In attesa della cerimonia di premiazione della XXXIX edizione del Premio Narrativa Bergamo, che si terrà sabato 29 aprile alle ore 18 al Teatro alle Grazie di Viale Papa Giovanni XXIII, proponiamo delle brevi interviste con i cinque autori finalisti. Dopo Alberto RavasioGiorgio Vasta, Silvia Cassioli e Matteo Melchiorre, chiudiamo oggi con Chiara Alessi, in cinquina con Tante care cose. Gli oggetti che ci hanno cambiato la vita (Longanesi 2022).

1. In Tante care cose si mescolano diverse storie: quella degli inventori, celebri o anonimi, quella delle imprese che hanno dato spazio alle loro invenzioni, quella della società italiana, in cui gli oggetti si sono diffusi al punto da condizionare nuove pratiche e definire abitudini. Come si lavora per ricostruire la storia materiale, la storia degli oggetti? E che peso ha, nella tua passione per questa storia, la tua esperienza famigliare?

“Come si lavora?” è una domanda che mi piace molto, e che mi obbliga a provare a raccontare tre sfumature diverse di uno stesso lavoro, o tre lavori diversi che convergono con diverse percentuali, di volta in volta, nel “come” faccio, o provo a fare, il mio lavoro. Mi spiego. Una cosa, un lavoro, è quello degli storici del design, cosa che io non sono tecnicamente, nel senso che non sono iscritta a nessun albo per esempio, eppure le storie del design sono a tutti gli effetti una mia fonte, direi la fonte principale. Una seconda cosa, un secondo lavoro, è quello della ricercatrice, di nuovo non in senso accademico, che però ci porta vicini come mestiere più a una specie di archeologia del contemporaneo in cui sono in gioco tantissimo le fonti orali e le cosiddette “fonti non ufficiali”, che non necessariamente collimano con quelle della storia, e sono in gioco gli archivi che per me sono fonti di scoperte continue. Ma poi c’è una terza cosa ancora che è il mestiere di divulgazione che, per me almeno, è quello di isolare dalle fonti citate sopra quelle storie che di volta in volta mi sembrano più interessanti da raccontare e le voci attraverso cui farlo. E ha più a che fare con una costruzione drammaturgica.

2. La rubrica che hai tenuto su Twitter, #designinpigiama, da cui è nato questo libro, ma anche i podcast e le lezioni che tieni, oltre ai libri che hai scritto, ti hanno offerto tante occasioni per confrontarti direttamente con il pubblico: qual è la consapevolezza delle persone circa il valore e la storia che gli oggetti si portano dietro? E come questa interagisce con le vicende e i valori singolari che ognuno di noi finisce per proiettare sulle cose?

Di nuovo: video, audio e testo sono cose così diverse, volendo tenere insieme quei tre lavori che dicevo sopra, che dire chi è la madre e chi sono i figli non mi convince totalmente. Cioè non credo che i podcast nascano dai video o che i video generino dei testi. Sono tutti media troppo diversi: devono essere gestiti diversamente. Ed è proprio il fatto di trovare dei come diversi, che mi permette di parlare agli stessi chi, più o meno sempre delle stesse cose. Non ho statistiche da portare e nessun patentino di giudizio da esporre, ma la mia sensazione è che a fronte di un’accessibilità mai sperimentata nella storia non solo ai mezzi di informazione ma anche a quelli di produzione, in generale la cultura sul come e sul perché delle cose sia abbastanza superficiale: magari incontro persone espertissime di una materia, ma che stanno così conficcate nel loro carotaggio che anche quella conoscenza approfondita in realtà non si trasforma mai in uno strumento per leggere il contesto, o trovare collegamenti tra le cose, o ricostruirne le ragioni. Però, al tempo stesso mi piace sorprendermi con le persone che a loro volta si scoprono interessate a cose che non pensavano che le riguardassero in alcun modo. Questo credo abbia a che fare con la questione del racconto, cioè l’idea di prendere per mano una persona, dirle “vieni con me, non ti parlo di design, giuro, ti racconto una storia”.

3. Molti pensatori contemporanei stanno concettualizzando la smaterializzazione dell’esperienza quotidiana, parlando di “non-cose” (Byung-chul Han) o di “iperoggetti” (Morton). Sotto altri aspetti, però, è evidente il valore iconico che certi oggetti hanno ancora – pensiamo, ad esempio, proprio a quelli tecnologici. Pensi che la cultura materiale del Novecento sia di fronte a una trasformazione radicale? Credi che stia cambiando anche il nostro rapporto con le cose?

Sì, credo che siamo di fronte a un’iperstoria epocale, ma la mia sensazione, molto epidermica per carità, è che non si vada verso la smaterializzazione in senso fisico, ma in senso simbolico e storico. Cioè non credo che rimarremo fisicamente senza oggetti perché avremo delegato tutte le loro funzioni al digitale, credo se mai che saremo così ingombrati da oggetti e in continua sostituzione che non avranno il tempo di diventare dei depositi di memoria collettiva, generazionale e simbolica. Cioè, ci saranno quelli del Novecento, così come li conosciamo, ma difficilmente la storia delle cose di questo primo secolo del nuovo millennio la potremo raccontare così come ci è venuto abbastanza facile con quella del secolo che ci ha preceduti e precedute. Permarrà, credo, invece ancora una dimensione intima e privata. Le care cose nel senso de I nascondigli di Montale.

4. Infine, una domanda più leggera che da sempre rivolgiamo ai finalisti del Premio Bergamo: quale tratto del tuo libro pensi possa farlo vincere?

Non lo so proprio. A me è piaciuto molto scriverlo, immagino che questo sia un requisito fondamentale perché piaccia anche a chi lo legge. Tra l’altro, io faccio il tifo per Guglielmo Sputacchiera. Ma questo si può dire solo dopo il 29 aprile, altrimenti il mio editore, giustamente, mi sgrida.