In attesa della cerimonia di premiazione della XXXIX edizione del Premio Narrativa Bergamo, che si terrà sabato 29 aprile alle ore 18 al Teatro alle Grazie di Viale Papa Giovanni XXIII, proponiamo delle brevi interviste con i cinque autori finalisti. Dopo Alberto Ravasio, Giorgio Vasta e Silvia Cassioli, tocca a Matteo Melchiorre, in cinquina con Il duca (Einaudi 2022).
[Nel rispondere alle nostre domande, l’autore ha preferito seguire un flusso discorsivo continuo, che tuttavia fa riferimenti ai tre interrogativi che l’hanno stimolato]

1. In un suo recente intervento, Françoise Lavocat restituisce la splendida metafora adottata da Le Moyne, gesuita del ’600, per parlare del passaggio dall’attività di poeta a quella di storico: quella del sentiero di montagna. “Percorrendolo”, dice, “si può andare da una carriera all’altra”. Sembra calzarti molto bene, questa frase, e in particolar modo dopo Il Duca, che a suo modo è anche una discussione del rapporto tra narrativa e storia, tra fiction e non-fiction o, meglio ancora, tra finzionale e fittizio. Come lo definiresti?

2. Ogni fonte storica comunica in un suo linguaggio; ma senza una lingua non se ne può dare il racconto. A sua volta, però, questa lingua risponde o si oppone a ragioni di tipo storico. Questa catena è davvero ineludibile, o secondo te c’è un punto di rottura, magari proprio nella lingua?

3. Quello che sembra il capitolo più sociologico del libro, Le maschere della discordia, è in realtà anche quello dove si fa più strada un’idea “naturale” di comunità paesana. Al contempo, però, “naturale” è anche l’uragano Vaia, vero evento verso il quale le pagine del Duca sembrano convergere, più ancora che non il mistero di Fastrèda. Che rapporto intrattengono la storia umana e quella naturale?

4. Infine, una domanda più leggera che da sempre rivolgiamo ai finalisti del Premio Bergamo: quale tratto del tuo libro pensi possa farlo vincere?

Vorrei motivare brevemente la mia scelta di non rispondere puntualmente alle domande che mi avete inviato per mail. L’intervista era lo strumento principe di un dialogo, di uno scambio di battute, dal farsi stesso del quale, nel gioco appunto del dialogo, potevano emergere nuove strade, nuovi temi, nuove risposte, spunti, condivisioni inattese. Era importante anche il tono, l’inflessione vocale. L’accento posto su questa o quella parola. Anche l’ironia aveva un peso più profondo e connotante. Lo strumento dell’intervista scritta trasforma un po’ un potenziale dialogo, una potenziale occasione, per chi dà le risposte, di crescita, in un esame, un interrogatorio, un questionario. È in linea con un’epoca, dico la nostra, in cui, nell’ipertrofismo della comunicazione, a cadere giù in un buco è proprio il dialogo. Io credo che questa premessa possa in fondo collegarsi, come tema, alla prima domanda. Ne Il Duca io ho tentato di mettere in scena un dialogo tra campi del mio agire: da un lato la ricerca storica, non certo nella sua natura disciplinare, ormai da decenni incastrata e soffocata da griglie, nicchie, valutazioni, mode, standard espressivi, menù tematici, ma nella sua basilare dimensione strumentale, quale metodo per rendersi edotti di qualcosa relativo al passato; dall’altro lato il racconto di cose che vedo qui, nel presente, sotto gli occhi, vicine o lontane, o che invece raccolgo con le orecchie, sempre qui e sempre ora. Sui rapporti tra storia e fiction si potrebbe discutere dei giorni interi; e a me questo, ammetto, interessa meno. Credo che a monte dovrebbe esservi un atteggiamento, un discorso qualitativo prima che teoretico.  Scrivere si scrive se c’è qualcosa di urgente da dire, e si può decidere se dirlo, volta a volta, prendendo il reale presente e rimodulandolo, o raffigurandolo fedelmente, o cercare invece nel passato (quanto profondo?) un tono che illumini il presente o viceversa. Cose così. È l’onestà dell’atteggiamento narrativo, la sua qualità, io credo, a fare la differenza sulle coppie scivolose di storia e finzione, finzionale e fittizio. Il resto è estetismo, sperimentalismo fine a sé stesso, gioco tecnico, compiacimento, bàgolo filologico.

