Stupirà piacevolmente anche chi di Buzzi è stato un frequentatore assiduo e conosce bene i suoi esili ed eleganti libretti constatare che il bel volume di Tutte le opere, appena uscito per La Nave di Teseo a cura di Gabriele Gimmelli, sia così ricco. Sceneggiatore, scenografo e regista in una prima fase della sua vita, Aldo Buzzi (1910-2009) lavora poi come editor alla Rizzoli e si dedica alla scrittura in età avanzata. Diventa famoso soprattutto con un originale “ricettario”, L’uovo alla kok (1979), ma scrive anche di viaggi, letteratura e memorie della sua lunghissima vita, durante la quale è sempre riuscito a conservare uno sguardo fresco e curioso sul mondo: «Ho cominciato a scrivere tardi», racconta, «così ora, malgrado l’età, posso in un certo modo considerarmi uno scrittore giovane uno che ancora legge imparando, non ancora stanco di imparare» (Key West, 1998). Nel nuovo volume, a tener compagnia alle opere pubblicate (e incessantemente aggiornate) da Buzzi, ci sono parecchi ripescaggi di brani via via espunti e di testi dispersi usciti su rivista; in chiusura la preziosa appendice biografica, con filmografia e bibliografia completa degli scritti di e su Buzzi. Piacevolissime poi le numerose illustrazioni originali del disegnatore Saul Steinberg, amico di una vita e suo principale sostenitore nella carriera di scrittore (è infatti anche merito suo se Buzzi è più letto in America che in Italia). Ma quello che più colpisce scorrendo le pagine del volume è la continuità, anche in epoche molto distanti della vita e della esperienza letteraria di Buzzi, nella scelta della forma breve (taccuino, diario, raccontino autobiografico), che Antonio Gnoli nell’Introduzione chiama «fedeltà alla forma rapida del frammento».

Il taccuino resta uno dei formati prediletti e congeniali alla penna veloce ed esatta di Buzzi, come mostra già il titolo del suo volume d’esordio, il Taccuino dell’aiuto-regista, uscito per Hoepli nel 1944 con l’impaginazione di Bruno Munari e qui riproposto in ristampa anastatica. È soprattutto in viaggio che lo scrittore usava annotare tutto quanto vedeva su tanti quadernetti, ognuno con indicazione precisa di data e luogo, come si può vedere da quelli esposti nella mostra dedicata a Buzzi e Steinberg a Sondrio nel 2015; e dispiace quasi che alcuni taccuini inediti non abbiano trovato spazio nel volume, in particolare quello parigino del 1959, citato più volte nell’appendice biografica e dall’apparenza molto promettente. In questo senso l’esempio estremo della scrittura buzziana è senza dubbio il Piccolo diario americano (1974), composto di brevi appunti dal «carattere più “stenografico” che narrativo» (Gimmelli, Nota all’edizione) – nello stile ricorda quasi le descrizioni di Bamako in Avventure in Africa (1998) di Gianni Celati. Il diario si compone di due parti, la prima dedicata al viaggio di undici giorni nel sud degli Stati Uniti del febbraio 1954 insieme a Steinberg, la seconda agli spostamenti attraverso il Centroamerica per le riprese del documentario America pagana (unica opera cinematografica diretta da Buzzi, realizzata nel 1956, ma uscita solo due anni più tardi). La poetica del Piccolo diario americano viene sintetizzata nella frase con cui Buzzi chiude la ‘Premessa’, scritta nel 1964 in occasione della prima pubblicazione delle pagine statunitensi sul «Caffè» di Vicari:

Una mattina di febbraio, affacciandomi alla finestra, vidi giù una grande Cadillac nera. Ricominciava la meraviglia di viaggiare in un paese sconosciuto, di arrivare ogni sera in un posto nuovo dove tutto si presenta con l’aspetto unico e irripetibile che hanno le cose la prima volta che si vedono, che è un peccato sciupare con una più approfondita conoscenza.

