una motivazione giusta (la pretesa legittima sul tesoro, il risarcimento per le traversie sofferte), modi discutibili e un carattere ibrido. Sono personaggi ambigui, sfaccettati, non univoci, diversi da quello che appaiono a prima vista, capaci di gesti imprevisti e improvvisi rivolgimenti psicologici.

Il cuoco-pirata ha il viso grande quanto un prosciutto, semplice e pallido, ma intelligente e illuminato dal sorriso. Sorride di cuore, Silver, e in maniera coinvolgente, si mostra furbo e svelto. Ha superato la sua menomazione: non patisce squilibri e fa il suo lavoro come fosse a terra, si muove sul ponte reggendosi a due cordicelle tese, veloce come un uomo sano. Mantiene in ordine, splendente di cristallo, la cucina e gode del rispetto degli uomini a bordo: non una persona comune, lo reputano, ma fiero e coraggioso quanto un leone. In breve si guadagna la stima di Jim Hawkins, che lo ammira come “il migliore degli uomini”. Come unico vezzo, in una gabbia tiene il suo pappagallo (“capitano Flint” come il pirata) che del cuoco è una sorta di alter ego animale. Vecchio forse di duecento anni ma vivace come se fosse appena nato, l’animale comanda manovre, blatera di tesori e pezzi d’argento, bestemmia. «Se c’è qualcuno che ha visto più cattiverie di lui, dev’essere il diavolo in persona», dice Silver; e ancora, quasi a giustificarlo: «Non puoi toccare la pece senza sporcarti».

Si ha del pappagallo, istintivamente, un’impressione strana: che sia, come Fedallah per l’Achab di Melville, una specie di “coscienza estroflessa” di Long John. Magari simpatica e variopinta, eppure, a tratti, torva e inquietante. È la coscienza che traspare dietro gli accorgimenti della maschera abilmente modellata da Silver, che sbraita e caccia fumo e alla fine si tradisce.

Messo in allerta dalle bizzarre espressioni del pappagallo, favorito da un provvidenziale incidente, Jim il mozzo assiste di nascosto alla trasformazione di Silver. Il cuoco sorridente parla ai suoi complici come il più terribile dei pirati: «Quando un compagno cerca di farmela, non sta più bene nello stesso mondo dove sto io… Lo stesso Flint aveva paura di me… Quando ero quartiermastro i peggiori filibustieri diventavano agnellini». Da quel momento Jim cambia atteggiamento verso Long John: ha orrore della sua crudeltà, del suo potere e della sua “doppiezza”.

Poco più tardi il nuovo Silver guida l’ammutinamento dell’equipaggio e resta padrone della nave, lancia l’assalto al fortino nel cuore dell’isola dove i “buoni” – il capitano Smollet, il medico Livesey, l’armatore Trelawney e una manciata di altri uomini – si sono rintanati, usa la forza e l’inganno senza riuscire a espugnarlo. Poi il colpo di scena. L’Hispaniola scompare dalla rada dov’è ormeggiata e subito dopo il dottor Livesey si presenta al pirata per offrirgli l’ingresso nel fortino, purché consenta la fuga nel bosco agli occupanti, e gli consegna segretamente la mappa del tesoro. Non sa, Silver, che la deriva della nave è frutto di un’azione spericolata di Jim Hawkins né che i “buoni” hanno scoperto l’esistenza di Ben Gunn e si apprestano a raggiungerlo nel suo rifugio. Sospetta però, e quando poco più tardi il giovane Jim gli casca tra le grinfie inscena un abile, rischioso numero di equilibrismo. Da una parte prova a convincere il ragazzo che gli amici lo hanno abbandonato e cerca di carpirgli informazioni sul piano del dottore, dall’altra promette di difenderlo dai suoi uomini (di cui ormai diffida) e addirittura di passare dalla parte dei “buoni” in cambio di una buona parola al processo che certamente subirà al ritorno in Inghilterra. Mente, in entrambi i casi, e di questa duplice menzogna srotola fino in fondo il filo.

Ben Gunn appare come una belva della foresta. Si muove dietro i tronchi dei pini, salta da un tronco all’altro come un cervo, corre su due gambe ma lo fa quasi piegato a metà, alla maniera di una scimmia. È vestito di stracci: a Jim, che trova il coraggio di andargli incontro, si presenta disarmato e supplicante. Con voce “arrugginita” racconta la sua storia di pirata abbandonato dai compagni crudeli, i suoi tre anni di solitudine senza parlare con un cristiano, la sua vita sbagliata di gentiluomo degradato a filibustiere, punito da Dio con la reclusione nell’isola e ora redento, e pronto a rinascere. Parla interminabilmente, senza aspettarsi risposta, tocca di continuo la giacca di Jim, gli accarezza le mani, gli fissa gli stivali. Parla del tesoro come se sapesse esattamente dove si trova o ne fosse addirittura in possesso, rabbrividisce solo a sentire il nome di Silver. Staccandosi da Jim per tornare nel suo nascondiglio raccomanda al ragazzo di comunicare la sua esistenza ai galantuomini della marina inglese e al contrario, di non rivelarla mai, a nessun prezzo, se dovesse cadere nelle mani di Long John.