La seconda domanda viene fuori dalla prima: la lingua. E anche rispetto a questo io non posso che rimettermi nella scia della risposta alla prima domanda. È l’atteggiamento che sta a monte del racconto a fare la differenza. Non ho dubbi in proposito. Quale che sia la lingua in cui parla la fonte, noi la restituiamo nella nostra lingua. Non ha senso provare a replicare la lingua di una fonte. Vuoi la lingua della fonte? Citala, direttamente, in purezza, per come è? Ma tu, storico o scrittore che tu sia, non puoi fare la scellerataggine di scimmiottare la fonte. Tu sei un medium tra la fonte e chi legge ciò che ne ricavi o ne ricaverai. E riecco l’atteggiamento, quella qualità iniziale da cui tutto dipende: serve il rispetto della fonte; l’uso della nostra lingua per raccontare una fonte non deve piegare la fonte a livello di contenuto. Il racconto del passato, insomma, per come la vedo io, è esattamente in étesso un punto di rottura col passato, la certificazione, anzi, di quella rottura.

Terza domanda: uomo e natura. Io vedo un rapporto, anche qui, dialogico. Dialogo. E anche qui dialogo non scientifico, non misurabile, non prevedibile, non standardizzabile. Noi stiamo vivendo un’epoca in cui la follia del progresso cieco ha giustamente messo in chiaro come ora la natura sia vittima dell’uomo. Chi potrà dire il contrario? Nessuno. Per conseguenza, ed è giusto e legittimo, stiamo tutti cercando di rafforzare una visione in cui la Natura viene consacrata come spazio da cui l’uomo, folle distruttore, deve ritrarsi, per cercare di ridurre i danni che ha già compiuto. Prende piede una filosofia, una scienza, una religione di questo ritrarsi. Ma è una religione che può essere in qualche modo “definitiva” questa? Io nel Duca provo a raccontare una comunità paesana che, pur vivendo delle sue proprie strutture storico-antropologiche, è conficcata dentro la Natura e da essa nasce e in essa si estingue. Ho provato a dire come la vedo. Non è giusto immaginare una Natura senza Uomo e un Uomo senza Natura. È vero, ed ecco l’episodio di Vaia nel Duca, che la Natura può cancellarci in un attimo (o lungo secoli) e continuare a vivere per sé stessa senza di noi; ma noi siamo parte della Natura. La Natura include noi. E noi dobbiamo starci dentro e per starci dentro dobbiamo modificarla, dobbiamo ricavarci il nostro spazio. Come ricavare questo spazio? Leggere il Duca: come il Duca, estirpare quando serve estirpare, piantare quando serve piantare; e comunque, sempre e comunque, avere cura del pezzo di mondo che il destino e la storia ci hanno dato in sorte. Averne cura. Prendersene cura. Metterci dentro le mani, lasciare lì parte del proprio tempo. Sostarvi.

Quarta domanda. Scena muta si può fare? Fosse una vera intervista faccia a faccia farei così: occhi sbarrati, espressione di complessivo disorientamento. Poi cincischierei qualcosa tipo: non so, non saprei, come potrei dirlo, un po’ imbarazza questa domanda… Poi farei gli occhi un po’ meno sbarrati, come uno che trova la via di fuga dal cul de sac, ma una via di fuga a cui in fondo si può anche ragionevolmente credere, e direi: “spero che il lettore possa apprezzare, nel mio libro, l’atteggiamento di complessivo rispetto usato verso i luoghi e le persone raccontati, la fatica che ho fatto per depurare il libro stesso dalla retorica delle conclusioni più scontate, le ore trascorse (gli anni) sulle pagine per restituire una storia franca, con i piedi e con l’anima dentro il reale”.

Così direi. Ecco: direi che questa può essere l’intervista. È venuta così. Non la rileggo, come non si rileggerebbe un’intervista rilasciata a parole.