Seguendo fino in fondo questo proposito, Buzzi tratteggia in poche righe i caratteri dei paesi latinoamericani che visita, secondo alcune insolite costanti che si ripresentano in ogni nuova capitale raggiunta – il tasso di conversione tra la moneta locale e il dollaro, i nomi delle marche di sigarette nazionali, i cartelloni pubblicitari dei candidati alle imminenti elezioni politiche. Seguendo Buzzi nei suoi spostamenti si può cogliere in queste pagine il grande fascino che su di lui esercitano i nomi, tanto da essere a volte sufficienti per delineare i caratteri dei luoghi visitati. Così, arrivato con Steinberg a New Bern, l’autore annota che «una vaga aria svizzera aleggia sulla città». Ripresa la strada, i due amici raggiungono «Hagerstown, città tedesca», dove trovano ad accoglierli «bistecca con mele cotte, cavolo, burro abbondante. Coro di anziani dietro una vetrata, in strada» – scenario effettivamente dall’apparenza molto teutonica! Del resto, come ricorderà anni dopo lo scrittore in Parliamo d’altro (2007-2008), «la bellezza delle parole non dipende dal significato», ma forse più da quello che suggeriscono alla mente di chi, come Buzzi, le assapora lentamente, come se si trattasse ogni volta di una pietanza nuova. Talvolta i nomi incontrati nei viaggi o ripescati dalle memorie personali o letterarie creano piccole costellazioni nella mente dello scrittore, fino a formare lunghe serie che terminano spesso con i puntini di sospensione, aperte a ogni possibile continuazione da parte del lettore.

Lo stesso gusto per l’elenco che già traspariva dal Piccolo diario americano, tratto tra i più riconoscibili della scrittura di Buzzi, torna in Čechov a Sondrio – libro che, a dispetto del titolo, non racconta di un’improbabile sosta del drammaturgo in Valtellina, ma è un resoconto del viaggio in URSS di Buzzi e del suo amore per la letteratura e la cultura russa. Se nei paesi centroamericani comparivano la lista delle pensioni di Iztapa (Messico), la dieta seguita dalle varie di specie di uccelli tropicali lì tenuti in una voliera, i nomi degli innumerevoli frutti esotici incontrati sui banchi dei mercati, muovendosi tra Mosca e Pietroburgo lo scrittore è invece alle prese con la stesura degli elenchi delle marche di vodka, dei nomi di cuochi famosi dei tempi degli zar, dei rivoltosi capi cosacchi o delle vecchie vie che circondano il Cremlino (via dei Ladri, via dei Cuochi, via dei Panettieri, via dei Coltelli, ecc.). Inseguendo i nomi, le loro etimologie e le associazioni che scatenano, Buzzi rivolge l’attenzione talvolta a fatti apparentemente privi di alcun valore, ma che permettono di rileggere la realtà in modo del tutto inaspettato. Soltanto un appassionato di cucina popolare come lui avrebbe potuto notare che «leggendo i classici della letteratura russa la parola che si incontra più spesso è “cavolo”, seguita da “cetriolo”», oppure che, continuando nella sua particolare rilettura gastronomica della storia del romanzo russo, «Gor’kij significa “amaro”».

I nomi sono per Buzzi una delle chiavi d’accesso alla comprensione del mondo, oltre che la fonte principale per le innumerevoli divagazioni e digressioni di cui è fatta la sua scrittura. Queste spesso prendono il sopravvento, si intrecciano e si alternano ad altri sentieri narrativi, ricordi, riflessioni in un monologo interiore continuamente interrotto e ripreso, ma mai oscuro. Seguirlo per chi legge è un piacere, perché l’abilità dello scrittore comasco sta tutta nella giustapposizione di questi materiali eterogenei, che potremmo chiamare montaggio, per rendere omaggio ai lunghi anni passati a lavorare nel cinema, o ancora “cucina”, se volessimo propendere per il versante gastronomico della sua produzione. Scrive Gnoli nell’Introduzione che «il viaggio fu per Buzzi tanto attrazione per la distanza (America e Russia, ma anche Messico e Indonesia) quanto nostalgia per la prossimità». Lo dimostrano gli accostamenti imprevedibili e l’andirivieni tra le città visitate dallo scrittore nei suoi Viaggi a Giacarta, Gorgonzola, Crescenzago, Londra, Milano, anche se forse l’esempio più icastico del rapporto di Buzzi con l’altrove resta lo splendido incipit di Čechov a Sondrio. Qui viene ricordata la “izba” che si trovava vicino allo zoo dei giardini di Via Palestro, che Buzzi sposta nella sua Lambrate per creare un perfetto angolo di Russia insieme all’edificio di Città Studi che tutti a Milano (Gadda compreso) chiamavano Kremlin:

A Milano, fra le piante del nostro “giardino d’estate”, c’era una izba russa. Ricordo i grossi tronchi di legno scuro, la veranda dove una vecchia servente (forse mi confondo con Gogol’) accoglieva gli ospiti con un profondissimo inchino. Non era lontana dal giardino zoologico dove un lupo siberiano camminava in continuazione da un angolo all’altro della gabbia, sperando ostinatamente di trovare alla fine un buco da cui uscire nella steppa di Milano. […] L’izba russa non c’è più. Anche il proprietario, Paolìn (Pašen’ka) che dio gli conceda la pace eterna! Non c’è più. Il nipote di Pašen’ka, succeduto allo zio, ha demolito la russkaja izba – era marcito il legno – e costruito al suo posto un chiosco privo di carattere russo e, in generale, di qualunque carattere.