Da quel momento Ben Gunn agisce nella storia come una specie di strumento del fato. È lui a uccidere uno degli uomini della ciurmaglia di Silver, sorprendendolo nel sonno dopo una notte di baldoria, e a seminare il panico tra i pirati. È lui a giocare Long John simulando la voce spettrale del defunto Flint e ritardandone l’arrivo al nascondiglio del tesoro, è lui che permette ai “buoni” di catturare il cuoco-pirata. Ma poi lo stesso Ben consente a Silver di fuggire, tutto solo su una lancia, approfittando di uno scalo durante il viaggio di ritorno e di una momentanea assenza dell’equipaggio a bordo dell’Hispaniola.

Quello che sembra, a prima vista, un puro espediente narrativo, e perfino logoro, assume però, a un esame più accurato, un evidente valore simbolico. C’è, nel racconto di Stevenson, qualcosa di sottilmente morale (o moralistico), in netto contrasto coi canoni del tempo. Qualcosa che anticipa l’allegoria tutta morale di dottor Jekyll e mister Hyde.

Per tutta la narrazione Silver sprizza un carisma diabolico, dà prova di un ingegno sottile e luciferino. Maestro di giravolte, si ostina a smentire ogni previsione ragionevole sul suo atteggiamento, provocando continui colpi di scena. Pare che Stevenson si diverta a mettere nel pirata con la gruccia un dettaglio infernale, a circondarlo di un’aura demoniaca, una veste di sovrumana malizia, come per sconfessare il “fervore positivistico” della sua epoca.

Sull’altro fronte il vecchio Ben, il curvo e scimmiesco Ben, incarna il mito del “buon selvaggio” con alcuni elementi di originalità. Diversamente dal Venerdì di Defoe, che allude per molti versi al potere civilizzatore del progresso, Ben Gunn è un civile inselvatichito: un uomo mediocre, bislacco, che la solitudine e il pericolo trasformano in un dio della foresta e che alla fine, riconquistato al vivere civile, si consegna nuovamente alla mediocrità e alla perdizione. Quella che sembrava l’abiezione della sua vita da selvaggio non si riscatta nel consesso degli uomini e diventa, anzi, un’abiezione più cupa, più disperata. L’uomo rieducato alla civiltà sembra subirne, daccapo, l’incantesimo sinistro: in venti giorni sperpera la sua parte di bottino, rimane povero e deriso, se ne va a cantare in chiesa la domenica per “pregare due volte” e guadagnarsi almeno il paradiso. Se da selvaggio Ben Gunn aveva sognato la salvezza, concreta e materiale, di una nave che passasse a riprenderlo, se grazie a quel sogno aveva mantenuto vivo l’ingegno attrezzando una lancia, impadronendosi del tesoro, adesso che il sogno si è al tempo stesso compiuto e dissolto non gli resta che raccomandarsi l’anima a Dio.

Non prima di aver decretato il destino di Silver, però. Di avergli riconosciuto, per qualche oscuro merito (e forse per pietà del suo stesso destino di sconfitto) il diritto alla libertà. O piuttosto di avergli decifrato, nel cuore, quella malvagità, quell’irrequietezza diabolica, che nessuna punizione potrebbe arginare, che rischierebbe di propagarsi tra il prossimo come una mortale infezione.

Oscuramente, in un passaggio appena accennato, l’imperfezione del pirata si trasforma in un’occasione di solitaria rinascita. Le ultime battute del romanzo sono intrise di una suggestione misteriosa e malinconica e, al tempo stesso, di un indizio profondo sull’indole del suo autore.

«Non c’è niente di più bello che dimenticare, se non forse l’essere dimenticati», sosteneva Oscar Wilde, altro totem letterario dell’età vittoriana. Inconsapevolmente fedele a questa massima, una volta conclusa la caccia al tesoro, Silver prende il mare e si eclissa. Stevenson lo raggiungerà qualche anno più tardi e insieme andranno a vivere, fuori dalle pagine del libro, liberi finalmente dal cappio della presunta civiltà, l’avventura più vera della loro vita.