Già in queste poche righe si coglie come Buzzi non ceda al facile fascino dell’esotico, ma voglia invece esplorare più a fondo le corrispondenze tra luoghi e cose solo apparentemente distanti tra loro invertendo l’ordine dei fattori: non è strano tanto il fatto che a Lambrate ci fosse una russkaja izba o che al giardino zoologico si aggirasse un lupo siberiano, quanto piuttosto che il nipote di Pašen’ka (nome chiaramente più appropriato di Paolìn in queste circostanze) abbia voluto mettere fine a tutto questo. Ma nella vita di Buzzi, prima di Pašen’ka e dell’izba, erano già comparsi personaggi della letteratura e della storia russa in carne ed ossa ben prima di averli incontrati nei libri. «Grigorij Grigor’evič», leggiamo più avanti, «mi ricorda uno zio, uno zio di Sondrio, in Valtellina, buono come il pane, che una disgrazia aveva un po’ smemorato». Buzzi insiste più volte su queste analogie, tanto da farcele sembrare come un qualcosa di inevitabile: la vecchia Russia, che siamo tutti abituati a immaginare così lontana, in realtà non lo è affatto; va cercata tra le montagne lombarde, non molto più in là di Lambrate e dei laghi prealpini. Buzzi chiude il suo volume con un ultimo ricordo d’infanzia della sua famiglia valtellinese, stavolta dedicato alla nonna, la cui cameriera e un altro “servo della gleba”, Patato, gli ricordavano personaggi di Čechov tanto quanto la “Prospettiva Piazzi” gli ampi viali di Pietroburgo:

Nei primi anni di vita ho fatto in tempo a vedere la Russia di Čechov. Fu in casa della nonna paterna, a Sondrio, nella Prospettiva Piazzi, dove la nonna, che era vedova, viveva assistita da una serva (della gleba) di nome Caterina, brava donna, più paziente di una russa per i capricci della padrona, che teneva molto al suo titolo di nobildonna. Viveva in casa come parte della famiglia, senza ricevere nessun salario, come Lenchen, la fedele domestica di Marx.

Sarà ormai piuttosto chiaro da quanto detto finora e, per quanto possibile, dalle brevi citazioni delle sue opere qui riportate che Buzzi è stato ridotto ingiustamente allo scaffale delle curiosità letterarie o dei casi editoriali. Di lui si è parlato spesso come di un autore extravagante, usando la formula paradossale di “grande minore”, troppo spesso limitandosi a ricordare il suo volume più celebre, L’uovo alla kok, che l’ha trasformato agli occhi di molti in una specie di “scrittore di ricette”. Ora, ci si può sicuramente cimentare ai fornelli seguendo le indicazioni di Buzzi, mai troppo stringenti e severe: in questo i suoi libri sono sicuramente più versatili della improponibile Cucina futurista, il cui fine, ci ricorda lo scrittore comasco, era «semplicemente di scrivere qualcosa di valido, e l’errore è stato di voler passare dalla carta stampata al piatto realizzato». In modo simile, andando oltre a liste di ingredienti e casseruole si arriva a riconoscere la qualità letteraria della scrittura buzziana, che emerge con forza dalle moltissime pagine di Tutte le opere che non possono non restare impresse a chi legge: la stanza-camera ottica in cui si trovano i personaggi della prima scena del Taccuino dell’aiuto-regista, l’infilata degli splendidi e inutili oggetti kitsch che riempivano le case italiane durante il Ventennio fascista (Cose belle), il surreale omicidio della coppia di salumieri che serve “prosciutto di plastica” ai clienti o i cuochi seminudi avvolti da fiamme infernali intravisti nel seminterrato di un albergo del Lido di Venezia (L’uovo alla kok). Buzzi gastronomo, insomma, ma soprattutto grande scrittore.


Buzzi_tutte-le-opere_piattoAldo Buzzi, Tutte le opere, a c. di G. Gimmelli, intr. di A. Gnoli, Milano, La Nave di Teseo, 2020, € 35.

* Nell’header dell’articolo, Aldo Buzzi a Mantova nel 1948 ritratto da Steinberg, entrambi collezione privata.